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Il successo di SlowFood |
Mi riconcilio con SlowFood.
Al sabato non mi perdo fra gli stand del Salone del Gusto. Al secondo giorno della fiera, non mi faccio distrarre. Cammino spedito verso gli apicultori etiopici. E’ una
maniera per salvarsi dalla bulimia che mi prende in luoghi come questo. E poi mi interessano i mieli d’Etiopia.
Conosco i paesaggi dove si producono.Conosco questi apicultori. So della bellezza del
vulcano di Wenchi e apprezzo il sapore del miele bianco del Tigrai. Ora
apprendo che questo è il miele più bianco del mondo. Assaggerò sette mieli.
Zerihun spiega il mercato del miele dell’Etiopia. L’80% della produzione è
riservata al
tech, l’idromele, la
bevanda fermentata amatissima dalla gente dell’altopiano. Ma il miele perde così
valore: non viene pagato a sufficienza. Non esistono apicultori professionisti
in Etiopia. I contadini allevano le api per avere un qualche reddito in più.
Non lasciano ‘maturare’ il miele. Per fare il
tech non è necessario. Il miele etiopico sa di fumo, le api sono
molto aggressive e bisogna pur cacciarle dalle arnie. (Penso: a me è sempre piaciuto
il gusto del fumo del miele di Wenchi). Il miele, infine, non viene pulito, non
viene decantatato, non è filtrato. Ricordo le ali che affioravano nel barattolo
comprato sempre a Wenchi. Ricordo la cera che galleggiava nel miele bianco di
Alitena. A me piaceva. Lo so, appartengo alla strana categoria di coloro che
hanno nostalgie dell’imperferzione.
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Zerehiun racconta del miele |
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Apicultori del Tigrai |
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Assaggi di miele etiopico |
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Assaggi di miele etiopico |
Mi piacciono i mieli dell’Etiopia. Mi spiegano la differenza
dei sette mieli. Mi danno un foglio con su disegnato un cerchio olfattivo. Non indovino un solo gusto. La storia del miele d’Etiopia è bella. Una ragazza
spagnola parla di miele denso e cremoso. Un apicultore pisano mi dice che
bisogna che questo lavoro cominci a dare un reddito vero. Prometto di indagare
di più. Gli stand etiopici non sono sfolgoranti. Non è molta la gente che vi si
avvicina.
Faccio in tempo a correre all’altro capo del Salone. Si
parla di
landgrabbing. Di fame di
terra. Liliana Vasquez, ricercatrice colombiana, mette in chiaro i nomi:
giapponesi, cinesi, neozelandesi, sauditi controllano migliaia di ettari di
territorio colombiano e vi seminano soya. ‘Mi chiedo quale terra rimarrà per i
nostri contadini’, dice Liliana.
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Cuochi |
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Il palazzo del Salone del Gusto |
Cerco un filo conduttore nel Salone del Gusto. A volte penso
di averlo trovato. Più spesso mi smarrisco. Le belle parole mi sembrano
accerchiate. Penso, di nuovo, che sobrietà e lentezza non abitino in questi
padiglioni. Tantomeno la discussa
decrescita.
Qui ci sono altre regole. Quelle del mercato che cacciato dalla porta sta
rientrando dalla finestra. Questa fiera è
gigante.
E’ eccesso.
E Roberto Burdese, presidente di SlowFood Italia, promette che la prossima lo sarà ancor di più. Mi piacerebbe andare a trovare
Alex Zanotelli. Per chiedergli cosa ne pensa. E’ qui, da qualche parte. Sono io a non avere la forza di
cercarlo. Mi dicono che c’è anche Latouche. Ma forse ho letto male.
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Gli animalisti |
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La protesta solitaria |
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Gli animalisti |
Nel piazzale del Lingotto, a distanza, là dove si prende la
metro, ci sono dieci ragazzi che manifestano. Animalisti. Alcuni hanno maschere
bianche. Cartelli. Striscioni. Megafono. Sono solitari. Non contano. Nessuno
sembra ascoltarli. Non credono che l’etica possa comprendere il mangiare gli
animali. Per loro ‘non c’è il g(i)usto al Salone’. Una ragazza si mette in
favore di sole per farsi fotografare meglio: ‘E’ importante’.Non ho il coraggio
di dirle che io sono un ‘vegetariano non praticante’ (questa definizione non è
mia) e che, in fondo, mi piace mangiar carne.
Vicino alla metropolitana ci sono anche persone con le
bandiere della Cgil. Stanno tranquilli. Non so nemmeno perché siano lì. Non chiedo.
Chi marcia verso i padiglioni della Fiera non ha attenzioni
per queste voci dissonnanti.
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Il torrone francese |
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Gli scaffali di Timbuctu |
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Le marmellate della Bosnia |
In piazza Palazzo c’è Oltremercato. Qualche decina di
bancarelle di piccoli contadini delle valli alpine. Guardo con curiosità le
patate violette. Sfioro peperoni e cavoli. Mi faccio tagliare un pezzetto di
formaggio. Assisto a discussioni in piemontese sulla qualità delle patate.
Dietro i banchi ragazzi, donne, qualche anziano. Mi chiedo: ma perché questi
non sono a SlowFood? Solo perché non hanno i soldi per pagarsi uno stand? O,
perché sono fuori dal mercato? Perché
non hanno messo i loro banchetti nel piazzale del Lingotto? Solo perché non
sono glamour? Ci sono tre persone
fuori tempo che hanno avvolto una bicicletta in una bandiera di Rifondazione.
Chiedono firme per un referendum. Articolo 18. Roba del ‘900, mi dico. Me ne pento, ma so che davvero è così. Loro
hanno una spiegazione, mettono una mano avanti: ‘Noi siamo polemici, questi
contadini non vanno a SlowFood perché là è solo business’. Ideologia per
ideologia. Alla fine salgo i gradini coperti di velluto del municipio. Per
fortuna che c’è Nihad, il cuoco di Sarajevo, che mi accoglie con un bicchiere di zilavka. Trovo pace.
Torino, 28 ottobre
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