sabato 6 agosto 2011

Dominicana/Cento e uno figli e nipoti


Andrès ha un soprannome: Cassè. Gli hanno raccontato che non voleva nascere. Non voleva saperne di uscire dalla pancia di sua madre. La donna si dondolava da due giorni. Urlava e piangeva. Era sfinita. Esausta di quel figlio ribelle prima ancora di conoscerlo. E allora qualcuno prese una sedia in mano e la mandò in pezzi sulla pancia della donna. Il bambino capì che era meglio venir fuori. E’ andata così.


Andrès


Andrès ha la pelle lucida. Cartavelina nera. Occhi d’acqua. Devo avvicinarmi per capire i suoi bisbiglii. Parla a voce bassa. Chiama i suoi amici, Andrès. Per più di mezzo secolo hanno tagliato la canna da zucchero assieme. Dodici ore al giorno nei giorni della safra, del raccolto. Portano fuori quattro sedie. Sediamo in un cortile di fango. Andrès ha 73 anni. Ha cominciato a cortar cana a 12. E’ haitiano, Andrès. Mai ha visto la sua terra. I suoi genitori arrivarono qui un anno prima della sua nascita. Furono gli americani a portarli fino alle baracche dove avrebbero vissuto nella stagione del taglio della canna. Non sono più tornati a casa. Forse, il prossimo anno, Andrès, per la prima volta, andrà a vedere come è Haiti. Non ci crede nemmeno lui, ma lo dice lo stesso.

Ha avuto i suoi primi documenti a 18 anni. Non è mai riuscito a diventare dominicano. Avrebbe dovuto fare il servizio militare, ma non c’era il tempo. Doveva lavorare per mantenere la sua famiglia. Senza i pesos della sua ‘quindicina’ non avrebbero potuto mangiare. I suoi figli sono dominicani. Qui dicono: dominicani di origine haitiana. Come a precisare una nuova etnia.

Racconta la sua storia a monosillabi. Come altro potrebbe raccontarla? A uno straniero, per giunta. Abbasso anch’io la mia voce. Non ho parole per chiedere. Andrès guarda lontano. Immagino il suo ragionare: ‘Un tempo guadagnavamo un peso e potevamo mangiare carne e aringa. Oggi nessun raccoglitore può permetterselo’. Il vecchio Andrès rimpiange i tempi della dittatura. I vecchi poveri di oggi rimpiangono un tiranno fatto saltare in aria mezzo secolo fa. Rimango in silenzio.

Elias è più giovane di Andrès. 65 anni. Ma non a forze. Vorrebbe lavorare ancora (Andrès lo ha fatto fino a due anni fa), ma non lo vogliono più. Tre anni è andato fino alla capitale. Ha fatto i fogli per la pensione. Sta ancora aspettando: ‘Ci hanno succhiato il sangue. E poi ci hanno abbandonato’.

La casa di Feliz

Parliamo davanti alla casa di Feliz, un uomo magro, dalla pelle chiara. Dominicano. La sua baracca di legno è storta, fuori asse, messa obliqua dal tempo, dalla pioggia, dal vento, dai cicloni. Nella stessa stanza sono riusciti a infilare un tavolo coperto da una tovaglia, una poltrona, quattro pesanti sedie di legno, due sedie a dondolo, un televisore (dov’è la corrente qui?), il braciere per far da mangiare. E i ninnoli di una vita. Un fantastico quadro dove cani giocano a carte e ce ne è uno che sta barando (dove lo hai trovato, Feliz?).Tutto ben esposto. Tutto pulito. Si lascia fotografare con orgoglio.

Ho imparato a fare una domanda indiscreta (almeno io la ritengo indiscreta, ma penso che dia appiglio a un orgoglio machista). Conto figli e nipoti di Andrès, Elias e Feliz. Fanno 101. Da tre uomini (dalle loro invisibili donne) ne sono nati altri cento e uno. Un esercito schierato a battaglia.  

Il responsabile delle risorse umane del Consorzio zuccheriero è un uomo cortese e intelligente. Mi spiega le politiche sociali della società. E io penso ai tre vecchi davanti alla baracca. E non so immaginare come spiegherei quanto sto ascoltando in un piccolo e spartano ufficio, difeso dall’aria condizionata, ai cento e uno figli e nipoti dei tre uomini che, in silenzio, vedono scendere un’altra notte.
Sull’isola, 5 agosto

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