venerdì 31 dicembre 2010


Devo intervistare dodici persone per un libro sullo 'sviluppo umano' curato da OxfamItalia. Per questo sono andato da Alex Zanotelli al rione Sanità a Napoli. Per la stessa ragione, sono andato a trovare Andrea Cornia, economista bolognese (lui di se stesso dice che è tosco-emiliano). Luogo diverso dalla microcasa-campanile di Alex. Appuntamento nella sua stanza (edificio D6, stanza 255) al nuovo campus universitario fiorentino a Novoli.
Ci saranno mille ragioni urbanistiche per aver trasferito tutte le università fiorentine in questa vicina periferia. Ma a me gli studenti piacevano nel centro della città. Almeno erano una folla diversa da quella dei turisti. Almeno c'erano trattorie e locali per studenti. Dove è finito Mario, celebre osteria di san Lorenzo? Vero, ora abbiamo lo splendore della biblioteca delle Oblate all'ombra della Cupola, ma la vitalità che si respirava fra via Laura e via Micheli, crocicchio di facoltà, mi sembra spenta nei corridoi senz'anima del campus di Novoli. Mi dicono che se non sei studente nemmeno puoi accedere alla biblioteca, si deve lasciare un documento per girellare fra le stanze e le aule. Insomma, sarà questione di nostalgia, ma non mi ritrovo. Nemmeno mi perdo: in fondo è facile trovare la stanza 255. Dico solo che se volevano costruirlo male questo campus, ci sono perfettamente riusciti. Un non-luogo, direbbe il celebre antropologo. Nemmeno bello come un aeroporto. Può nascere sapere in un non-luogo? Il corridoio-slargo delle stanze dei professori (le porte sono quasi sempre chiuse) è più ospedaliero (ma perché un ospedale deve assomigliare a un ospedale) che da posto in cui si costruisce una bella cultura. Mettete un quadro alle pareti, per favore. Le piccole sedie dalla stoffa azzurra sono da sala d'attesa di un dentista senza fantasia.
Andrea Cornia avrebbe molta voglia di parlare della sua produzione di olio in un piccolo podere di Fiesole. E credo che sarebbe stato saggio farlo. Ma l'intervista va fatta. E non va male. Anzi sono felice di scoprire che in America Latina la disuguaglianza, smentendo pessimistiche previsioni, è diminuita. Cornia non è Zanotelli, ragiona con l'econometria, con i modelli, con equazioni complesse. Ma anche lui appare contento di dimostrare che la diminuzione della disuguaglianza e la crescita della democrazia sia fortemente correlate. E che l'America Latina sia controtendenza: mentre in tutto il mondo la disuguaglianza cresce (in Cina, nel nuovo impero cinese, si è impennata), nell'America Latina delle democrazie di centrosinistra è diminuita.
San Casciano, 30 dicembre 

domenica 26 dicembre 2010

Karibù al rione Sanità. Un giorno con Zanotelli


Il campanile della grande chiesa di santa Maria nasconde una stramba casa verticale. Piazza centrale del quartiere Sanità, uno dei tanti ventri di Napoli. Padre Alexe (con l’accento sull’A fra questi vicoli) vive qui. Stremata bandiera della pace appesa a una finestra, portone verde, Karibù, Benvenuti, porta sempre aperta quando è in casa. Microstanza a piano terra invasa da cartelloni, striscioni, manifesti, riviste. Scala a chiocciola, strettissima e in pietra, che si arrampica verso il piano superiore. ‘Chi è?’, si sente la sua voce arrochita dall’inverno e dalle troppe riunioni. Voce da bluesman, se Alex cantasse. Al secondo piano, altro microspazio. La inevitabile maglietta colorata di Korogocho sotto il golf grigio con la lampo. Tavolo, cucina con antico fornello a due fuochi, bombola del gas, stufa elettrica, incerto groviglio di fili elettrici, forno a micronde da mercato bosniaco. Africa alle pareti, Korogocho non si dimentica. Alcuni ragazzi (microfono, computer) stanno intervistando padre Alex. Sale un uomo con i dolci fatti dalla sorella. Sale Vincenzo che deve parlare. Si affolla la cucina. Anch’io sono qui per una intervista. E vorrei essere qui e basta.

Alex sta bene, ha un’aria tranquilla. E’ perfino ingrassato, capelli quasi lunghi. So che si prendono cura di lui. Porta bene i suoi anni. Sul fornello un minestrone, verdure del Gruppo di Acquisto, bastoncini di pesce nel micronde. C’è tempo per un caffé che sbotta dalla macchinetta in equilibro precario. Libro di un biblista americano sul tavola. Il sole fatica a raggiungere le finestre della casa di Alex. Vanno via tutti, rimaniamo soli. Gioco perfido dell’intervista. Parliamo anche dei nostro passato. Dei giorni lontanissimi di Spello (lì nacque un pezzetto di Greta e questa è storia personale), di quelli, altrettanto lontani, di Korogocho (e quella storia, vivaddio, va avanti anche senza di lui). Parliamo di Nigrizia, della sua pressione alta, della fatica, della povertà. Del nostro mondo che non fa altro che litigare (si è spezzata anche Carta, il Pd tradisce).
Usciamo per la piazza. Da comprare i giornali (Repubblica, il Manifesto, tutto insoddisfacente), gli sgombri, da lasciare qualche spicciolo alla rom da sempre seduta davanti alla chiesa. Vuole che assaggi il pane del quartiere. Un saluto per tutti e tutti salutano. Io vengo subito catalogato: il giorno dopo quando da solo ripasserò per questa strada, mi avvicina un tipo e mi dice: ‘Voi cercate a padre Alexe? Tornerà fra poco’. Visto e preso.

Ma ora risaliamo. Scaldiamo il minestrone e i bastoncini. E poi insalata. Olio buono. Tutto molto piccante. Molto aglio. Alex ama i sapori forti. Preghiera, ringraziamento, vengo coinvolto anch’io nelle sue parole, sto in silenzio, non so dove mettere le mani. Mi viene voglia di pregare. Torna il ragazzo che voleva parlare. Dice degli studenti. Bisogna trovare tempo anche per lui. Salgono un altro piano di scala e ne ascolto le voci. Rigoverno i due piatti, preparo ancora il caffé. Voglio aspettare Felicetta. E’ una pediatra, lavora in neonatologia. Da quanto Alex è apparso a Napoli, si occupa di lui. Bisogna chiamare lei se si vuole conoscere il suo girovagare per l’Italia. Lei vigila sulla sua salute, evita che prenda troppi impegni, lo accompagna in macchina, gli racconta quanto accade per Napoli. Donna di passioni forti. Ha cercato di portare in piazza contro i rifiuti i medici con il camice. Niente da fare: sono venuti solo in dieci. Sono testardi, Alex e Felicetta. Lei arriva che sono quasi le tre. Direttamente dall’ospedale. Il minestrone viene riscaldato una volta di più. Felicetta ricorda almeno quattro impegni (incontri, visite, solidarietà a gente in sciopero della fame riunioni) per il pomeriggio. Io scatto foto. Alex e Felicetta fanno finta di niente.
Vado via. Questo tempo è stato un dono. Passeggio con lentezza nel caos aggrovigliato delle strade della Sanità. Guardo con sorpresa le architetture di palazzi da meraviglia. I loro cortili oggi sono un cumulo di auto, un labirinto di case slabbrate. Si abita ovunque alla Sanità. Nei vicoli sfrecciano i motorini. Guardo l’arco di piazza santa Maria. Censimento di negozi: una ricevitoria del lotto, un’agenzia d’affari che si occupa anche di pompe funebri (ma io sono di fuori e posso non capire), parrucchiere Sasà per donne, un altro centro scommesse, l’oasi Pacha, estetista specializzata in abbronzature, un minimarket con scritte solo in cirillico, un Caf della Cisal con un cartello che avverte: penalista sempre presente. La piazza è come un saggio di sociologia sulla Sanità. O, forse, ho voglia di capire troppo. Torna la donna rom davanti alla chiesa. Prometto a Massimo, della cooperativa Paranza (gestiscono servizi turistici) di tornare a visitare le catacombe. Passo davanti a santa Maria Saecula. So che qui è nato Totò. Non trovo la casa, mi arrendo troppo presto. Un gruppetto di ragazzini, appollaiati sulle Vespe, mi guarda passare.




domenica 19 dicembre 2010

Le arance del camionista


Livorno è una meraviglia in un’alba di ghiaccio
Incerto. Un’ora per uscire da Livorno.  Tornare indietro? Vago per una Toscana gelata. Chiusa la superstrada, dirottato su Cascina, una strada lungo un canale, dritto per Altopascio. A dieci all’ora. Il paesaggio di una bellezza irrimediabile. Il sole è magnifico. Code di camion a ogni svincolo. Ingorghi che si aggrovigliano attorno alle rotonde. Arroganza dei Suv.
Una mano si allunga fuori dal finestrino di un camion. Da quante ore cerchi una via di uscita? Un uomo con i baffi senza dire una sola parola. Uno sbuffo del respiro che si congela nell’aria. L’uomo ha un’arancia in mano e la porge a un altro camionista. Un lampo di colore nel bianco e nero del paesaggio. Scambio di gentilezza a mezz’aria. Fra due pachidermi.

A metà pomeriggio arrivo a Firenze. Come se fosse stata bombardata. Almeno nella periferia. Camioncini sbandati, auto in bilico sul bordo della strada, vesponi abbandonati sulle salite del Ponte all’Indiano, pezzi di parafanghi disseminati sull’asfalto, scheletri di catene saltate. Eppure, la città sgangherata sembra percorsa da un soprassalto di vitalità. La gente si incontra, ha cercato rifugio, ospitalità, riscoperte vecchie amicizie. Si è regalata tempo. Ha dormito in altre case, ha ritrovato la dimensione di una solidarietà. Uno dice: ‘Sono tornato a casa a piedi e incontrato persone che non vedevo da dieci anni. Mi ero dimenticato che vivevano a due passi da me’.
Lo scorso anno, in questi stessi giorni, un’altra nevicata inchiodò l’Italia. Allora ero in treno e impiegai mille ore per raggiungere Roma da Firenze. La neve, questa poca neve di ieri, venerdì 17 dicembre, potrebbe ricordarci che non tutto ci è concesso. Che ci sono dei limiti alla nostra potenza sulla natura.
Firenze, 18 dicembre

Venerdì 17



Venerdì, 17 dicembre, a Campiglia Marittima è cominciato a nevicare alle otto e trenta del mattino. La neve ha subito attaccato. E' stato l'inizio di una lunga giornata. 

Ore 9.
Mostrami tutta la tua potenza. E qualcuno accetta la sfida. Venti minuti. Venti minuti e le finestre si spalancano, la neve arriva da ogni lato, non cade, vola come una liana lungo linee orizzontali e oblique, ti accerchia e trova subito terra e cemento e asfalto sulla quale attaccare. 




Gli olivi sono alberi alpini, il mare è pista per sciatori, una parapendio si tira dietro un ragazzo vestito di nero in piedi su uno snow-board, i cani saltellano sorpresi, alcuni uomini maledicono il momento in cui sono usciti di casa, la ragazza del bar si infuria e sfascia il cellullare, altri se la godono provando numeri da equilibristi. La tormenta dà sfoggio di violenza perfetta. Bellissima nel suo ardore. Grandiosa nella sua forza. Non esiste difesa. Se non stare lì ad aspettare la sua clemenza. E, nel frattempo, fosse anche l’ultimo della tua  vita, godersela. Questi, davvero, sono istanti in cui pensi che vale la pena essere al mondo. Sono la ragione dei tuoi giorni: ammirare questo spettacolo che non può essere raccontato. Quale fotografia può rendere giustizia al mare che ‘fuma’. 
Le sue acque sono più calde dell’aria, più calde del cielo, più calde delle nuvole basse. E allora emettono vapori, ogni onda smuove fiocchi di vapori: è una nebbia che si innalza e vola veloce seguendo il ritmo di una marea incessante. E’ una mare atlantico che si è spostato sulle coste di Baratti. Una signora, per braccio a suo figlio, ride come una bambina felice e scatta fotografie con la delicatezza di un grande artista. Suo figlio è stupito di sua madre. Camminano, un braccio nel gomito dell’altro, lungo la spiaggia, e lei non vuole perdersi un solo istante di questo giorno che mai, nella sua vita, aveva visto.

Ore 16.
I momenti della paura sono stati sulla pista ghiacciata dell’autostrada. Claustrofobia a cielo aperto. Nessuna via di fuga. Il camion che ti si incolla alle spalle, vedi lo sperone del suo parafango all'altezza del tuo lunotto. Il tuo cammino diventa un risiko fuori equilibrio. Ti viene voglia di mettere una musica a tutto volume e lasciarti andare con un gran finale sperando che lo schianto sia immediato. Invece, vivacchi, facendo finta di non avere addosso una paura che manda a balzelloni il cuore. Immagino che il viso, coperto da sciarpa e berretto, non lasci intravedere nessuna emozione. Ma perché quel camion non si stacca da dietro? Sbandi sul ghiaccio e non puoi lasciarlo passare. Non c’è spazio. C’è solo un sentiero ghiacciato sul lato sinistro dell’autostrada dove forse puoi passare tenendo la prima ingranata e non pensando a cosa potrebbe accadere se le ruote si ribellassero a quel fragile comando del volante. Fai lampeggiare i fari posteriori e vai avanti. Perché niente altro è previsto dalla gabbia dell’autostrada. Scopri che non ci sono pensieri che ruzzolano nella testa: c’è da fare una cosa, andare avanti, e si fa. Alla fine, ti sposti sul ghiaccio e il camion ha uno moto stupido di rabbia. Clacson che fa sobbalzare, clacson che un urlo di pazzia e la sua massa rossa che sfiora (ti sembra che sfiori) il tuo sportello. Non passa mai la mole di questo pachiderma. E vai avanti. Il cielo si rabbuia e non sai dove è finita la paura. E’ impalpabile e invisibile. Ma assente dai tuoi gesti. Mani sul volante e qualche volta azzardi a mettere la seconda. Un altro camion. E gli stronzi con i Suv.

Ore 19.30
Siamo bloccati. Da un bel po’. Sulla doppia curva di un piccolo ponte. Strada di accesso a Livorno. Per arrivare fino a qui ho fatto lo slalom fra alberi abbattuti e la follia di un’autostrada di ghiaccio.

Il camionista rumeno ha una bella voce. Da cantante blues. Ma non passa le notti al Cotton Jazz Club. Ha solo fumato un milione di sigarette. Cento solo oggi, immagino. Ha il finestrino abbassato, nonostante le temperature sotto zero. Mi avvicino navigando su una lastra di ghiaccio. Lui scuote il fumo della sigaretta e ha un sorriso quasi divertito. Forse rassegnato, ma non dimesso, non amaro. Ha una sua dolcezza. E la barba puntuta. Non si è rasato questa mattina. E’ in viaggio da una dozzina di ore. E’ bloccato dalla neve, dagli alberi caduti, dagli immensi camion-cisterna finiti di traverso lungo il viale che conduce a Livorno. Città che non può essere raggiunta. E’ il suo mestiere, guidare camion. Non sembra poi molto preoccupato. Aspetta. Una sigaretta dopo l’altra, il gomito fuori dal finestrino e nessun consiglio. Né per sé stesso, né per me. Ma allunga una bottiglia di grappa e l’anima prende consolazione. Mi dice che forse dalla via del mare, se hanno liberato la strada dai tronchi degli alberi, si può passare. Lui non prova nemmeno, non c’è spazio per fare manovra. Aspetta. ‘La notte, qui’. Lo lascio con un gesto di intesa. Lui alza la mano e la cenere della sigaretta vola via. Fra lampeggianti e piste di neve ai bordi della passeggiata a mare arrivo in una Livorno deserta.

Ore 20
Infine, Monica. Come il tappo di una grande vasca, le auto si liberano. Scompaiono in qualche anfratto a me sconosciuto. La strada è un deserto. Livorno è un deserto. Ingresso dalla zona del porto e delle industrie. Un capannello di camionisti di camion-cisterna. Pozze di acqua sporca. Schizzi di qualcuno che passa troppo in fretta, mura che impediscono di vedere il groviglio di tubi e di edifici delle fabbriche. Entrare a Livorno assomiglia ai primi passi nella periferia di Bagdad. Un mondo in guerra perenne. Ha, devo ammetterlo alla mia anima malata, una sua fascinazione. Lascio che sia l’asfalto bagnato a guidare la mia macchina. Il paesaggio cambia: l’orrore urbanistico di questa periferia industriale lascia spazio, in un disonesto gioco del contrappasso, a mura medicee, banchine medioevali e alla bellezza dei lungomare liberty. Conosco le architetture del Bagno Pancaldi e della Terrazza Mascagni. So che le sue pietre, lavorate con maestrie da manovali più che esperti, sanno di mare. Qui vive Monica. Le finestre della sua casa danno su questo mondo. Ho conosciuto Monica appena una settimana fa. Un gioco di coincidenze e talismani che allacciano la Palestina al mondo andino del Nord dell’Argentina per approdare in una casa sul mare a Livorno. E non mi sono smarrito a seguire queste tracce. So ritrovare la casa di Monica (non è difficile). E la sua porta di apre, nonostante sbagli a suonare il campanello. Sapevo che questa casa era perfetta per viverci. Si sentono, nella notte, le onde correre sulle banchine, se ne immaginano gli spruzzi altissimi. Sembra di avvertirlo il mare attorno a questa casa.
Dovevano esserci amici a cena. Ci sono due orate. Questa giornata è una meraviglia. Le orate sono per me. Mi aspettavano. Sei ore per arrivare da Piombino a Livorno. E’ stato un grande venerdì 17. 



mercoledì 1 dicembre 2010

E ora che un aereo (lo stesso aereo, quasi gli stessi passeggeri, sicuramente lo stesso cane con una macchia nera sull’occhio che era sul volo dell’andata) mi ha riportato a casa?
Non si può trasformare un blog in un diario in pubblico. Non ho dimestichezza con questo strumento per capire bene cosa sia un blog. Sono un migrante della tecnologia. La diversità di un viaggio ha aiutato il racconto. Dal moleskine a un Acer One. Il racconto che cerca di trasformarsi in uno strano giornalismo. Autoreferenziale? Non so: il tentativo, sulle Ande, è stato il narrare quanto inevitabilmente accade in una terra diversa, in un viaggio, in un andare. Però basta aprire una finestra di casa, qui, in Italia, per vedere quante cose accadono anche qui. Quante storie, ora che ho fatto in tempo a vedere Fazio e Saviano raccontare, ci sono in questo paese. Sotto i nostri occhi. Banale, ma non così banale, scoprirlo ancora una volta.
Ma è possibile fare il giornalista senza un giornale?

E allora, adesso, notte fonda, ghiaccio al posto della prorompente primavera argentina, seguo la scia che lascia quella terra. Arrivo a casa che è buio. Niente luna. Abito in campagna. Funziona la luce crepuscolare, almeno una luce è accesa. Guardo i cancelli che serrano le case accanto alla mia. Cancelli chiusi. Ho un pensiero: sono venuto a vivere qui oltre venti anni fa. Mia figlia stava per nascere. Allora davanti a casa c’era una coppia di vecchi contadini, in altre due case abitavano altre coppie di cui siamo diventati amici (spesso cenavamo assieme, eravamo di continuo uno dall’altro). Non c’erano cancelli. Mia figlia ha vissuto i suoi primi anni di vita vagando di casa in casa. A volte la trovavamo sulle ginocchia dei due contadini. Andava anche a spasso sul trattore dello Zani.
I due vecchi non ci sono più, la loro casa è stata venduta, anche gli amici se ne sono andati per altre strade, e ora mi rendo conto che quasi non conosco i miei vicini. Ognuno vive oltre i propri cancelli. Per questo mi è tornata in mente Agua de Oro, il mio paese in Argentina. Il paese dove c’è la casa di Lucio y Gladys. Ho pensato che quando abbiamo cominciato il viaggio verso il Nord del paese, Lucio y Gladys hanno affidato la loro casa e i loro due cani ai vicini. C’è stata una cena di saluto, una promessa di racconti, una bella serata. C’erano tutti. A tirar tardi, a voler sapere del viaggio, a festeggiare il compleanno di Lucio, a voler incontrare gli amici stranieri. Ho intuito che c’era una comunità in quella strada di Agua de Oro. L’incontrarsi per un mate, per una chiacchiera, per un aiuto (nell’orto, in casa, per la lavatrice rotta…).
Questa comunità, anche nelle mie campagne, negli ultimi vent’anni, si è perduta. Questa è una ragione per andare via. Per tornare là dove esiste ancora un senso di umanità fra le persone e dove si vive bene se di poco ci si accontenta. Questa è una ragione per rimanere qua: per ricostruire un nuovo modo di stare assieme.

Si può scrivere questo su un blog. O è già un diario in pubblico?
San Casciano in Val di Pesa, 30 novembre

giovedì 25 novembre 2010

Adios, chicos y chicas

Il gesto è come un abbraccio.
Il braccio destro si allarga leggermente, si avvicinano le guance e il bacio è vero. Sulla guancia destra. Poi, un incrocio di occhi. In Argentina ci si saluta a questa maniera......un bel toccarsi, sfiorarsi, vincere timidezze. Si fa così per strada, a casa, fra sconosciuti e fra fratelli. Ricordate Maradona che baciava i calciatori prima delle partite del Mondiale? Ora capisco......forse dovremmo scrivere sui 'saluti'.....
Bien, ci provo. Allargo il braccio destro e provo a salutare questo paese.

mercoledì 24 novembre 2010

Gauchito Gill

A Saclanta....

A Salta
Mi piacciono le piccole bandiere rosse al vento del Gauchito Gil. Bel tipo, altro santo profano della folle devozione popolare argentina. Forse era un Robin Hood della Pampa. O, più, semplicemente non ne voleva sapere delle guerre che non lasciavano in pace questa terra a metà dell’800 e quindi disertò. Oppure amava una vedova e questo era insopportabile agli occhi dei fratelli della donna e di uno spregevole capo locale. Ma il Gauchito deve essere davvero esistito: nato a Mercedes, nella regione di Corriente, attorno al 1840. Ucciso da un poliziotto l’8 gennaio del 1878. Impiccato a testa in giù e sgozzato. In fondo era un disertore e un bandito, ma il Gauchito avvertì il suo assassino: ‘Tuo figlio sta morendo, dovrai pregare il mio sangue innocente perché si salvi la vita’. Il poliziotto uccise ugualmente il Gauchito senza alcuna pietà, ma quando tornò al suo villaggio scoprì che davvero il figlio era moribondo. Invocò allora il sangue della sua vittima e il Gauchito fu generoso: il ragazzino fu salvo. Il poliziotto tornò allora al luogo del martirio e dette sepoltura onorevole al Gauchito.
In Catamarca...
La storia del 'sangue innocente', con il mistero del racconto di bocca in bocca, si diffuse di paese in paese. Oggi non vi è regione dell’Argentina, dalla Terra del Fuoco alla Puna andina, dove, attorno ad altarini dipinti di rosso, ai bordi delle strade, non sventolino le bandiere (rosse) del Gauchito. Santo delle cose pratiche: si chiede successo economico, un appartamento, che arrivi la pensione (oggi anche via Internet). In cambio si lascia una sigaretta, un cartone di vino Toro, un lacciolo rosso, una statuetta (si fa lo stesso con la Pachamama, la Madre Terra). Santo che protegge i viaggi, fa evitare gli incidenti. Accenni di sincretismo: l’8 gennaio, sono almeno duecentomila le persone che vanno in pellegrinaggio a Mercedes e là si dice messa in onore del Gauchito. La chiesa, questa volta, non vuole lasciarsi sfuggire così tanta gente. Spesso il Gauchito appare a fianco della Vergine negli altari delle chiese rurali. E’ un Cristo criollo, un Cristo nato nel Latinoamerica. Il suo santino più diffuso lo ritrae, bellissimo (lunghi capelli, baffi ben curati, bolas in mano), con una croce rossa alle spalle. Si prega il Gauchito invocando la fede in Dio.
Sì, ho anche il santino del Gauchito Gill nella mia agenda. Sta diventando un pantéhon argentino.
Agua de Oro, 24 novembre

Difunta Correa

Altare della Difunta nella Cuesta Miranda

Santa scelta dal popolo. Fuori da ogni chiesa. Sfuggente alle mitologie del cristianesimo, nessun teologo è riuscito a racchiuderla in qualche culto ufficiale. Santa delle bottiglie, avvertono i nostri sguardi profani. Decine e decine di altarini, cappelle, semplici e minuscoli rifugi sono accerchiati da centinaia e centinaia di bottiglie di plastica che formano piramidi, trincee, muraglie che proteggono la statua della Difunta. Protettrice dei mandriani. E poi, tempi moderni, dei camionisti, dei taxista, degli autisti. Per questo, santa stradale. Inarrestabile fenomeno di immensa devozione popolare.
Il riposo della Difunta Correa
Deolinda Correa è vissuta ne deserti della provincia di San Juan a metà dell’800. Tempi di guerre. Di uomini arruolati a forza dai caudillos unitarios o federales. Guerre fratricide. Destino che travolse Baudillo Bustos, matrito di Deolinda. Venne trascinato via da uomini armati. La donna non volle abbandonarlo e cercò di seguire quell’esercito di sbandati. Con il figlioletto appena nato. Ma la sua sorte era segnata: senza   acqua, senza cibo non poteva attraversare il deserto. Deolinda morì all’ombra di un algarrobo. Il bambino si aggrappò al suo petto. E, seconda alcune versioni della leggenda, si salvò: alcuni guachos lo trovarono ancora in vita. Salvato dall’amore di sua madre. Deolinda venne sepolta sotto una croce, ma la sua storia non si smarrì. Venne raccontata di casa in casa, di bivacco in bivacco. Il primo miracolo, alla fine dell’800, fu semplice: una tormenta aveva disperso le vacche  del gaucho Pedro Zeballos e, solo la preghiera davanti a quella croce solitaria, permise al mandriano di ritrovare i suoi animali. Da allora, il popolo delle steppe argentine (gauchos, criollos, meticci, disperati della solitudine) scelse la Difunta Correa come propria santa.
Bisogna dare qualcosa in cambio per ottenere una grazia della Difunta: acqua, soprattutto. Deolinda non dimentica la sete. Per questo le bottiglie si accumulano attorno agli altari della Difunta. Ma è sufficiente una sigaretta, una piccola statua, un portachiavi, una foto, un pelouce, un nanetto, un paio di occhiali…qualsiasi cosa va bene, qualsiasi cosa è ben accetta dalla donna che sembra dormire….
Il luogo dove, si racconta, è sepolta la Difunta è diventato, in un secolo e mezzo, una città. Si chima Vallecito. Un milione di persone, ogni anno, si reca in pellegrinaggio dalla santa che nessuna religione riconosce.
Agua de Oro, 24 novembre




martedì 23 novembre 2010

Madonne


A Famailla, paesone squinternato e dall’aria ambigua, conto almeno dodici Madonne differenti lungo la Galeria Tematica de la Virgen, spettacolare carrellata di santi di cartapesta, con tanto di teatrale apparizione serale (nei finesettimana) della Madonna.
Le Madonne segnano la vita dell’Argentina. Madonne nazionaliste, avvolte nella bandiera bianca e celeste. Nuestra Senora de Lujan, protettrice della Nazione. Madonne dai veri capelli (a volte, mi dicono, sono crini di cavallo). Persino Virgen Gaucha del Mate, Madonna della Tradizione e della bevanda nazionale (protettrice, però, del Mercosur, area economica dei paesi delle Americhe meridionali). Processioni di famiglia, processioni di quartiere, processioni per grazie ricevute che attraversano le quadras delle città e dei paesi. Con rullo di tamburi e gente fervente. Devozione popolare. Roque, grande e grosso, mi parla con commozione dei suoi pellegrinaggi a Cochabamba e del figlio che è arrivato dopo l’intercessione della Virgen di Urkupina e di uno sciamano boliviano. La Virgen di Urkupina è apparsa, in Bolivia, dopo l’arrivo degli spagnoli, a una pastorella. Come a Lourdes o a Madjugorie, i bimbi-pastori sono la categoria sociale prediletta. La città di Salta, capitale del Nord argentino, è stata salvata da un terremoto da un’immagine miracolosa della Virgen (trovata, nuovamente dagli spagnoli, alla fine del ‘500, in un fiume peruviano dove aveva atteso l’arrivo della cristianità).
Il culto mariano ha avuto un successo forse imprevisto perfino dai missionari più fanatici: nel Latinoamerica è emozione di massa, fervore oltre i limiti della religione, richiamo turistico, paganesimo cattolico. Don Francisco, masticando coca, a San Antonio de los Cobres, mi dice che ogni anno organizza una sua festa alla Virgen del Perpetuo Soccorro. Festa nella quale dilapida i suoi magri risparmi. Le statue della Madonna, nella settimana di Pasqua, viaggiano incessantemente da una rifugio nella montagna alla chiesa del paese: a Tilcara è la Virgen de Copacabana che scende dal cerro per fermarsi nel centro della città. E allora sono feste di popolo. Dove si intrecciano i poteri delle confraternite esferzate di elettricità in una comunità.
Ana, però, a Famailla, arresta il suo motorino di fronte a San Exepedito. Il tempo di una preghiera, di una supplica, di un pensiero di speranza per un dolore. Chiedo perché questo santo e non il corteo delle Madonne: ‘Es muy milagroso, muy rapido’. Un santo potente per un problema da risolvere con urgenza. Un santo specializzato. Ana se va, senza un sorriso, con i suoi pensieri. San Expedito è circondato di oggetti-supplica.
Nel mio zaino, dono di Don Francisco, c’è una piccola statuetta della Virgen del Perpetuo Socorro.
Agua de Oro, 23 novembre



lunedì 22 novembre 2010

Cani di Argentina

La chiesa di Cachi


Un piccolo cane nero si gratta gioiosamente la schiena sul tappeto di velluto di fronte all’altare della chiesa di Humahuaca.
Il lupo, un po’ spelacchiato, che ci ha seguito stamattina per l’acciottolato di Cachi è andato dritto a bere l’acqua benedetta all’ingresso della chiesa di Cachi. E poi si accoccolata ad ascoltare la messa.
I cani di Argentina ti seguono ovunque. Dormono in chiesa o sulle tue scarpe. Si avvicinano caracollanti per la strada e si mettono dietro a te. Lasciati liberi davanti alle porte delle loro case, si regalano libertà e compagnia. Appaiono come stupiti che nessuno li maltratti. Sono in ogni strada, in ogni piazza. Aspettano davvero che qualcuno passi e loro si accodano con benevolenza e finto disinteresse. Quando sono stanchi, tornano a casa. Come se niente fosse.
Molti giorni fa. A Cachi

domenica 21 novembre 2010

Dalla parte sbagliata


E, alla fine, incontri anche  S.M. Che ha combattuto dalla parte sbagliata. Aveva vent’anni ed era un coscritto. ‘Se avessi potuto scegliere non sarei mai andato, ma sapevamo di avere i fucili puntati alla schiena. Dovevamo combattere contro la guerriglia’. Anni ’70, anni terribili. I peggiori dell’Argentina. Prima ancora della dittatura, durante gli anni di Isabelita Peron, nelle montagne di Tucuman ci fu una vera guerra. E S.M. non ha dimenticato. Possiede libri, editi dal Circulo Militar, che raccontano quel conflitto. Era l’operacion Indipendencia. Una guerra sporca. S.M. mi mostra il testo di una omelia di Pio Laghi, il vescovo che scelse di stare dalla parte della dittatura. Fa rabbrividire perché dà la sua benedizione a chi violerà il diritto pur di vincere. Improvvisamente, ho davanti l’altra Argentina. Quella che nessuno di noi vuole vedere. S.M. oggi ha quasi sessanta anni. Ma mostra, con forme di orgoglio, i ricordi di quella barbarie. ‘Ognuno ha le sue colpe e le sue menzogne – dice ancora – Come in ogni guerra’. Il conflitto nelle montagne di Tucuman terminò prima ancora del colpo di stato dei militari del 1976. S.M., trenta e passa anni dopo, ha una rivendicazione: una pensione per chi, da coscritto, ha combattuto quella guerra. ‘Le vittime dei militari, anche coloro che avevano in realtà attaccato governi legittimi, hanno ricevuto la loro pensione, noi no’, dice S.M. Alla fine un conflitto atroce si trasforma in una disputa economica.
Io ho negli occhi le migliaia di nomi di ragazzi e ragazzi scritti sulle mura delle prigioni di Cordoba. Domani, 22 novembre, qui, in Argentina, si ricorda il giorno dei Diritti Umani. nel centro di Cordoba, ci sono le fotografie di chi scomparve negli 'anni dei militari'. Fu una guerra contro la gioventù. 
Scritto il 24 ottobre a Humahuaca. Lassù nel Nord, nella Quebrada  

sabato 20 novembre 2010

Il tempo del mate



Ho cercato, con intenzione, di evitare di scrivere del ‘mate’. Mi appariva come un argomento scontato per chi scrive con parole europee (e occidentali? L’Argentina è molto più a Occidente dell’Europa: quanto sono stupidi gli stereotipi).  Pensavo che avrei scritto solo banalità. E poi non so nulla del mate. Nemmeno con quale erba è fatto. Non so se è migliore quello con palo o quello senza. So che quasi tutti girano con un thermos sottobraccio e la tazza (la zucca, la calavasa..) in mano (non è nemmeno comodo passeggiare portandosi dietro tutta questa roba) e, a ogni sosta, si toma mate.

Poi, ieri sera, i ragazzi mi hanno invitato a tomar mate. Al fiume. Al tramonto. Ragazzi di venti anni. Va bene, io sono loro ospite, ma non erano tenuti. Atto di cortesia, immagino. Ho pensato: a me il mate non piace molto. Troppo amaro per i miei gusti. E i ragazzi non si portano dietro lo zucchero. A loro piace amargo, il mate. Lo zucchero è considerato un inganno.
Sono andato. Un sentiero nei campi scende fino a una spiaggia di sabbia sulla sponda del fiume. Due cani, come sempre, ci accolgono con feste e balzi. Si scuotono addosso a noi, la fanghiglia che hanno sul pelo. Ci sediamo sulla sabbia. I ragazzi si tolgono le scarpe. Penso che dovrei farlo anch’io, ma non lo faccio.
Uno di loro comincia a preparare il mate. Riempie la zucca di erba, la rigira perché esca la polvere e rimangano solo i frammenti delle foglie e i palos, la inclina per versarci l’acqua calda del thermos. I primi sorsi (in realtà si beve con una cannuccia di metallo) sono per chi prepara il mate. Poi comincia il cerchio. La zucca passa di mano in mano. Ognuno aspira il suo mate e la restituisce al custode del thermos. Che versa nuova acqua. Molti giri, molta lentezza, molte parole, molti sorrisi. Le ragazze parlano veloci, a volte perdo il filo, ma mi sembra musica questa cantilena dolcissima di parole. A un certo punto il mate si è lavato: non c’è più sapore, dicono loro. Allora si cambia l’erba. Il tempo si allunga. Non me ne sono subito reso conto. Ma ha smarrito la sua importanza. Le parole non si fermano mai. Parole in libertà. Il sole tramonta con sfolgorii inusuali per questa stagione. L’acqua calda finisce. Si fermano anche le parole. Nessuno sa quanto tempo è passato. Vi tranquillità serena per l’aria.

Ecco, continuo a non sapere nulla del mate. Ma so (ho intuito, più che sapere) che realizza l’utopia di un tempo circolare. Un tempo originario. Il contrario del tempo ‘occidentale’. Che è lineare (che ha scadenze, impegni, fretta, programmi). Qui, come il cerchio che la zucca del mate compie più volte, il tempo ritorna sempre, uguale a sé stesso. E sempre diverso. Come ogni sorso di mate. Che, confesso, ma solo ora lo capisco, mi è apparso dolcissimo.

Torno verso casa e voglio portare io il thermos e la tazza. Devo imparare.

Cura Brochero, 19 novembre

venerdì 19 novembre 2010

Il cammino verso le grotte


Diego nella grotta di Aguirre

Diego ci accompagna alle grotte gemelle di Aguirre e Guaira, là, sui crinale delle prime Ande di Tilcara.

Diego, in realtà, è un narratore. Non so come definirlo: non  ama la parola indigento. E’, certamente, un erede del popolo originario di questa terra. Consulta abuelos, offre doni alla Pacha, lotta contro le miniere di uranio che società canadesi vorrebbero aprire su queste montagne.

I suoi passi, lenti per adeguarsi ai nostri, sono pensieri. Parliamo di tutto in qualche ora di cammino.

Ecco, frammenti delle sue parole:
Diego

‘A due anni, i bambini affrontano il battesimo rituale. Il rutuchi. Vengono tagliati i primi capelli. E’ la perdita dell’innocenza. Padrini e familiari fanno regali. Che simboleggiano quelli di un tempo: quando a un figlio di due anni si donavano terre o animali’

‘Il calendario gregoriano ha fatto irruzione nel nostro tempo. Non possono esserci giorni fissi per celebrare la Pacha. Non si può festeggiare il primo agosto. Il giorno non può essere predeterminato.  Il culto e la celebrazione deve precedere il tempo della semina’.

‘Gli Inca non sono stati invasori. Avevano un sogno: unificare le terre originari. E, quasi, ci sono riusciti. E’ stata una penetrazione culturale, economica, sociale. Certi popoli si sono opposte e hanno lottato’.
(Altri hanno un pensiero diverso da quello di Diego: gli Inka invasero, con la forza, le terre dei popoli vicini).

‘Nel nostro movimento siamo divisi in due correnti: vi è chi non accetta alcuna contaminazione dal mondo esterno e respingono, ad esempio, il turismo e i turisti. Vi è chi come me cerca di scegliere e decidere volta per volta. Io ho scelto, come lavoro, di fare la guida ai turisti e di aprire un hospedaje per chi viaggia’

‘Cosa penso di Evo Morales? Che ha commesso errori, ha privilegiato il suo popolo rispetto ad altri, ma credo che abbia aperto gli occhi alla sua gente. Dieci anni fa, la Bolivia era un paese domato. Oggi si alzano coscienze, è scomparsa la paura verso gli stranieri, ci si sente allo stesso livello. E’ stato uno straordinario cambio culturale. E non bisogna dimenticare che la resistenza dei popoli originari è stata nel silenzio e nella tenacia. Bisogna concedere pazienza a Evo’.

‘La tartaruga ci simboleggia: è lenta, paziente, saggia. E ha una corazza durissima. Ma sono molti gli animali per noi sacri. Il rospo che avvisa delle piogge, per esempio. La dualità della vipera:il bene e il male. Raffigura un tabù: posso toccare o no una vipera?’

Alla fine, fra le tracce esili di antichi passaggi di contadini, raggiungiamo le due grotte. Diego accende candele e ci aiuta nei passaggi difficili. Nessuno prova che queste due cavità siano state luoghi segreti. Lo sono diventati con le parole di Diego.

Molti giorni fa. A Tilcara. Al Nord









giovedì 18 novembre 2010

Gastronomia



La sorprendente Argentina, passata la devastazione della crisi dell’inizio 2000 (che nessuno qui ha dimenticato), scopre la gastronomia. I ragazzi vogliono fare i cuochi. Alla Poma, solitario paese andino, meno di mille abitanti, Romina, 19 anni, studia gastronomia a Salta, il capoluogo della regione (in effetti le sua milanesa è fra le migliori assaggiate in queste settimane). Leonardo, 25 anni, a Cura Brochero, paese di vacanze popolari delle Sierras cordobesi, vuole andare in giro per il mondo e si prepara studiando la cucina italiana. A Iruya, villaggio delle Ande orientali, quasi sessanta chilometri di strada impervia fuori dalla rotta principale del Nord, abuela Rosa dà corsi di cucina alle ragazze delle montagne. A Cachi, villaggio piccolo e celebre, portico andino, tremila abitanti, conto tre scuole di gastronomia. A Purmamarca e a Molinos, villaggi di turismo andino, vanno di moda gli chef d’autore: mi convincono, qui sulle Ande, a mangiare fettuccine con pesto di avocado e noci (non male, se non fosse per l’olio). Tincho, poco più che trentenne, migrante di ritorno dal mare della Plata al vento delle Ande, scrive un bel libro (in materiali riciclati) sulla cucina andina (ma cucina pizza ed empanada in un forno elettrico). A Susque, mille e ottocento abitanti, ingolfato di camion, dogana fra Cile e Argentina, tremila e cinquecento metri di quota, Gustavo, esperto di carni di lama, sta già preparando il suo viaggio a Torino del 2013 per Terra Madre. Con lui parliamo a lungo di Slow Food. A sera mi prepara una mousse a forma di chiesa coloniale.
Susque, 4 novembre

Le patate di Donna Rosa


Dona Rosa appare nella cucina dell’hostal di Pablo. E’ la donna del risveglio. A lei il compito delle colazioni. Intrico di identità: dona Rosa ha antepasados Colla, cioè ha sangue indigeno mischiato con abuelos che vennero dai paesi arabi (forse Libano, forse Siria). Indossa una bombetta e abiti colorati. E lo fa con semplicità. E’ nata ai confini con la Bolivia.
Mette sul tavolo il tesoro delle patate. Mi piace Dona Rosa: non esibisce il suo sapere, non vuole dimostrare niente. Ti dice solo che ci sono almeno 34 tipi di patate andine, las papas andina. Piccole, compatte, possono rimanere nelle dispense anche un anno o più. La papa lisa è minuscola e verde. La papa semilla è pronta per essere seminata. La papa amarilla ha molti ‘occhi’. La papa dulce è, in realtà, un rizoma, ha la forma di un bruco. E’ buonissima, ha il sapore di questa terra. Che non conosce gusti forti. Non è piccante. Non è decisa. Come se cercasse un equilibrio.
Dona Rosa ha un treccia di capelli bianchi che escono dalla strana bombetta. In questi giorni, non l’ho mai vista a capo scoperto.
Scritto molti giorni fa. A Yruya. Un luogo dove vivere per un po’.

mercoledì 17 novembre 2010

Le miniere attorno a Susque

Susque


Ieri sera assemblea comunitaria a Susque. Ci sono tre ingegneri della compagnia mineraria. I salares, lungo questa cordillera andina, confine fra Cile e Argentina, sono territori del litio. Canadesi, sudafricani, australiani, norvegesi, cinesi, coreani guardano a queste montagne e non ne vedono la bellezza, ma i minerali degli anni 2000. A Susque, poi, si è sempre scavato. ‘Nascondevamo l’oro in rotoli di pelle dei lama e lo vendevamo in Cile’, ricorda un vecchio. Ieri, davanti agli uffici della dogana, erano parcheggiati decine di camion di polvere d’oro (qui c’è anche una grande miniera di oro). Il litio ha bisogno di acqua e gli abitanti di Susque (in gran parte minatori o impiegati delle varie compagnie minerarie) temono per la loro sete. A Salta, città principale del Nord argentino, un operatore turistico mi dirà di aver cancellato ogni viaggio nei salares di Susque: ‘Le trivelle hanno cambiato il paesaggio’.
Mi raccontano di questa assemblea. Susque ha 1800 abitanti. Exar e Orocobre estraggono litio e potassio. Il litio, mi raccontano, se ne va verso la Corea e la Malesia. Ritornerà in Argentina sotto forma di batterie. ‘Vogliamo computer e cellulari, no?’, mi dice Gustavo, giovane leader locale di Susque. ‘Abbiamo chiesto che una fabbrica di batterie fosse realizzata qui - racconta ancora – E’ quanto ha ottenuto Evo Morales in Bolivia’. Niente da fare. ‘Susque chiede troppo’, hanno detto gli uomini delle miniere. E il litio continua le sue migrazioni verso i paesi dell’Asia. ‘Per estrarre il litio, le compagnie chiedono acqua. Troppa acqua. Noi domandiamo che ci diano garanzie per la nostra acqua. E che costruiscano pozzi comunitari per la gente di Susque’, mi spiega un altro abitante di Susque. I tre ingegneri scuotono la testa: ‘Susque chiede troppo. Ce ne andremo, se insistete’. Brivido nella sala dell’assemblea. Le miniere sono il lavoro di questo paese di frontiera. Pochi pensano al turismo (sarebbe una soluzione il turismo? I paesaggi attorno a Susque sono una meraviglia). L’agricoltura è  impossibile a quattromila metri. Allevare lama e pecore è fatica dura. La comunità di Susque non vuole che le compagnie se ne vadano. I tre ingegneri lo sanno. Sui giornali della lontana capitale federale si legge che, comunque, le miniere si esauriranno in quindici anni. ‘E dopo?’, si chiede Gustavo. Le compagnie pagano corsi di formazione nel turismo e finanziano progetti ‘comunitari’. Ma hanno bisogno dell’acqua. Giochi difficili e intricati nei salares delle Ande. L’assemblea, a notte fonda, finisce senza accordo. La gente se ne va via in silenzio. Tecnici delle compagnie minerarie dormono nell’hostal di Gustavo.
Seclanta, 8 novembre

lunedì 15 novembre 2010

Il sole si è impigliato nelle montagne

Il sole raggiunge Purmamarca


Ma poi il sole sorge con la sua lentezza. I raggi volano verso il cielo. Avanzano sulle cime più alte. Poi rallentano il cammino. Si impigliano nelle vette sopra i cinquemila metri, i cactus li trattengono, l’ombra si ferma e non ne vuole più sapere di dissolversi.
Ma il viaggio di un giorno ha i suoi ritmi. Alla fine, con uno sforzo, il sole disincaglia la sua nave e riprende i suoi passi. E allora è la meraviglia. Le Ande cambiano i colori. Dicono che sono sette le sfumature che accendono le pendici erose delle montagne di Purmamarca. Trovata da pubblicitari senza fantasia. I colori si accendono uno dopo l’altro e sono molti di più. Ma sono incerti, tenui, fieramente pallidi. Non hanno decisione, adorano davvero la leggerezza. Ingannano e rendono inutile photoshop. Amano la lentezza. Un viola tenue, il rosso che sfuma nell’arancione, un color albicocca ben disegnato, un lampo di senape pieno di sabbia. Un rosa impallidito che si trasforma, in un attimo, in un rosso vermiglio esplosivo. Un grigio che vorrebbe essere un verde. Un giallo che sa di essere lucente come un faro nella notte.
Il sole ha fretta, è stato gentile verso i Sette Colori, ora li cancella (peccato per i turisti ritardatari) dall’arcobaleno e lascia intatto l’azzurro perfetto del cielo.
Un buon risveglio a Purmamarca.
Purmamarca, 21 ottobre

Incontri/7 Il birraio di Santa Maria

Bernard y la cerveca Ruta 40

Sono passati venticinque anni da quando un mochillero tedesco, un ragazzo della Selva Nera a giro con lo zaino per il Latinoamerica, si fermò a Santa Maria, anonimo paese del sud della Valle Calquaqui, occidente dell’Argentina. A un passo dal Cile.
Non si è più rimesso in cammino, quel ragazzo. Un'amore è una buona ragione, a volte, per fermarsi. Per rimanere. E Bernard, oggi 48 anni, è rimasto a Santa Maria. Da allora, il villaggio si è ingrandito, è diventato quasi una cittadina. Bernard e la sua famiglia vivono in ‘periferia’. Non ha perso l’accento tedesco, Bernard. Il suo spagnolo è ruvido, aspirato. Ha suoni di gola. ‘Dopo tanto tempo, mi manca ancora la mia foresta. Mi manca il verde’, dice. Soprattutto in un giorno di vento di polvere come questo.
Bernard non ha mai amato la birra argentina, la birra Quilmes (nome nativo per la birra nazionale; i diaguitas, popolo originario di Quilmes, furono cancellati dalla faccia della terra dai conquistadores). Per questo, anni fa, in cucina, ha cominciato a prodursi una birra casalinga. E’ diventato bravo, Bernard. Due anni fa ha deciso di provare a fare il birraio di mestiere. Santa Maria è un paese ai confini della leggendaria Ruta 40. E' un logo perfetto per questa birra. Bernard ne produce 125 libri a cottura. Birra di grano e di quinoa. Sapore amaro e buono. Un negozio di Tucuman gli compra qualche bottiglia. Le altre se ne vanno nel consumo locale. Cercherò di metterlo in contatto con Slow Food di Argentina. Ha occhi ancora stupiti, Bernard.
Partire a ventitre anni, tanti ne aveva quando una vecchia corriera lo sbarcò a Santa Maria, e ritrovarsi a vivere ai piedi delle aride sierras della cordillera andina. Dove hai poggiato lo zaino, Bernard?
Santa Maria, 9 novembre

domenica 14 novembre 2010

Identità a Londres

I guachos di Belen


In questo occidente argentino, ci tengono al politically correct. Cartelli stradali indicano, senza che ce ne sia un vero bisogno, che il nome di un paese è di origine europea o di matrice aborigena. Statue agli indios e alla pachamama sono quasi ovunque lungo la Ruta 40.
Oggi, 10 novembre, dia de la tradicion. Giorno di festa. Parata notturna di gauchos, balli nazionali, sensuale chacarera e guizzi di tango acrobatico. Festa di paese a Londres, il secondo insediamento fondato dagli spagnoli in Argentina. Paradosso: si chiama proprio Londres, questo paese. In onore del matrimonio fra Filippo II e Mary Tudor (e il capoluogo si chiama Belen, Betlemme). Un luogo interessante, dunque, dove assistere alla Festa della Tradizione. Racconta un giovane professore di scuola: ‘Dobbiamo avere una coscienza nazionale: nativi, immigrati, gauchos, criolli, discendenti di africani...siamo un miscuglio di genti. Ma siamo argentini’. Nazionalismo in un paese solitario. I guachos, orgogliosi della loro identità, fanno trottare i loro cavalli. Cavalcano senza saltellare sulla sella. Tutt’uno con il cavallo. Sono splendidi. Gli uomini masticano coca, bevono vino Toro e mangiano pane e mortadella. Ancora il giovane professore: ‘I vostri romani chiamavano barbari coloro che stavano fuori dai confini. Qui è stato l’inverso: chi era bianco chiamava barbaro coloro che qui erano nati e avevano la pelle appena un po’ più scura. E l’Argentina, popolata di nativi e di gauchos, per loro era un ‘deserto’’. Mi arrendo, non posso capire: qui, Latinoamerica, l’identità è storia ancora irrisolta. Anche per i ragazzi con gommina nei capelli e piercing al sopracciglio che guardano in silenzio alla festa?


Il censimento di qualche settimana fa (ho letto che solo lo 0,8% degli argentini sono sfuggiti ai censistas: dove mai abitavano? In qualche quartiere off-limits di Buenos Aires, immagino) prevedeva una domanda sulle ‘origini’. Il Consiglio delle Organizzazione aborigene di Jujuy, ultima regione del Nord argentino (qui vive la minoranza originaria dell’Argentina) dichiarava che ‘l’identità è un diritto di tutti’ e ‘quando te pregunten si sos indigen, decile que sì’. ‘Siamo molti y Argentina debe saberlo’.
Londres, 10 novembre

venerdì 12 novembre 2010

Incontri/6 Don Emanuel, Filomeno e i panchos

Don Emanuel


Don Emanuel vende panchos (perritos calientes, per essere più chiari. Hot dog, insomma) da sempre. Da quanto era ragazzo. Nella piazza di Tucuman o in quella di Santa Maria, il paese dove è nato. Di questo volevo parlare. Ma lui, saputo che sono italiano, mi racconta solo di Filomeno.
Filomeno era italiano. Uno dei tanti di Argentina. Però, per anni e anni, è stato il compagno di piazza di don Emanuel. Faceva il fotografo, Filomeno. Con un  cavallino di legno e stoffa..  ‘A Filomeno lo ha ucciso il sedentarismo. Non ha mai fatto un passo. Veniva in piazza con la sua macchina e non si muoveva di un metro. Tornava a casa e mangiava. Glielo dicevo: devi camminare, altrimenti i tuoi muscoli si fermano. Non mi ha mai dato ascolto. Non è arrivato ai cinquanta. Io, invece, tutti i giorni cammino mezz’ora. Eravamo proprio amici con Filomeno. Lo ha ucciso il sedentarismo’. Ho deciso che la memoria di Filomeno e la faccia immalinconita di don Emanuel meritano un pancho. Solo uno. Con savor, un accenno di intruglio giallognolo dal sapore di mostarda. Due pesos, meno di cinquanta centesimi. Rimane lì, il pancho. A metà strada verso lo stomaco. Farò due volte il giro della piazza per cercare di digerire. Don Emanuel sembra approvare.
Se passate da Santa Maria è facile trovare don Emanuel. Al pomeriggio (dopo le cinque) sta sulla piazza, quasi di fronte alla chiesa. Al mattino, è davanti alla banca del paese. Ogni giorno c’è una coda. Per la pensione o per un salario.
Santa Maria, 9 novembre. 

lunedì 8 novembre 2010

La bibliotecaria di Yavi

Dona Costantina


Dona Costantina è la bibliotecaria della più bella raccolta di libri di questo angolo di Ande. Ancora a Yavi, paese solitario della Puna. Vento e ombre, freddo e nemmeno un albero. Tranne i pioppi (origine italiana, dicono) che circondano l’antica casa del Marchese, il signore dei tempi coloniali. Nel patio interno della villa c’è la biblioteca.
Yavi era un luogo importante nei tempi della colonia e della prima indipendenza argentina. Da qui passavano le rotte per la Bolivia e per il Perù. Poi, inizi del ‘900, il treno scelse un’altra strada. E Yavi ritornò al silenzio e al vento. I mercanti lasciarono le loro case, si trasferirono nella nuova città. E non si portarono dietro il peso dei loro libri. Qualcuno non permise che andassero perduti. Li raccolse. Alla fine si rese conto che erano centinaia e centinaia. Biblioteca popolare per contadini senza alfabeti. Ma qualcuno cominciò a frequentare quelle pagine. Alla fine, storia di questi anni, è apparsa Dona Costantina, con la sua età e il suo sorriso senza tempo. Il suo era un ritorno al paese delle origini. Lei ha visto morire e rinascere il salice che sta nel patio della casa, proprio di fronte alla porta della biblioteca. Ogni giorno, Dona Costantina apre le porte della biblioteca. Ogni giorno qualche bambino, figlio di pastori, trova il tempo e il coraggio di entrare fra questi libri.
Salta, 7 novembre

Las ofrendas di Don Francisco

Don Francisco e las ofrendas


Ho conosciuto Don Francisco al cimitero di San Antonio de los Cobres, devastato paese di minatori del borace. Era in piedi davanti alla tomba della madre. Tutta la sua famiglia era con lui. Don Francisco ha i denti rovinati dalla coca, morde le parole mentre ne mastica le foglie. Le sue labbra sono verdi di coca. Don Francisco ha una grande famiglia. Suo figlio Diego (19 anni, orecchino, capelli tenuti su da una fascia, lavori precari) tiene in braccio un bambino di pochi mesi. Sua moglie, 17 anni, sorride con timidezza. Giorno dei defunti, si adornano le tombe con i fiori di carta e di plastica. I cimiteri si trasformano in un arlecchino colorato che contrasta con il freddo della Puna ai tremila e settecento metri di San Antonio..
Don Francisco insiste: ‘A casa, vieni a casa. A vedere il salone delle ofrendas’. Vado, andiamo. Lui scende in bicicletta. Con un nipotino dietro le spalle. Arriviamo a una casa diroccata, ma con una grande sala. ‘L’ho costruita per la festa della Virgen del Perpetuo Socoro’, dice. Una volta all’anno, a luglio, festa della devozione personale di Don Francisco. In questi giorni, questa sala (mattoni di adobe, di fango) ospita lo scenario cupo e opulento delle ofrendas. La madre di Don Francisco è morta tre anni fa. Questo è l’anno della despedida. Dell’ultimo addio. Il viaggio verso l’al di là sta finendo. Il prossimo anno non saranno più necessarie le ofrendas. La madre ha raggiunto la sua meta. Ma la famiglia di Don Francisco, quest’anno, ricorda anche il giovane Benito, il marito di una delle figlie. Anche lui se ne è andato. Un pane a forma di croce è dedicato a lui. Che si è gettato da un ponte. Lasciando dietro di sé, due bambini piccoli.
Don Francisco vuole che faccia una fotografia della famiglia davanti al tavolo delle ofrendas, me ne offre (pane a forma di colomba, di armadillo, di pesce) da portar via. Mi regala un’immagine della Virgen del Perpetuo Socoro.  E’ nel mio zaino.
San Antonio de los Cobres, 2 novembre

domenica 7 novembre 2010

Chiesa di Santa Barbara alla Poma


Chiesa di Santa Barbara alla Poma
Il bilancio di questa chiesa (mille e settecento abitanti ai tremila metri della Poma, paese di contadini delle altezza andine) è in un foglio protocollo appeso accanto al fonte battesimale. Scrittura con penna Bic rossa. Nel 2009 sono entrati (donazioni e concorsi a premi) 2059 pesos, meno di 400 euro. Sono stati spesi 971 pesos, quasi 200 euro. Il primo marzo, è stato pagato il pranzo al padre (forse venuto da fuori): sette pesos, poco più di un euro. La spesa costante è la bolletta della luce per la chiesa. E’ stato comprato un costoso rotolo di scotch (quattro pesos e mezzo, meno di un euro) e gli addobbi per l’albero di Natale sono costati 43 pesos, otto euro.
Quanto è costato il mio biglietto aereo per venire fino qua?
La Poma, primo di novembre

Ruta 40

Ruta 40 all'Abra el Acay

Strada che  risale il Latinoamerica. Strada di ripio. Non è semplice terra o sabbia o ciottoli. Si naviga su piccole pietre, quando si decide di viaggiare lungo la straordinaria Ruta 40. Si sa bene cosa si affronta quando la si percorre. Strada leggenda. Un high-way sterrata che raggiunge paesi sperduti nella pampa o nella Ande. Parte dalla fine della Patagonia e risale tutto il continente. Qui, Argentina del Nord, si perde da Cafayate, elegante regione di vinattieri, a Cachi, già montagna oltre i duemila metri, fra la fertilità del fiume Calchaquì e l’aridità della Puna argentina, la steppa di alta quota.
 
Paesaggi di questa terra. Le vigne crescono nella sabbia. I preti mettono altoparlanti sulle chiese e i canti della messa invadono la piazza di San Carlos. Gli uomini sembrano non farci caso e mangiano, a metà mattina di questa domenica, strepitose zuppe di locro. Una venditrice ha portato un pentolone nella piazza del paese. Ricordo che a Rio Mayo, villaggio patagonico, erano gli altoparlanti delle caserme a scuotere l’aria immobile.
La Ruta 40 sfiora cimiteri e finca. Si apre un varco nel groviglio geologico della quebrada de las Flechas. Qui le montagne sembrano sfogliarsi, roccioni messi per verticali a strisce continue e ondeggianti. E’ come se la geografia fisica si fosse ribaltata. Non so come facciano a stare in equlibrio questi canyon che si appoggiano l'uno contro l’altro.
La ruta 40 è un buon logo. Niente asfalto, viaggio solo per coraggiosi. Un cuoco celebre si è rifugiato a Molinos per aprire un albergo cinque stelle in una antica casa della nobiltà spagnola e ha fatto scrivere sopra l’ingresso: ‘Cucina d’autore’. Molinos è lontano da tutto. Buen ritiro.
La strada diventa un serpente. Segue, come un’ombra, tutti i capricci del fiume Calchaqui. Diventa stretta come un’acciuga. Predilige le curve. Una dopo l’altra. Come su un autoscontro. Fa scivolare le ruote perché vorrebbe conoscere il ghiaccio. Distrae con paesaggi che cambiano ogni chilometro. Montagne aspre e colorate e improvvise praterie dove pascolano mucche e cavalli mischiati assieme.
Con tornanti doppi, la ruta 40 entra a Cachi. Paese dai marciapiedi come piattaforme sopraelevate. Paese-snodo del turismo. Si infittiscono i pulmini degli operati di Salta. Russi si sdraiano nei ristoranti. Sono stati aperti wine-bar. Strano paese. E’ domenica: pick-up malridotti, ma dall’aspetto gongolate scaricano famiglie di contadini davanti alla bella chiesa dagli intonaci d’avorio. Anche a Cachi, l’altoparlante rimanda canti e parole per la piazza. Giornata di viaggio. La Ruta 40 è un ‘on the road
Cachi, 31 ottobre

Le parole corrette


Diego racconta delle comunità kolla attorno a Tilcara. Sta attento alle parole. Non userebbe mai la parola ‘aborigeno’ (che si nota su molti cartelli confinari delle proprietà collettive, in genere vi sta scritto: comunidad aborigenas). ‘Ma aborigeno sta a significare che siamo senza origini. E questo non è vero’. Diego non ama la parola ‘indigeno’ (e il suo paese, Tilcara, si è autodefinito ‘indigeno’, con il patronato di San Francisco, bella contraddizione). ‘Indigeno ci mette ai margini. Indica una marginalità’. Non usa mai nemmeno la parola: ‘sciamani’, Diego, usa, con abitudine, il termine abuelos per parlare dei vecchi saggi di ogni comunità. Diego spiega dei ‘popoli originari’.
Tilcara, 28 ottobre

Incontri/5


Juan Domingo, consigliere comunale a Cobres


A quattromilanovecentocinquantotto metri, Abra de Acay, passo andino, incontriamo Juan Domingo. In motocicletta. ‘Non va tanto bene in montagna, va meglio quando devo andare nei campi’, dice. Soffre l’altezza, la moto. Juan è lì, in piedi, imbozzolato in una giacca a vento di cartavelina (modello Nautica). E’ un ‘consigliere comunale’. A Cobres. Altre montagne. Più a Nord. Una volta al mese, Juan deve andare alla Poma (mille e settecento abitanti), municipalidad di questa regione remota (remota per chi? Per noi, che veniamo dalle città, non per questa gente). Allora Juan prende la moto e viaggia, sbandando sul ripio. Passa la prima notte a San Antonio de los Cobres, sgangherato paese di minatori del borace, e poi sale fino al cielo dell’Abra de Acay. ‘Per discutere di progetti e di tutto quello di cui dobbiamo parlare’, spiega Juan. Non sa cosa significa Acay nella lingua dei popoli originari. ‘L’ho sempre sentita chiamare così fin da quando ero bambino’. Assieme mangiamo pane e tonno al riparo di un piccolo muro. Oggi un sole bruciante ci ha regalato una giornata senza vento. Doniamo acqua alle pietre della Pacha accumulate sul passo. Poi Juan spinge la moto per la discesa da vertigini dell’Abra. La sua moto parte solo a spinta.
Abra el Acay, 2 novembre

Las ofrendas/Il giorno dei morti alla Poma




Tremila quindici metri. Una coppia di vecchi cammina lungo il sentiero per il cimitero della Poma. La donna ha in mano la corona di fiori di carta. L’uomo (cappello a falde larghe, basette e baffi bianchi  che risaltano sulle rughe abituate al sole) tiene stretta una Bibbia. Vigilia del giorno dei Morti. Si va al cimitero ad adornare le tombe con i nuovi fiori dai colori vivaci. A casa è già pronta la tavola con las ofrendas, le offerte al parente che se ne è andato e che, per una notte, tornerà. A casa di Margarita si aspetta il nonno. Morto lo scorso anno, il miglior tessitore di ponchos della Poma. E’ stato preparato il pollo, le patate lesse, dolci ripieni di marmellata, foglie di coca, golosinas. E’ stato lasciato un pacchetto di sigarette e una bottiglia di vino Toro. ‘E’ quello che piaceva al vecchio’, spiega Margarita. Ora l’attende una notte di veglia e di preghiera. Si pregano i morti dell’ultimo anno. Devono ancora trovare la strada per l’al di là. Sono indecisi e inquieti. Al cimitero si versa acqua sulle tombe, si accendono candele. Non vi è né tristezza, né malinconia. Mi chiedono una foto attorno alla tomba. Sorridono. Mi raccontano dei morti. Domattina i cibi disposti sulla tavola verranno mangiati, distribuiti ai parenti o agli amici, donati a chi passa in quel momento davanti a casa. Si racconteranno storie sul nonno di Margarita. Il dolore sarà scomparso per lasciare spazio all’allegria. E’ stata riaperta la vecchia chiesa del paese historico: la Poma, ottanta anni fa, venne distrutta da un terremoto. E’ stato ricostruito un villaggio dalle case tutte uguali, ma gli abitanti di queste altitudini curano il vecchio villaggio come se ancora vivessero lì. Nella chiesa antica si ricorderà l’infermiera deceduta lo scorso anno. La coppia dei vecchi cammina lentamente verso questa preghiera notturna. Al cimitero ci sono tombe crollate, tombe senza nome, tombe dimenticate. Due vulcani andini sorvegliano il villaggio. La strada sale fino all’Abra di Acay. Sfiora i cinquemila metri.
La Poma, primo di novembre

L'astuzia della solitudine/Incontro con Flavia y Damiana

Flavia y Damiana


A quattromila metri, sotto il passo dell’Abra de Acay, che sfiora i cinquemila metri. Una casa solitaria. Di adobe, fango e paglia. Nessuno vive qua attorno per chilometri e chilometri. Per mesi, questo è il regno del gelo. Però Flavia e Damiana, madre e figlia, cinquanta e trent’anni, hanno fatto della solitudine la loro vita. E la loro economia. Il marito è morto dieci anni fa. Flavia e Damiana hanno deciso di rimanere sulla montagna. Con capre e lama da pascolare. E, guardando il mondo che passa (una/due macchine al giorno durante la primavera australe. Non di più. Turisti che non temono le altezze e la strada insidiosa), hanno compreso il mondo. Hanno capito, donne-pastore, che la solitudine è anche un affare. Un cartello per colpire l’attenzione (come se una casa solitaria oltre le nuvole non fosse sufficiente), la lana di lama per fabbricare guanti e cappelli, un dolcissimo cucciolo di lama e otto cani giocosi fuori dalla porta per attrarre ancor di più. Tre turisti al giorno si fermano. E comprano i guanti e i cappelli. Scrutano la casa di una sola stanza. Si stupiscono della elettricità (pannello solare). Domandano e loro sanno le risposte: ‘Sì, quando abbiamo bisogno, scendiamo al paese della Poma a piedi. Poi la polizia ci dà un passaggio per tornare’. La Poma è almeno a trenta chilometri di distanza e mille metri più in basso. Anche in inverno? ‘Soprattutto in inverno’. Il turista è incerto. Se ne va. Flavia azzarda: ‘Cento pesos per le foto’. In fondo, c’è scritto anche nel cartello. Si vende anche la propria immagine a quattromila metri di solitudine. Il turista è spiazzato. Ha comprato i guanti a una cifra irreale. Replica: ‘Cinquanta pesos’. Flavia ha un sorriso: ‘Va bene’. Fregati. Con astuzia. Le due donne hanno guadagnato come un ragazzo di un call-center in cinque giorni.
Mi inchino all’astuzia della solitudine e ai quattromila metri di Flavia e Damiana. Accarezzo il cucciolo di lama. Mi piacerebbe ripassare di qua.
San Antonio del los Cobres, 2 novembre