venerdì 26 agosto 2011

Libia/Gattopardo a Tripoli


L'hotel Corinthia a Tripoli


Follow the money. Come è difficile seguire le piste del denaro. Non credo che esista una contabilità al centesimo di quanti soldi libici ci siano nelle casseforti delle banche occidentali. Il Wall Street Journal fa i suoi calcoli: 37 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Quasi venti miliardi in Gran Bretagna. Poco più di dieci in Germania. L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, dice che vi sono 140 miliardi di dollari congelati dalle sanzioni Onu. Farhat Omar Bengdara dovrebbe saperlo bene: ex-governatore della Banca di Libia, vicepresidente di Unicredit, bengasino, molto incerto, nei primi giorni della rivolta, sulla parte dalla quale schierarsi. Lui ha sempre parlato di 130 miliardi di dollari. Altri hanno fatto calcoli più generosi: 160 miliardi di dollari. Il Sole24ore scrive di 165 miliardi di dollari.

Le banche occidentali, arabe e asiatiche saranno ben tristi se questa montagna di soldi verrà scongelata. Rischiano di vedersi svuotare le proprie casseforti in un momento in cui avere soldi liquidi intoccabili farebbe molto comodo. In Europa sono congelati beni e denaro di quaranta personalità libiche (ad aprile dalla lista fu tolto il ministro degli esteri di Tripoli, Musa Kusa, fuggito a Londra) e cinquantaquattro ‘entità’ (fondi sovrani, banche, grandi società pubbliche….)

Per due settimane il Sudafrica ha minacciato il veto se i fondi che le Nazioni Unite avrebbero scongelato fossero finiti solo nelle mani del Consiglio di Transizione. E a chi altri avrebbe voluto darli, il Sudafrica? Alla fine, è stata trovato un accordo e un milione e mezzo di euro sono stati sbloccati. Non è chiaro a chi saranno consegnati. Al ministro delle finanze dei ribelli, immagino.

Non è così facile scongelare i soldi libici. Devono essere messi in moto complessi meccanismi burocratici. Sono possibili contenziosi giudiziari. A chi appartiene il Fondo Sovrano Libico? ‘Al popolo’, dicono i ribelli libici. Lo sosteneva anche Gheddafi. 

Alla fine, qualche soluzione si troverà. In Italia, a leggere le cronache, si precorrono i tempi. Consapevoli che, visti i nostri precedenti e appassionati rapporti con Gheddafi, bisogna acquistare credibilità presso i ribelli. Quindi, sempre a dar retta ai giornali, Unicredit ha già versato 300 milioni di euro nelle casse del Consiglio di Transizione (mediatore, immagino, il vicepresidenti libico della banca: chissà se ora si metterà fine all'ipocrisia di Banca Centrale Libica e Fondo Sovrano che, come azionisti di Unicredit, fanno finta di non conoscersi). L’Eni è stata più sparagnina: ha prestato la metà. L'amministratore delegato Scaroni ha già fatto sapere che vuole garanzie, ma deve osare qualcosa se davvero vuole essere in prima fila nello scramble for oil (l'Eni dovrebbe aver acquistato punti: si dice abbia aiutato l'ex-ministro del petrolio libico a fuggire. Scaroni si guarda bene dal rispondere alla domanda). Berlusconi  si è inventato una scorciatoia, a leggere il Wall Street Journal, per aggirare le complesse procedure europee per scongelare i soldi libici: ha sbloccato mezzo milione di euro e ha fatto un accordo bilaterale con i capi del Consiglio di Transizione
Ci vuole una buona dose di coraggio: i ribelli non hanno ancora ricostruito un proprio ‘governo’ dopo la crisi di luglio (certo, hanno altro a cui pensare).  Già, qualcuno sta esitando. In fondo, voi dareste 160 miliardi di dollari a gente che ancora non avete imparato a conoscere?

Il Sole24ore ha saggiamente scritto che più che un impegno alla ricostruzione di un paese (ricco, molto ricco), questa sembra una competizione a una gara d’appalto. Bisogna mettersi in mostra davanti ai nuovi padroni del petrolio, con il vantaggio di avere conquistato molte posizioni a scapito di quei pavidi di russi e cinesi.
Questa è un brutta storia. Si prova a cambiare tutto perché nulla cambi. Gattopardo, già.
Santo Domingo, 26 agosto



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