domenica 31 marzo 2013

Annemarie/Uccello migratore


(Da www.bartlebycafe.com)





Come è bella, Annemarie. ‘Bella ed esile come un giunco piegato dal vento’. La sua bellezza, ha scritto chi l’ha amata, era ‘oltraggiosa’. Quando un doganiere le chiedeva quale fosse il suo mestiere, lei rispondeva: ‘uccello migratore’. Nel 1933, a venticinque anni, si incamminò sulle strade dell’Asia. Su quei cammini infiniti, precedette Robert Byron. Lei, giovane, colta, ricca, cercava, con ansia, ‘ragioni di vita e scrittura’. Il suo viaggiare era ‘una iniziazione’ e ‘una fuga’. Coloro che la incontravano se ne innamoravano al primo sguardo. Abbagliava uomini e donne, Annemarie. Faceva perdere la testa. E lei era la prima a perdersi. Da qualche parte ho letto che era ‘un angelo sconsolato’. Anzi, un ‘arcangelo sconsolato’.
Annemarie Schwarzenbach era nata a Zurigo nel 1908. Famiglia di facoltosi industriali della seta. Una madre opprimente, un universo di silenzio attorno a quella figlia. Ebbe un’educazione raffinata, era una ragazza dal grande e ambiguo fascino: ha un aspetto androgino, veste spesso in abiti maschili. A 22 anni, Annemarie entra nella cerchia elitaria della famiglia Mann. E’ amica di Erika e Klaus, i figli di Thomas. E’ più che un’amica: si innamora di Erika. Appare prediletta dalla fortuna, Annemarie. Ma l’inquietudine è la sua bussola per trovare una disperata salvezza. E’ davvero una donna in fuga. Una donna che cerca. Una donna sola. Fragile. Autodistruttiva. Una donna sempre in bilico. Il viaggio, il movimento le dona un illusorio equilibrio.

(da www.barteblycafe.com)


La vita di Annemarie è irraccontabile (ma a raccontarla vi è riuscita, magnificamente, Melania Mazzucco in Lei così amata -Rizzoli, 2000): amori appassionati, donne che l’adorano (fra queste Carson McCullers), un matrimonio con un diplomatico francese, le tenebre della depressione, smarrimenti nella morfina e nell’alcool. E i viaggi come antidoto meraviglioso: ‘Voglio essere la straniera, la vagabonda, la pellegrina errante su tutte le strade del mondo’. Ecco, quindi, l’oriente, le steppe asiatiche, Parigi, Berlino, l’Afghanistan, le foreste del Congo, Tehran, la Russia di Stalin e la Spagna mentre infuria la guerra civile. Viaggia leggera, ricorda chi la incontra lungo quelle strade. Non voleva possedere niente, solo un piccolo zaino.
Nel 1939, quando l’Europa sta per andare in pezzi, Ella Maillart, un’altra scrittrice, e Annemarie partono da Ginevra a bordo di una Ford 18 cavalli. Dirette in Afghanistan. Un viaggio che valeva una vita. Percorrono ventimila chilometri fino al Khyber Pass. Annemarie fotografa, ma soprattutto scrive. Scrivere è il suo destino. Già, ‘chi non scrive è disarmato’. Riempie centinaia di pagine. Scrive romanzi, poemi, racconti, reportages, novelle, lettere. La scrittura è conoscenza di sé, sapere del mondo. Perde il suo primo dattiloscritto, smarrisce i suoi frammenti, non ritrova i suoi appunti. Il suo primo libro andrà al macero. Si crea, con le sue stesse parole, ‘un labirinto senza uscita’. E’ vittima del suo talento, Annemarie. Fra il 1933 e il 1942 scrive 350 articoli. Dicono che a Berna siano conservate almeno 50mila fogli colmi della sua scrittura. ‘E quasi impossibile concepire che qualcuno possa aver scritto tanto in così poco tempo’.

(da www.dialoguebooks.com)


Dall’Asia torna in Europa. Torna sempre, Annemarie. Non ha pace. E’ il 1940. E il mondo è davvero impazzito nel sangue. E lei, a 34 anni, forse è stanca. Forse, in Africa (dove in un ultimo viaggio ha raggiunto il marito Claude e ha capito di amarlo) ha scoperto che ‘la chiave della felicità non è nascosta in nessun luogo sulla terra’, ma si trova, invece, ‘tra le nostre mani’. Annemarie risale le valli svizzere, ritrova la sua perfetta Engadina. E’ nella casa di famiglia. A Sils-Baselgia. Tra le sue montagne. Là scrive, riscrive l’ultimo libro, quello che ha immaginato in Africa. Forse è serena: ‘per la prima volta le sembrerà di scrivere come ha sempre desiderato’. Ma, ricorda Melania Mazzucco, ‘a un tratto le parole l’abbandoneranno e non saprà più scrivere una sola parola’.
La sua morte sarà banale. Annemarie, in un ‘giorno luminoso’ dell’estate del 1942, cade di bicicletta a pochi passi dalla sua casa. Batte la testa. Raccontano che le cure a cui fu sottoposta furono tremende. Annemarie muore. Sua madre e sua nonna cercarono, in ogni modo di nascondere una vita ‘scandalosa’.
Vi riuscirono. Forse davvero le due donne bruciarono molti dei suoi scritti nel fuoco di un camino. Sicuramente, i giornali, dopo pochi giorni, si dimenticarono di Annemarie. E’ una stella cadente. Scomparve dal ricordo e dalla memoria. Le sue parole svanirono. Sprofondarono fra le carte dell’Archivio di Letteratura di Berna. Ma poi accade, non so come, che riapparvero. A volte sono gli amori ostinati che aiutano impossibili resurrezioni. Nel 1987, con lentezza, le sue pagine riemergono. Pochi anni fa è stato trovato, scompaginato e anonimo, perfino un esile racconto, Vedere una donna ( Saggiatore, 2012), di cui si ignorava l’esistenza. Annemarie diventa, così, una scrittrice di culto, amatissima, quasi venerata da chi ne ha letto le pagine e immaginato la vita. E in lei si ama ‘il suo essere altro’. E, ognuno di noi, come Melania Mazzucco, vorrebbe riavvolgere la pellicola della sua vita, ‘deviarne le traiettorie’. Vorrebbe concederle altre possibilità. Vorrebbe dirle: ‘Non andare via, resta’.



domenica 17 marzo 2013

Diario di un viaggio imprevisto 7./Il basilico di Richard


Il basilico per Richard
Al pontile di Trellis, scalcinato e corroso dal mare, attracco dei ferry privati per i resort più celebri, ci sono gli scatoloni per Necker, l’isola di Richard Branson: cibo per gli ospiti, cibo per lo staff. Il basilico per Richard viene dalla Florida.

Le sculture di Andragon

Ferry per Scrub Island. Isola privata di compagnia americana. Chissà come scelgono i propri lavoratori? Hanno caratteristiche comuni e diverse da resort a resort. In questo isolotto, sette minuti di ferry da Trellis, hanno l’aria tosta. Muscoli possenti. Clima da duri. Hanno un fare che ha un che di minaccioso quando spostano valige e parabordi. Se solo sorridessero avrebbero la simpatia dei giocatori di rugby. Solo che non sorridono. Le braccia del general manager sono il doppio delle mie. E’ uno zimbabweano bianco, venuto via dall’ex-Rhodesia proprio mentre Bob Marley cantava per l’indipendenza del nuovo paese africano. Paradosso della storia: oggi un bel po’ degli uomini che lavorano per lui sono rasta. Mai tornato in Zimbabwe. Ex-giocatore di rugby professionista, appunto. A bordo del ferry c’è una donna cicciona che parla in spagnolo con il figlio. Una bionda americana con occhiali impenetrabili. Un tipo in giacchetta, camicia bianca e cravatta rosa che sembra fuoriluogo. Un prete? Il contabile? Chiedo: è il tecnico dei computer. Sudafricano. Ci sono anche due lavoratrici del resort con borsetta nera sulle ginocchia.

Appena sbarca in un posto, non si guarda nemmeno attorno. Chiede la password.

Davide

Sì, di Davide, devo dirvi. 59 anni. Di Firenze. Non avevo fatto caso al suo cognome. Suo fratello è stato giornalista dell’Unità e addetto stampa del presidente della Regione Toscana. Abbiamo lavorato assieme. Suo padre è stato un intellettuale della sinistra italiana. L’altro suo fratello, se non sbaglio, è consigliere comunale a Firenze. E lui? Fotografo fino a ventotto anni fa. Fotografo di moda a New York. Roba seria. Poi, la scoperta della cucina. Ora è cuoco celebre delle isole Vergini. Possiede un ristorante a Tortola. Abita una case splendida, senza pareti, aperta ai venti e al sole, nel luogo più solitario di Scrub Island. Due orecchini, capelli brizzolati fluenti, moglie australiana conosciuta in barca. Sorriso da Caribe. Mi spiega: ‘Qui si vive benissimo. Non c’è Berlusconi e si pagano poche tasse’. Prendo appunti. Non credo di averlo convinto a tenermi qui. Ha capito subito di me. Voglio rimanere qui? Sì, ora sì. Sì, qui. Per un tempo che non può essere definito. Qui, nella tua casa si offre al vento, ma so già che non darà pace. Non è pace, quella che cerco. E’ vita, ma qui potrebbe esserci una sospensione. La bellezza può aiutare? Sì, credo che la bellezza possa aiutare. Non lenisce il dolore, ma il mare, come il fuoco, distrae. Per un po’. Almeno per un po’.

Buyers di Miami spediscono il pesce per l’isole dove ben pochi pescano. E poi, mi spiegano i cuochi, aragoste a parte, le acque tropicali non danno un buon gusto al pesce. Le cernie arrivano via Fedex.

Attenzione ai dettagli: i coltelli sono un design della Porsche. E stanno in equilibrio sulla lama. Credo di sentirmi un po’ imbecille, qui.

E noi che siamo stati lontani da qui nei giorni di luna piena

 Cuochi dall’Italia, dall’Inghilterra, dalla Francia. Ma la cucina non interessa gli isolani?

‘Noi vendiamo avventura’, mi dice un ragazzo, dall’aria da duro.

Il tassista che non voleva farsi fotografare

La storia delle tasse. Se ho ben capito, qui non si è tassati a seconda di quanto si guadagna. Sono i dipendenti, il parametro. 8% a lavoratore. Più il 6% a carico del dipendente. Sarà così? Mi appare scombiccherato e mica tanto giusto. La giustizia è categoria incomprensibile in queste isole. Un resort ha duecento dipendenti. Un off-shore ha un nominee director, un fiduciario che presta il suo nome a capitale cinesi o italiani, un paio avvocati per cavarsela nel garbuglio delle legislazioni internazionale e due segretarie. Niente di più.

I servizi sociali funzionano. Scuole diffuse, buona sanità, pensione a 65 anni. What do you want more?

Benvenuto a Scrub Island

Bevo rum, vini francesi, un rosso sudafricano che è una cosa strana e buonissima. Mangio anguria arrostita, capesante con maialino, salmone affumicato avvolto attorno a un cucuncio salatissimo. Dove sono? In camera non riesco a spengere le luci, a spengere il frigorifero, a spengere l’aria condizionata. Non so con chi, né come usare una jacuzzi a due posti. Però, dopo uno studio attento, riesco ad aprire le finestre e a dormire sul balcone. Lontano dal ventilatore.

Scrub Island

Ce ne andiamo. Nella notte. Che sarebbe quasi l’alba. Su un mare tranquillo. Stelle nel cielo. Luci delle barche. Il pilota è bravo a prendere le onde leggere. Brezza del Caribe. Ce ne andiamo. E non capisco. Lascio che sia. Cerco una sensazione. Avverto una vertigine.

Parlo con una ragazza con padre italiano, madre filippina e vita ai Caraibi. Guardo le onde di un celeste splendente. Ultime parole. Fine. Ancora la vertigine che fruga nella mia pancia.

Adios

‘Lei è sempre così triste?’ Cosa rispondo a questa domanda?
Adios Caribe, 8 di marzo 

giovedì 14 marzo 2013

Diario di un viaggio imprevisto 6./La baia dell'Uomo Morto

Dove sei David Foster Wallace. Ho un bisogno urgente di te.


Questo vi sembra un buon posto per morire? Dead's man bay a Peter Island

Alba. Sulla baia a mezza luna dell’Uomo Morto. Dead man’s bay. Devono avercele piantate queste palme che sono allineate come soldati in parata. Sono perfette. Alba da meraviglia. Il sole e il cielo fanno il loro dovere. Sono sempre sorpreso dalla indifferenza della bellezza. Anche quando morì quell’uomo, in questa baia, il sole e il cielo fecero il loro dovere ai Caraibi. Mi sembra strano bere un aperitivo painkiller, ammazzadolori, assieme a un uomo morto. Onore a chi non ha cambiato il nome di questa baia. E ha rivendicato antiche storie di pirati. Chi se ne frega se oggi è folclore...

Ho scoperto che se alzo la bandierina che sta di fronte alle poltrone da mare, appare all'istante una cameriera.

Spiagge di zucchero, scriverebbe David Foster Wallace

E direbbe che questa è opera di Photoshop. Ma no: come avrebbe dovuto reagire un mercante i sardine norvegese di fronte a questo spettacolo? Lo avrei comprato anch'io. Chiedo perdono ai beni comuni
Fu un norvegese, produttore di sardine e petroliere, a comprarsi Peter Island quasi sessanta anni fa. Raccontano, ma è una storia, che un americano la ricomprò dai suoi eredi solo perché un maestro di tennis lo cacciò dal campo di gioco. L’americano era un conservatore (due milioni di dollari per la campagna di George Bush), un filantropo e un fondamentalista cristiano a quanto ho capito, e il suo business erano i ‘prodotti naturali’. Fin dal 1949. Precursore di ogni produttore bio. Oggi i suoi eredi guidano una multinazionale di creme e lozioni per il corpo.

Il biliardino al Caribe

Nella villa più grande di Peter Island mi commuovo di fronte al vezzo di un biliardino Balilla al centro del grande salone. Sarà in dotazione d'uso o è stato chiesto a comando? Nazional-popolare da casa del popolo in terra d'élite. Ho voglia di giocarci una partita. Ma sto qui da solo, nemmeno uno straccio di compagno di giochi.

Un numero qua è importante. Sono insistenti in questo. Lo fanno con garbo e discrezione. Ma la carta di credito è più importante del passaporto e della patente nautica. Ci vuole la carta di credito per guidare una barca. E ci vuole la carta di credito per varcare il pontile di un resort.

Le sedie del tramonto. Un'idea per Ikea

Champagne al tramonto

Ecco, lo champagne


Tramonto sulla corona delle isole. Sedie multicolorate. Bellissime. Ci fanno notare che ci sono perfino le capre in questa isola. Moet Chandon per il tramonto. E da un Iphone, una musica italiana. I ragazzi scattano foto per gli ospiti. Si torna fanciulli al Caribe. Ma Wilbert, caraibico di Saint Vincent, è manager serio e dice: ‘Mi piace la natura’. Mi piace Wilbert. Ha l’aria di un uomo appassionato. Credo che voglia bene a questo posto. 

Wine dinner

Wine dinner. Parla troppo il mercanti di vini. Ma la cuoca inglese è simpatica e imbarazzata. Da venti anni, se ne sta alle isole Vergini e almeno ci mette un po’ di Caribe nella sua cucina. Mi ubriaco, immagino. Il maestro di cerimonie è attento alla mia allergia ai crostacei. Di fronte a me, troppo distanti per il mio inglese, due avvocati inglesi. Da sette anni alle isole. Hanno ufficio per clientela off-shore. Il 70% degli investimenti che passano attraverso l’economia tax-haven delle isole è storia cinese. Ma qui approdano le oil company. Dalla repubbliche ex-sovietiche, dal latinoamerica. Transitano gli affari cinesi in Africa. Il 41% della finanza di Hong Kong passa per questi mari. Eppure, in giro, non vedi nemmeno mezzo cinese. Mi dicono che qua ci sono un milione e ottocentomila società. Le mie statistiche dimezzano questa cifra. Mi sa tanto che io mi limito a calcorale solo le incorporation bunsiness, le società di diritto locale. Sono oltre 470mila, a dar retta ai report del Register of Corporate Affairs. I due avvocati, felici e corpulenti, bevono di gusto ottimi vini. Hanno speso 160 dollari per questo wine dinner. Mi sorprendo a pensare: nemmeno tanto. Complimenti alla cuoca. I vini erano veramente una delizia. Il mercante avrebbe potuto parlare di meno. Tanto nessuno ascoltava.
Il ferry se ne va e non c’è tempo per trattenere i due avvocati. Sorridono ancora: ‘Il lavoro è facile e queste isole garantiscono neutralità e riservatezza’. Rimango con il mio porto e le mie curiosità in mano.

Pettinano la White Beach

Colin, il nostro accompagnatore, ha una giacchetta nera e maglietta gialla. Come fa a non sudare? Sembra uscito da un film dei Soprano’s. Mi sta simpatico: ogni cinque minuti, dice: Magnifico e nemmeno si guarda attorno. Mi spiega perché i top-manager dei resort sono tutti ‘stranieri’. Ne ho incontrati di francesi, americani, caraibici. Nessuno delle isole Vergini. ‘Chi nasce qua, se ha possibilità di studiare, vuole lavorare nel financial. Nell’off-shore. Guadagna di più’. Vogliono il brivido del potere finanziario, i figli delle isole Vergini. Fin da piccoli frequentano banche e uffici legali. Non gliene importa niente della bellezza e della natura. Hanno adrenaline dentro e vogliono diventare ricchi. Dal lunedì al venerdì, stanno di fronte a un computer. Al sabato vanno a Miami, Portorico o Saint Thomas a fare shopping, stordirsi, fare festa.

I bassi della Steel Island

 Sulla spiaggia, suona una steel band. La sua musica mi incanta. I suonatori di bidoni hanno camicie rosa corrose dal sudore. Si muovono appena e sono serissimi. Ma la loro musica fa volare. Almeno per un po’. Mi sembra un'orchestra di mille strumenti. Mi piace da impazzire la bassista: non le sfugge nemmeno un sorriso, il cuore e il talento sono roba seria. Posso venire via con te? Ascoltare ogni sera la tua musica?

La baia dell'Uomo Morto

‘Perché non è in spiaggia’, mi dice la cameriera. Già, perché non sono in spiaggia?
Somewhere in Caribe, 7 di marzo








martedì 12 marzo 2013

Diario di un viaggio imprevisto 5./Un'isola dopo l'altra


Little Dix Bay a Virgin Gorda

Conto sette cuscini sul mio letto. A cosa serviranno?
Quando cala il sole entra una donna e li sposta in un angolo della stanza. Prepara il letto per la notte. Aspetto che se ne vada e apro nuovamente le finestre. Voglio vedere il sole al mattino. Voglio che il sole mi svegli.

C’è una certa monotonia nella vita quotidiana di un resort. Aperitivi, qualche abito un po’ più elegante, i cuscini sul letto (appunto), i gadget (sui quali tutti ci buttiamo con avidità), le ciabattine, il buffet a sera, la carta di credito e il trillo del cellulare che qualcosa ti hanno addebitato, la firma dei conti. E, attorno, la bellezza. Il rumore del mare. La perfezione della linea dove cielo e mare si toccano. Cosa potremmo fare con tutta questa bellezza?

Eustasia Island e Necker Island


Giorno di visite. Le isole di Richard Branson, anzi sir Richard Charles Nicholas Branson (Virgin Records) e l’isola di Larry Page (Google: come partire da un garage e ritrovarsi padroni di un’isola). Richard, dall’aria da vecchio hippy, affitta la sua isola a 53mila dollari a notte. Ma ci sono i lemuri del Madagascar e i flamingos africani. Ci sono tucani e ‘uccelli rosa’. ‘E’ Disneyland’, mi dice che vi è stato. Gli accessi sono sbarrati a chi non è invitato, e nessuno può conoscere gli ospiti di Richard. E’ il mondo di qualcuno che è al di là della ricchezza e della fama. ‘Chi lavora là, poi non riuscirà a lavorare da nessuna altra parte’, mi avvertono ancora. Io riferisco, senza interrogarmi. Mi dicono anche che Richard sponsorizza tutto quanto si può sponsorizzare sulle isole. Perfino la squadra di calcio di Virgin Gorda, la ‘vergine grassa’, una delle isole più belle, la più vicina a Necker, l’isola di Richard. 

Olive Nut Bay


Giorno di visite. David Johnson in persona. Zoppicante e gioviale. ‘Welcome to the future’, e ci dà la mano guardandoci dritto negli occhi da sopra occhialini e abiti stazzonati. Uomo che lavora. ‘E’ un visionario’, ci dice la sua assistente. E ancora: ‘Fa ogni cosa nel mondo giusto. E’ paziente, meticoloso, attento ai dettagli’. Si è comprato un pezzo di isola, al punta più solitaria di Virgin Gorda. E la rivende con il diritto a costruire. David ha 63 anni. E i miei amici ambientalisti non avrebbero niente da obiettare: ogni regola ecologica è rispettata. Basso impatto, energie rinnovabili, riciclo dei rifiuti, pacciamature sui tetti, materiali ‘sostenibili’, desalinizzazione dell’acqua. David è un immobiliarista green. Ha vinto un sacco di riconoscimenti ambientali con le sue costruzioni. Distribuisce denaro (parola che qua non si usa) a decine di associazioni e centri di cura. Ha avuto un incidente a 29 anni, David. Rimase paralizzato. Per questo zoppica ancora. La filantropia è comandamento per un ricco americano del Michigan. Non ho pensieri. Passare una notte a Oil Nut Bay, in una villa sospesa sulla scogliera, con una vasca da bagno che guarda il Caribe, costa 18000 dollari. Quanto ho guadagnato io di reddito lordo lo scorso anno. Poi, dopo aver passato una notte qui, puoi decidere se comprarti un pezzo dell’isola e tirarti su una villa secondo linee-guida ambientali.

Yacht Club Costa Smeralda

Giorno di visite. Questa volta siamo a casa. Yacht Club Costa Smeralda. Sua altezza reale Aga Khan. Sette italiani al lavoro su trenta dipendenti. I soci dello Yacht Club volevano un luogo per i loro inverni. E’ stato scelto il Caribe. Questa isola, Virgin Gorda. Per i venti che qui si incrociano festosamente, per la bellezza (ancora e sempre la bellezza), per la stabilità politica ed economica delle isole, per la sicurezza. ‘Il paradiso, insomma’. Paradiso è parola inflazionata alle isole Vergini.
Mario e l'importanza del basilico

Cuoco italiano che ha seminato basilico e cipolle. E incoraggia un ‘contadino’ locale (è la prima volta che mi dicono che qualcuno qui coltiva un pezzetto di terra) a piantare melanzane e pomodori. Il cuoco ha metodi bruschi e tratta con durezza i ragazzi della cucina. Ma è bravo sul serio. Aveva un ristorante stellato in Italia. Ha rinunciato perché ‘sfinito dalle tasse’. Mi invita a fotografarlo mentre fa saltare il riso. Ne ammiro l’abilità e il saper fare. Giochiamo ai ruoli: se ne avessi un altro, se non fossi un fotografo fasullo, mi caccerebbe dalla cucina in un minuto. Così, mi travesto e lo guardo mentre assaggio il riso (arborio, la sua cottura dipende anche dall’umidità, la mantecatura due minuti, le capesante, i pistilli dello zafferano). Il cuoco ha figli dispersi nei ristoranti di Singapore e Abu Dhabi. Ancora un altro mondo. Come un imbecille, mi chiedo perché non ho fatto il cuoco. E conosco già la risposta. E poi ci sono i ragazzi che, venuti qui, per ‘fare un’esperienza’, rimangono per lunghi mesi. ‘E’ bello stare qua’. Loro sono belli, mi piacciono molto. Porte sempre aperte, niente chiavi. Libertà. Anche la parola ‘libertà’, corre con frequenza. E Stefano, il direttore dello yacht club, ha parole di saggezza: ‘Siamo qui, ci stiamo bene e vogliamo dare qualcosa all’isola. Incoraggiare economie locali. Accettare il loro modo di vivere e di pensare. Tentare un’intesa’. Devo crederci? Confesso: mi piace davvero questo posto, ha una bellezza (ancora, per l’ennesima volta) che mi appare vera. Mi appare ‘elegante’ senza trucchi.
Sulla parete di una sala c’è un immenso fossile. Antico di dodici milioni di anni. Venduto a un’asta. Comprato dall’Aga Khan. In realtà ne ha comprati otto. Sei sono in Sardegna. Uno è qua. E l’altro sarà destinato a un altro luogo ancora sconosciuto.
Hanno un’allegria mediterranea, questi ragazzi.
E, intanto, attracca un tre alberi superbo. Appartiene al fondatore di Netscape. Jim Clark, I suppose. La nuova ricchezza non ha addosso la polvere dell’acciaio o del carbone (del petrolio, sì), ma l’impalpabilità, a me incomprensibile, di Google, di Skype, della Apple (tutti Mac da queste parti), di Facebook, di Twitter…sappiatelo quando li usate in nome della nuova democrazia….

Mi portano via da qui. E qui, come sempre, vorrei rimanere. Per un po’, almeno per un po’. Per un’altra vita. Un’altra possibilità.
Il pontile di Beef Island

E’ finito il giorno di visite. Sul vecchio pontile corroso di Beef Island, sbarcano gli operai, le cameriere, le massaggiatrici di Bali, i vecchi giardinieri, gli inservienti dei resort. Una ragazza nera sembra uno strano uccello seduto su una panca. Si guarda in giro con apprensione. Sta in silenzio. Non riesco a immaginare cosa stia aspettando. Gli uomini sono grossi, dai colli di toro e le pance forti. Le donne sono immense. Si salutano con singulti di tuono. Non ci degnano di uno sguardo.

Ecco, fine giornata

Un nave-taxi per un’altra isola. Non c’è mai tempo in questo ‘paradiso’. E io sono lento. Ho bisogno di tempo. Mi metto a prua. In alto. Un marinaio mi guarda e cerca di avvertirmi. Dico che va bene così. Mi lascio schiaffare dagli spruzzi del mare. Finché le onde si agitano, non ho pensieri.
Somewhere in Caribe, 6 marzo

lunedì 11 marzo 2013

Diario di un viaggio imprevisto 4./Piove ai Caraibi


Le rocce di Baths


Piove sui Caraibi. Qualche coda di una tempesta tropicale. Le previsioni vanno a percentuali di possibilità. Al 60% pioverà tutto il giorno. Non ci credo, ma così mi dicono. Mi piace questa sensazione di freddo che non è tale.
Piove e il mondo si ferma. Cosa si fa ai Caraibi quando piove e sei qui in vacanza?
Quando sei nel recinto da bellezza perfetta di un’isola?
La televisione (l’unica televisione del resort, nel solo posto dove è consentita) è sintonizzata su un canale di Borsa. Che, dalla voce incomprensibile del conduttore, appare come un programma sportivo. Boati quando appare la quotazione di un titolo o lo stato di un indice.
Ci sono due computer collettivi. E allora si leggono le mail lasciate a casa.
E poi?

Il parco del resort


L’isola appare deserta. Il resort appare deserto. Eppure so che è pieno. Nessuno in spiaggia. Nessuno lungo i vialetti. Nessuno. Solo la gente che qui lavora si ostina ad andare avanti e indietro. Stuolo di giardinieri per i prati. Stuolo di ‘disegnatori’ della spiaggia a livellare ogni imperfezione del bagnoasciuga.

La foglia caduta


Questa volta chiedo e così un nero di Giamaica, con bei denti in fuori, mi spiega: al livello più basso, un lavoratore del resort ha un salario di quattro dollari all’ora. Al più alto, può arrivare a otto. Non oso chiedere tipologie di contratti. Ma, a parlare con i manager, i sindacati qua hanno una loro strana forza. Si vive sull’isola con questi soldi? Sì, mi dice il mio driver. Ma non ho la libertà che ho nella mia terra. Già, qua incontro neri di Trinidad, di Santa Licia, di Giamaica, di Tobago…migrazione caraibica. Verso l’arcipelago in cui c’è lavoro.

La spa


Primo massaggio della mia vita. Una ragazza di Bali. Ricordo Bali, mille anni fa. In motoretta. E le ragazze che ti offrivano massage e poi ti scartavano perché troppo giovane.
Mi spoglio, mi metto sotto il lenzuolo, sto a faccia in giù. Non capisco come sia messa la ragazza di Bali. Non so da dove arrivano le sue mani. Mi sembra che abbia mille mani. Che sia dovunque. Dà un piccolo tocco, quasi un avvertimento e poi sento che corre in ogni angolo della mia schiena. E’ meticolosa, la ragazza. Ma ci mette calore, passione, silenzio. Il mio corpo si fa scivoloso. E’ una dimensione a parte. Sono altrove. O, forse, semplicemente, mi sono addormentato. Fino a quando non mi gira e mi benda gli occhi. Non bisogna vedere, capisco questo. Gli occhi distraggono. Adesso so che sta lavorando sulle cosce, sui piedi, sulle gambe. Continuo a non capire quante mani abbia.
Ogni cosa ha una sua fine. Avverto un peso sulla mia pancia. E’ il mio accappatoio che ha poggiato lì. Mi toglie la benda dagli occhi. Mi indica un bicchiere d’acqua. Guardo fuori. Il mare. Non so dove sono. Bevo un sorso. Mi accompagna fino a un terrazzino. Mi lascia lì. Sono in imbarazzo. Mi siedo su una sdraio. Non so cosa fare. Non afferro un solo pensiero. Solo che vorrei essere altrove. Solo che vorrei essere qui. E’ una condanna, questa. E io non vorrei scrivere queste righe. Saluto la ragazza di Bali senza vederla più. Ha già un altro cliente. Un ragazzo giovane. Con l’aria da duro. Consapevole della sua bellezza e, credo, della sua forza.
Dove avrai casa, ragazza di Bali?
Non faccio una sola foto.  

Baths


Buffet a pranzo. Da 75 dollari. Comincio a pensare che la cucina dei Caraibi non sia un granchè. Deve essere un problema di cibi importati. I pomodori non sanno di pomodoro. Mi dicono che l’aragosta di Anegada sia buonissima. Non fatico a crederlo. Tutto il resto ha un sapore da supermercato. Un’idea coraggiosa potrebbe essere costruire orti da queste parti e allevare piccoli maiali. Il piatto nazionale del Caribe è il porco. E, raccontano, arriva dall’Argentina. ‘Meraviglioso’, assicurano. Leggo che ci sono produttori rasta che qualche verdura biologica si sono messi a crescerla. Mi piacerebbe andare a incontrarli.

Sulla sponda meridionale del Caribe, muore Chavez. I soldati pattugliano il Venezuela. I turisti leggono il New York Times Digest. Strano leggere di Chavez e dei massacri in Siria di fronte all’oceano.

Baths


Tito ci porta in città. In realtà non è una città. Ci sono quattromila abitanti nell’isola. Spanish Town è a dieci minuti a piedi dal resort.  Tito ha solo due denti ed è bene che ci accompagni in città. Noi siamo il suo salario.

La rocce di Baths


Nessun fra le grandi rocce di Baths. Cerco di infilarmi nelle grotte. Nei passaggi più stretti. Mi ritrovo da solo. Prego che accada qualcosa. No, non succede niente. Solo che scivolo malamente sulla pietra umida di sabbia. Fermarsi qui. Perfino il bar del ‘pover’uomo’, scortecciato e disordinato, è chiuso. Dove sono tutti? E’ bello, Baths. Accarezzo le rocce.


Mark


Mark, cantore di Santa Licia, fa compagnia agli ospiti del ristorante celebre. Canzoni del ‘900. Bob Dylan e Otis Reding. Paul Mc Cartey e Guantanamera. La gioventù domata. La gioventù che continua le sue irrequietezze. E non è riuscita a trasformarle in una storia di cambiamento. O, forse, sì. Keith Richards viene alle isole Vergini. Lo avrebbe mai pensato quando fece vibrare la sua prima chitarra?
Mi piace Mark. Perché non si nasconde dietro le parole. Vive cantando nei locali pubblici. Dice che ama il ritmo dei bassi e il calypso contemporaneo. Sua figlia canta nei bar scartavetrati di Tortola e di Jos Van Dike. I luoghi della Lonely Planet. Il mondo delle isole si divide fra i buoni e i falsi cattivi. Un gioco delle parti. Solo la bellezza ha il dono dell’indifferenza. Non so come raccontarvelo. Vorrei che questa bellezza fosse carne e ossa. E sapesse dire. Che la smettesse con la sua alterigia, consolasse i cuori e convertisse i duri d’anima. Non lo fa. Lei sa che sarà ancora qui. Per sempre. Perché così è da sempre. Illude, ecco cosa fa, la bellezza. Cerco di goderne.

La palma fra le rocce


Scaccio i pensieri. Non mi va di andare via da qui. Io che ho sempre amato andarmene, ora voglio respingere questa condanna all’erranza. Vorrei fare il cameriere a quattro dollari all’ora. Vorrei, in silenzio, raccontare storie nelle sale dei turisti che non si curano di me e, forse, nemmeno di Mark, amico di una sera. Vorrei essere un uccello che si fa beffe, bene accetto, dell’etichetta e becchetta fra gli avanzi lasciati nei piatti. Vorrei essere pellicano con i suoi tuffi a testa in giù. Vorrei perfino essere il pesce che il pellicano ha fatto sparire nel suo grande becco. Vorrei essere una grande donna nera che cammina, con qualche fatica, trasportando il suo peso immenso e sembra non curarsi delle dimensioni del suo culo e delle sue tette che sono mongolfiere afflosciate. Vorrei essere uno di questi uomini, la carne che si piega sul collo, le spalle forti, la pancia che si dismisura e il tempo che non so che valore abbia per loro.

Scrivo questo ben sapendo che sono qui perché Laurence Rockfeller, sessanta anni fa, vide questa baia e disse: ‘Qui’. Che cosa si prova, in fondo al cuore, ad avere questo potere?
Somewher in Caribe, 5 marzo