Padre Pablo muove il suo corpo africano e scende il gradone sul quale poggia l’altare. Al mattino ha tolto il suo pick-up dalla navata: la chiesa serve anche come parcheggio alla macchina. Le donne e i bambini hanno messo panche e sedie. La chiesa, la catedral, del bateye 5 non ha pareti. Può fare molto caldo, che l’aria ci provi a circolare. La chiesa è un patio coperto.
Si asciuga il sudore. Appare imponente, padre Pablo. Un congolese spedito a fare il missionario in una terra di africani-americani. Almeno per lui, i dominicani hanno ragione a chiamarlo congose. E’ domenica e padre Pablo, alle nove del mattino, è alla sua terza messa. Questa, però, è casa sua. Qui abita. Parrocchia di San Martin de los Porres, santo peruviano, mulatto e bastardo, figlio di un hildalgo spagnolo e di una schiava liberata. A piccoli gruppi sono venuti dai bateyes vicini. Molte vecchie, molti vecchi. Meno i giovani. Una striscia di ragazzi in prima fila. Padre Pablo si guarda attorno e poi tuona: ‘Mancano ventitre persone’. Conosce i suoi fedeli uno a uno. Sa che, a gruppi, siedono sempre vicini. Ha fatto i suoi conti. E questa domenica ci sono posti vuoti sulle panche. Rimprovero? Non so. Padre Pablo vuole sapere perché non sono venuti. Meccanismo di controllo? Forse di solidarietà. Bisogna sapere cosa succede al vicino. ‘Bisogna conoscersi’, dice Pablo. La vita è storia fragile in questa parte dell’isola. Si scopre che qualcuno è all’ospedale. Che c’è un giorno di lutto in un bateye e la gente è rimasta accanto alla famiglia di chi se ne è andato. Credo che padre Pablo se ne andrà a cercare gli altri. Uno per uno. Si intreccia la preoccupazione del pastore e il desiderio di sapere cosa accade nei villaggi. I bambini racconta a padre Pablo quello succede fra i vicoli di fango secco dei bateyes.
Poi sgorgano parole. Cristo diventa un indocumentado che cerca fuga e futuro nel canale di oceano che separa l’isola da Portorico. Padre Pablo vive in questo sud-ovest dell’isola da più di venti anni, ma il suo spagnolo ha le scivolate del francese. Parla con accento strano, puntuto, aggrovigliato. Le parole sembrano uscire di botto dopo aver superato un ostacolo. Saluta di continuo la sua gente e loro rispondo in coro. Se dice buena noche a metà di una frase, loro subito rispondono buen dia. Sa giocare, padre Pablo. Come tutti gli oratori di chiesa. Sguardo severo, sorriso africano, occhi che si intorvano e ritrovano luce e complicità un minuto dopo. Sull’altare un messale squadernato, un piccolo crocifisso, una candela in un bicchiere e una bottiglietta d’acqua che sta perdendo il suo ghiaccio in rivoli di goccioline. Tonaca bianca a coprire maglietta e pantaloni già stanchi della giornata appena cominciata.
La gente sfiora con lo sguardo questo prete immenso. Abbassano la testa se si sentono osservati, le ragazzette in prima fila sorridono come bambine (ci sono io che fotografo) e guardano di traverso. Si danno di gomito. La messa è un gioco. Ha la sua ritualità caraibica. Uno stop and go. Si cita a memoria Isaia capitolo 55, versetto Uno. Si mette in mostra sapienza catechista. Le vecchie si mettono un fazzoletto a nascondere i capelli e fanno la fila per la comunione. Pochi uomini le seguono. Un ragazzino della comunità andrà in seminario il prossimo giovedì.
Il canto finale. Padre Pablo rimette a posto il vino in una piccola bottiglia di vetro.
Due giovani ci fermano. Per parlare. E subito dopo per chiedere lavoro. Lasciano il telefono.
Padre Pablo ha cortesie per gli ospiti: liquido arancione ben ghiacciato e bottiglione di coca-cola.
Gli animatori fanno cerchio sotto una veranda e aspettano una buona mezz’ora. Incontro della domenica. Andrà avanti per tutta la mattina. Così è. Fuori i paesaggio è da ultimo west. Case, binari della ferrovia zuccheriera, rifiuti che volano, castelli di acqua (ma non c’è elettricità e le pompe sono incagliate), baracche di legno. Immobilità. Ma deve esserci brezza, si muovono le foglie della canna da zucchero.
Sull’isola, 7 agosto
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