domenica 31 ottobre 2010

San Isidro





Guardo i maestri, cartelle azzurre sotto braccio, salire la  giravolta di gradini che si arrampica lungo la scarpata franante di San Isidro. Guardo la ragazza dai lunghi capelli neri e uno spolverino bianco addosso. Un normale giorno di scuola in un paese solitario. Non arriva la strada a San Isidro. Da qualche mese hanno tracciato una pista nel letto del fiume: un camion al giorno può risalirne il corso.
Cammino di quasi tre ore per noi inadatti a queste altitudini. Sette chilometri. Il fiato da cercare. Si guada trenta volte il fiume. Equilibrio sulle pietre. Attorno le montagne avvolgono il paesaggio. Finca solitarie, un bambino, tre vacche, qualche capra. Oggi è giorno di semina a San Isidro, ottanta famiglie di contadini del popolo Colla. Queste sono terre comunitarie (propriedad comunitaria privada), terre di gente originaria di queste montagne (qui non amano la parola indigeni). Nel cielo volano le aquile. Un bambino silenzioso gioca a pallone lungo il cammino del fiume. Non c’è niente attorno. Da dove è spuntato? Non ci degna di uno sguardo. Quando, nell'estate australe, arrivano le piogge, San Isidro è tagliato fuori dal mondo. Ci si abitua alla solitudine, alla lontana. Lontananza da che? Dona Eleuteria ci offre una meravigliosa zuppa di patate verdi. Ci guarda, inforca gli occhiali. Pensa che l’Italia sia lontanissima. Lo è. Poi chiede a Leonardo che dice di essere di Cordoba. Lei ha un pensiero: ‘Deve essere più vicino dell’Italia’.
L’elettricità è arrivata a San Isidro solo da cinque mesi. E’ già spuntata una parabola. Il camion, in un marcia annaspante e coraggiosa, ogni giorno, porta merci che prima risalivano la valle a dorso di mulo. L'autista, una donna dalla lunga coda di capelli intrecciati, ha lasciato due travi di fronte alla casa di fango di un contadino (casa sospesa a mezza costa), una donna, invece, attende con i muli il camion (e dopo avrà un’ora di cammino). 
San Isidro è costruita su un costone franante, è quasi nel vuoto, alcune case sono già state abbandonate. C’è un pozzo comunitario per la spazzatura. Qui si seminano mais e patate. E, ora che anche qui arrivano i turisti (i più intraprendenti), i contadini si trasformano in artigiani. Gli uomini tessono scialli, le donne filano la lana di lama. Ci sono ben sei comedor e quattro hospedaje a San Isidro. Un’assemblea comunitaria ha deciso i prezzi. Di tutto: dall’empanadas (dieci pesos la dozzina) al quizo de papas verdes. Un letto a una piazza costa 15 pesos (tre euro). Un cartello avverte: senor turista, le chiediamo di non domandare uno sconto, abbiamo deciso assieme questi prezzi e sono molto economici. Por favor, rispetti los acuerdos del pueblo. Mi immagino le assemblee in questa sala comunitaria oggi deserta. Settanta ragazzini fanno le scuole primarie. Il direttore è un uomo ancora giovane: fa il maestro in queste solitudini da undici anni: ‘Voi venite qui e vedete la bellezza di queste montagne. Provate a viverci per una settimana…’. Una grande lavagna accoglie i ragazzi (mi sembrano tutti ‘vecchi’ per una primaria): ricorda che oggi è l’anniversario di Listz e Sarah Bernard (chi mai scriverà ogni mattina queste cose, in quale google ha saputo queste notizie?), ma la stessa lavagna dice anche di non dimenticare le Madri di Plaza de Mayo. Ne accadono di cose a San Isidro. Un cane, istinto pastore, ci ha seguito per tutto il cammino.  
Cafayate, 31 ottobre (fuori il sole delle vallate, caffè sul tavolo, le campane della domenica)

Incontri/3



Sono passato più volte davanti alla sua libreria. Come resistere a un luogo che si chiama: Taller del viento. Alla fine ho conosciuto Fabian, librario a Tilcara, paese di cinquemila abitanti in una vallata andina. Dieci anni fa lavorava in un laboratorio di lenti a contatto a Buenos Aires. Licenziato negli anni della crisi argentina. E allora perché non aprire una libreria in un paese dell'estremo Nord del paese? 'In Argentina si legge. Molto', dice Fabian. E i libri sono più cari che in Europa.
Cafayate, 30 ottobre



Se passate da Tilcara, passate a trovare Fabian.  tallerdelvientolibros.blogspot.com

Incontri/2



Cecilia preferisce il suo secondo nome: Romina. Ha appeso un trapezio al ponte di ferro che conduce alla Pukara, l'antico luogo sacro degli Inca, di Tilkara. Volteggia sopra le macchine. Lei e il suo trapezio stanno viaggiando verso la Colombia. A dedo.


Cafayate, 30 ottobre

Incontri/1



Guaio alla macchina fotografica. Sky-light in frantumi. Lente incastrata. Il vecchio calzolaio di Tafi del Valle mi sembra la persona adatta per aiutarmi. E' così che conosco Hipòlito, la sua pinza e le sue scarpe.
Cafayate, 30 ottobre

venerdì 29 ottobre 2010

Lo strano giorno del censimento e del lutto nazionale


L’Argentina ha sbarrato scuole e bar, uffici e ristoranti. Perfino le donne delle empanadas della piazza principale di Tilcara hanno disertato le loro bancarelle. Deserto assoluto. Solo i cani sono padroni delle strade del paese. Giorno di censimento in Argentina. Giorno di serrata assoluta. Per le strade di terra di Tilcara, il vento alza i suoi mulinelli di polvere e cartacce. In giro solo los censistas, uomini e donne con i fogli dei questionari e un badge appeso al collo…..

In questa stessa mattina, all’altro capo del paese, Patagonia profonda, muore Nestor Kichner, l’ex-presidente, il marito della presidenta, di Cristina Kichner. Mi viene voglia di fare il giornalista. Di chiedere a chi incontro. I Kichner sono la saga dell’inizio del nuovo millennio argentino. Sono il peronismo di sinistra, idea incomprensibile con gli schemi di un europeo. Marito e moglie che dalla lontanissima Patagonia (nel senso di lontana da Buenos Aires) hanno conquistato, assieme, il potere. Tutti credevano che Nestor si sarebbe nuovamente candidato alle elezioni presidenziali del prossimo anno.
Confesso, le Ande mi sembrano indifferenti. Il censimento ha dato lavoro, almeno per un giorno, a migliaia di persone. Alle domande attorno a Nestor non trovo molte risposte. Qualche battuta sulla coincidenza fra il censimento e questa morte improvvisa (ma il cuore di Nestor da tempo era ammalato). Solo Diego, giovane kolla, fiero di essere figlio diretto di popolazioni originarie, azzarda qualche parola: ‘Kichner ha rimesso in movimento questo paese. Ha avuto in eredità solo rovine ed è riuscito a ricostruirlo. E’ stato vicino al popolo. Ha ridisegnato il volto migliore del peronismo’. Leggo sui giornali del carattere brusco dell’uomo. Ascolto interrogativi sul futuro. Cristina reggerà senza il marito?  A me vengono in mentre i maestri dei paesi andini che mi hanno raccontato dei loro stipendi da fame.
Tilcara, 27 ottobre  

Due tazze al Mirador

Santiago
Machi

Santiago e Machi, due chicos di altre terre (Santiago viene addirittura dalla Terra del Fuoco: ‘vento e freddo. Come qui’), gestiscono il Mirador, hostal ‘alternativo’ di Yavi, estremo Nord dell’Argentina. Sono un rasta e un bravo suonatore di charango dalla folta barba nera e dagli occhi da sciupafemmine. Yavi è un villaggio indigeno. Le donne sono ombre addossate alle mura di adobe. Gli uomini hanno pelle bruciata dal sole e passano le notti a ubriacarsi di birra Norte. Il silenzio e il vuoto sono il paesaggio di Yavi. Terra di una bellezza disperata. E proprio qui, ultimo paese dell’Argentina, Santiago e Machi hanno aperto un hostal. Luogo prediletto di giramondo estivi.

Ma non offrono desayuno al Mirador. Perché? ‘La verdad?’, chiede Santiago e poi confessa: ‘Abbiamo solo due tazze’. Santiago vive qua da un anno e mezzo dopo aver vagabondato per mezza Argentina. I suoi occhi sono ancora stupiti del mondo e la dolcezza accompagna ogni suo gesto. Ora capisco perché questa terra mi intriga: non è venuto in mente a nessuno che si possono comprare altre tazze per preparare le colazioni. E pensare che Santiago è un cuoco eccellente: al Mirador ho mangiato i cibi migliori di questo viaggio. E ho scoperto che le tazze non sono importanti. E poi, per preparare le colazioni, bisogna svegliarsi troppo presto. E qui, nell’estate australe, anche a Yavi, nessuno (i ragazzi, intendo) va mai a letto prima delle sei del mattino. Questi ragazzi dell’Argentina, fuggiti dalle città, hanno preso il ritmo di un tempo personale e perduto. Beato e tranquillo. Da viaggianti del presente. Sereno, senza futuro e felicemente sconclusionato. Anche se non lo sanno, io spero che siano un granello di sabbia nel meccanismo della modernità. In fondo, si riesce a gestire bene un hostal in una terra estrema, anche solo con due tazze. Si possono bere due tè di coca per volta, per il mate, poi, c’è sempre la bombilla da compartir. Il tempo, un evviva le divinità di queste terre, un alleluia per il culto delle pietre della Pachamama, è troppo prezioso per essere sprecato dall’efficienza.
Yavi, 27 ottobre

Conversazione con dona Rosa


La lezione di gastronomia di abuela Rosa



Solo ora, che ci separa la distanza e già il tempo, mi accorgo di non aver chiesto nemmeno il tuo cognome.
Dona Rosa, abuela Rosa, è piccola di statura, nasconde i suoi capelli bianchi sotto un cappello andino, indossa abiti della tradizione. Età indecifrabile: settanta anni? E’ instancabile: prepara le nostre colazioni, poi insegna a cucinare torte alle ragazze del villaggio. Trova tempo per chiunque, dona Rosa.
E’ nata alla Quiaca, ultima città dell’Argentina. Suo nonno veniva dalla Siria. Il suo sangue è un puzzle: c’è il mondo arabo, un pezzetto di Italia, globuli rossi andini….Dona Rosa non sa l’arabo, ma è tornata in Siria. Con sua cugina che non ha dimenticato la lingua dei nonni. La madre di Azizi, la cugina di dona Rosa, non ha mai voluto imparare lo spagnolo. Non voleva abbandonare la sua terra. Ma là aveva rifiutato un matrimonio combinato e non poteva rimanere. Riuscite a immaginare la nave che, sette decenni fa, forse più, ha portato via uomini e donne dalla Mesopotamia per arrivare in mezzo alle Ande più solitarie? Dona Rosa è tornata due volte al suo villaggio. Per scoprire che anche là gli uomini siedono accucciati come spesso fanno i montanari delle Ande. ‘Migliaia di chilometri per capire che gli uomini sono uguali ovunque’, dice dona Rosa.  

La madre di Azizi non amava nemmeno l’uomo che ha sposato qua in Argentina. Ma con lui ha fatto otto figli. Così è la vita. Ma ha voluto che tutti conoscessero l’arabo.
La figlia di Azizi è stata una delle vittime dei militari argentini. Uccisa per le strade di Tucuman. Poi andarono alla sua casa e portarono via anche la nipotina di Azizi. Per mesi e mesi, questa donna vagò per i commissariati, per le chiese, per le caserme in cerca di quella bambina. Il marito di Azizi non resse al dolore. Lei no, lei voleva vivere. I militari sono ottusi: la bambina cambiò tre famiglie, ma nessuna resistette al pianto perenne di quella piccolina. Fu restituita alla nonna. Ha avuto un’infanzia fragile e difficile. Ora, se ho ben capito, vive in Europa. A volte Azizi pensa che sua madre avesse ragione a non voler imparare lo spagnolo. Ma, come dona Rosa, crede anche che questo sia un paese meraviglioso.
Iruya, 23 ottobre

Conversazione con Reinaldo


Reinaldo ha 39 anni, una grande faccia aperta, un bel sorriso. Basso di statura, soprappeso. Al lunedì si alza alle cinque e cammina per altrettante ore: deve raggiungere San Juan, villaggio del distretto di Iruya. E’ direttore della scuola. Ventotto ragazzi. Rimarrà in questo villaggio fino al venerdì. Poi si incamminerà nuovamente (c’è un saliscendi che vola oltre i quattromila metri) per passare il finesettimana a Iruya. Reinaldo è il presidente della Finca Potrero, la comunidad di questo angolo di Ande. Hanno un titolo comunitario per 40mila ettari. Un grande territorio di montagne impervie e frananti.
Parlo con Reinaldo nella felice confusione del comedor di dona Ramonita. Tre ragazzi si stanno ubriacando. Al nostro tavolo siede Jesus, con gli occhi di vino e coca, muratore, tornato al paese dopo anni di città.
Ecco cosa racconta Reinaldo.
‘Nessuno può vendere queste terre – racconta Reinaldo – Si possono cedere solo ad altri soci della comunità. Mai a uno straniero. Non è obbligatorio far parte della comunità: chiunque abbia compiuto diciotto anni e sia nato qui può decidere se farne parte. Non ci definiamo aborigeni. Siamo semplicemente nati in queste montagne. Questa è la nostra terra. Per oltre sessanta anni, i terratenientes ci hanno sfruttato. Dagli anni venti fino agli anni ’80, siamo stati costretti a un lavoro forzato nelle piantagioni di canna da zucchero. Venivano con i camion a prendere i nostri nonni e i nostri padri. Oggi ci stiamo riprendendo i nostri diritti. Nelle terre comunitarie lo Stato garantisce istruzione primaria e posti di salute, ogni altra questione è demandata alla comunidad. Abbiamo perduto molte usanze: non c’è più, ad esempio, la milga, il lavoro solidale, ma ci sentiamo parte dello stesso mondo. Ora sta arrivando il turismo. E’ una nuova economia. I villaggi non sono preparati. I cambiamenti sono troppo bruschi. A San Isidro, l’elettricità è arrivato solo cinque mesi fa. Un ponte collega i due quartieri di Iruya solo da pochi mesi. In ogni villaggio sono stati installati pannelli solari. Ci sono le parabole per la televisione. E arrivano i turisti. La nostra gente non era abituata a un’economia monetaria. Si produceva quello che ci bastava. Avevamo e abbiamo ancora vacche e capre, orti e campi di mais. La nostra terra è generosa. Le nostre famiglie hanno una casa. Non siamo poveri. Ma la mancanza di lavoro, di un reddito è il guaio più serio. I ragazzi vogliono andarsene, hanno desideri diversi dai loro padri. Se ne vanno in molti, in molti tornano. Il turismo sta muovendo qualcosa.  Viviamo una vita tranquilla, ma dovremo affrontare i cambiamenti. I sussidi e l’assistenzialismo stanno minando i nostri giovani. Si accontentano dei pochi pesos che passa il governo. Con questi soldi si ubriacano. Questo è uno dei nostri problemi più gravi dei nostri villaggi. L’equilibrio della nostra comunità deve basarsi sui suoi diritti e sul senso di una proprietà comune del nostro territorio’.

Il turismo ha innescato una nuova economia anche nella piccola Iruya. Le donne hanno aperto comedor, le famiglie hanno creato hostal. Equilibri fragili. Nessun straniero può comprare a Iruya. Può solo affittare. Non mancano le divisioni. Una piccola associazione di commercianti (genti originaria anche loro) voleva imporre guide obbligatorie ai turisti, ha cercato di conquistare una posizione di privilegio sul movimento di turisti. Confronto aspro fra la gente del posto. Ha vinto la comunidad: il turista deve rispettare alcune regole elementari (di sicurezza in montagna), ma ha libertà di scelta e di movimento.
Iruya, 23 ottobre


   

Conversazione con Pablo

Pablo suona Vivaldi a Iruya


Pablo vive a Iruya da quattro anni. E’ un porteno. Viene da Buenos Aires. Qua, montagne andine, occidente della Quebrada di Humaucha, ha trovato un equilibrio. Accoglie i turisti in una bella casa. Al mattino la sua terra si apre sulle montagne. Pablo, a sera, commuove quando suona il violino per i suoi ospiti. Musiche delle montagna mischiate a Vivaldi (conosciuto in queste terre grazie all’ostinazione di Gaetano Zipoli, celebre missionario di queste valli) e un tango.

‘Sì, i giovani vogliono lasciare queste montagne. La televisione è arrivata fino a qui e mostra un mondo diverso, lucente, inimmaginabile in queste solitudini. Qua la vita è dura. In estate arrivano le piogge, i paesi, a volte, sono irraggiungibili. Si scatenano tempeste elettriche terribili. Ogni giorno bisogna pascolare le capre. I vecchi hanno artriti, reumatismi. Per passare le notti, si beve. Vino e birra. Vino di pessima qualità. Vinup, vino mischiato a Seven Up.
Però, allo stesso momento, qui la vita è tranquilla. Ha un suo ritmo. Lento e bello. Chi è andato in città, a fare il muratore, scopre quanto può essere miserabile la vita di ogni giorno. Qui hai quanto basta per vivere: la casa, il campo, la tua terra. Là ti confronti con il denaro che non basta mai.
Qua tutto si mischia. Tutto sembra tenersi. Un villaggio ha un nome cristiano, San Juan, e quello più vicino si chiama Chiyayoc. I missionari hanno portato i loro santi e la gente delle montagne li ha ‘cambiati’. Sono passati cinquecento anni dalla Conquista e i popoli andini, nonostante un genocidio fisico e culturale violentissimo, non sono scomparsi. Sono tenaci, silenziosi, testardi. Sanno come sopravvivere’.

Dona Patrona non conosce la sua età. Non ha documenti. Vende erbe per medicina e tisane ai turisti che scendono dalle corriere che sfiorano i precipizi di Iruya. Scoprirò poi, stolto europeo, che lei compra quelle erbe che io credevo coltivasse. Dona Patrona è scesa dalle montagne solo qualche mese fa. Non potrà più tornare alla sua solitudine. Troppo vecchia, troppo malata. ‘Vivevo bene lassù. Avevo il mais, la legna, le verdure, la carne, l’acqua. A qui se paga todo e devo vendere per sopravvivere’. Lassù è a ore di cammino da Iruya. La moglie di suo figlio non è mai voluta salire a conoscere la casa solitaria di dona Patrona.
Iruya, 23 ottobre

giovedì 28 ottobre 2010

Arrivo a Iruya

La strada per Yruya
Il passo del Condor



Apro un libro nella casa di Pablo e leggo l’ultima riga di un breve capitolo intitolato ‘Identidad’. Sta scritto: La vida es una oportunidad que uno tiene para hacer algo bueno. Deve essere la stanchezza di un lungo viaggio, i paesaggi impressionanti, il vuoto dei quattromila metri, queste montagna e le poche persone (uomini soli con il cappello nero, donne dai maglioni rossi con i bambini imbatuffolati sulla schiena) che vanno a piedi e hanno la pelle grattugiata dal sole. Devono essere le montagne che sembrano sgretolarsi dalla terrazza-balcone della casa di Pablo, deve essere la sua gentilezza di accogliere i suoi ospiti con il sottofondo di una musica strappa-emozioni. Devono essere tutte queste cose assieme, se, all’improvviso, riscopro qualcosa che non so come chiamare se non ‘emozione’.
La sera a Iruya


Seguire il fiume per Iruya
Iruya è lontana. Cinquantaquattro chilometri di strada di terra, priva di parapetti, che vortica su sé stessa. Vorrei fermarmi ogni secondo perché ogni secondo cambia la luce. Saliamo a quattromila metri, passo del Condor, altari di vino e sigarette per la Pachamama, precipitiamo di mille metri. Letto di un fiume. Madonne disseminate lungo la strada. Le ruote affondano nei guadi. Poi, in alto, una luce color dell’ambra illumina una chiesa. Arriviamo a Iruya che i lampioni delle strade sono stati appena accesi. Il prete chiama alla messa, i pentecostali cantano in una piccola sala dalla porta aperta, alcune donne sembrano riunite in un’assemblea. Hanno volti di pergamena antica. I ciottoli dei vicoli sono sconnessi. Hanno finalmente costruito un ponte per permettere agli abitanti di passare da un quartiere all’altro del villaggio. Mille e cinquecento abitanti. Tanti, moltissimi, per queste solitudini. Il turismo è arrivato fino a qui. Noi ne siamo la prova. Le donne hanno trasformato le cucine in comedor, preparano zuppe di patate e milanesa. Il menù è un foglio di quaderno, alla parete un certificato di ‘protagonista di turismo responsabile’. Sì, credo che dona Tina sia davvero ‘responsabile’. Il marito, immagino sia il marito, è timidissimo nel servire a tavola.
Le montagne sono ovunque. Il villaggio è cresciuto in questi anni. Sono i villaggi più lontani a spopolarsi. Non ci va più nemmeno il prete. ‘Qui c’è tecnologia’,mi dice Pablo. Eppure vedo donne e ragazzi prendere i sentieri delle montagne. La loro casa è nel nulla. Nel paesaggio più bello e pèiù impietoso che si possa immaginare. Più del Sahara. Un poliziotto mi spiega che qui il crimine più frequente è la violenza familiare. Guardare sempre da un altro punto di vista, guardare oltre la bellezza, cercare il quotidiano. Fa freddo a sera a Iruya. Le ragazzine camminano a braccetto zoppicando sui ciottoli delle strade, i ragazzi si rincattuciano al riparo di un portone. Nei comedor si devono grandi bottiglie di birra Norte. Tutto qui.
Iruya, 22 ottobre

Cerimonie del mattino a Purmamarca

Don Jerez



‘La nuova divinità è il peso. E’ come se fosse tatuato sulla nostra fronte. In dieci anni, è cambiato il mondo nel nostro villaggio. Prima avevamo tempo, eravamo agricoltori, non eravamo poveri, ci salutavamo e ci conoscevamo tutti. Ora è arrivato il turismo e nessuno ha più tempo. Pensiamo solo ai pesos’. Bisogna sapere che don Jerez, 45 anni, una viso colla, la gente di queste montagne, eredi di incroci fra inca e popoli della Quebrada, possiede uno dei negozi più belli di Purmamarca. In un angolo strategico. Là dove fermano i pulmini dei turisti. Che, dalle dieci del mattino, invadono a plotoni affiancati le poche strade del villaggio della Montagna dei Sette Colori. Anni fa, l’Unesco dichiarò questa valle Patrimonio dell’Umanità, un paesaggio culturale, e il vento cambiò in questa quebrada. La svalutazione del peso nei primi anni del nuovo millennio ha fatto il resto. Sono arrivati, a plotoni affiancati, i turisti.
‘I soldi non danno la felicità, ma calmano i nervi’, dice don Jerez. A sera, trova il tempo per parlare. Al mattino è inavvicinabile. ‘Quando ho bisogno di pace, vado a Jujuy. In città’, spiega ancora. Ecco, il mondo ribaltato:i turisti arrivano a Purmamarca in cerca di tranquillità, gli abitanti di questo villaggio andino vanno in città per non aver pensieri.
‘Il turismo e la ricchezza sono arrivati improvvisi. E ancora non si sa bene cosa fare con il denaro. Gli uomini si comprano macchine sempre più grandi’, mi dice una giovane sociologa che è venuta a vivere qui.

Montare e smontare carretti di tappeti, bamboline, maglioni pesanti, sciarpe, guanti è la cerimonia del mattino e della sera. Le donne (sono loro le commerciati della piazza) arrivano con lentezza un paio d’ore prima del primo turista.. Spingono carretti di ferro, si aiutano a montare la bancarella. Una musica andina vola per l’aria. Nuovo rito del paese. ‘Me compra una pulsera?’: sono il solo straniero a quest’ora del mattino. Non si può perdere un solo cliente. La merce arriva dal Perù, sono già apparsi le prime statuette made in China. ‘Nessuno ci comprerebbe i mantelli che tessiamo a mano – mi dice una donna mentre a capo chino ripiega l’ennesimo maglione con la lampo - Ci vogliono giorni per tesserli. Costano troppo cari per i turisti. A loro preme solo comprare. Non importa cosa’.

Eppure c’è un’aria strana a Purmamarca. C’è il tempo dei turisti (dalle dieci del mattino fino al tramonto) e il tempo della pace. Il rituale dei carretti ha sostituito i saluti fra i contadini. Ma, ai miei occhi, il legame di una società silenziosa appare ancora resistente. Cosa faranno i figli di queste donne? Oramai tutto il centro del villaggio è occupato da negozi, bancarelle e hostal…..

Al mattino, prima ancora dei carretti delle donne, si muove un piccolo popolo. Le ragazze che lavorano negli alberghi e negli hostal arrivano dai paesi vicini, non benedetti dal turismo. I ragazzi vanno a fare i muratori per gli imprenditori di Salta o di Buenos Aires che costruiscono nuovi hotel di lusso. I bambini (tre, quattro per motoretta) vanno verso la scuola. Tutti con il sacchettino della comida in mano.
Purmamaraca, 21 ottobre





lunedì 25 ottobre 2010



                                           



Il cimitero di Iruya
Sono in alto, i cimiteri dei villaggi andini. ‘Vicini al cielo’, dice Dona Rosa. Al sicuro da ogni inquinamento, è la ragione della ‘modernità’.
Il cimitero guarda verso l’alba. Verso oriente. A Iruya le tombe, coperte di fiori di carta e di plastica, sono rivolte verso la quebrada del torrente Milmahuasi, la playa chica, 'il luogo della lana'. ‘Le anime ne saranno purificate’, spiega ancora Dona Rosa.


Pensiero di un europeo: i cimiteri appaiono come una discarica. Bottiglie di plastica sventrate ovunque, fiori di carta marciti, mozziconi di candela liquefatti. ‘Nessuno deve toccare niente in un cimitero. Per nessuna ragione’, avverte l’abuela che ci accompagna. 


Tocca alla pioggia, al vento, al clima delle Ande cancellare le tracce dei doni degli uomini ai propri morti. Si lascia acqua benedetta per il viaggio dei propri cari (e le bottiglie di plastica non si degradano). Solo quando sarà evaporata, il lungo viaggio sarà finito. Si versa acqua sulla terra dopo la sepoltura, negli anniversari, nei giorni della memoria. Si mettono pietre sulla tomba: sono gli ostacoli che l’anima di chi ha intrapreso l’ultimo viaggio dovrà superare. ‘Più pietre vi sono, più possibilità ci sono che lo spirito del defunto arrivi nell’alto dei cieli’.
Iruya, 23 ottobre
                                             

Identità


Dopo i mesi dei Balcani e della Palestina….con la testa alla paura della questione ‘identità’ nella mia Italia, mi ritrovo, in Argentina, a farci i conti a ogni passo.
Gli argentini sembrano chiederselo ogni momento. Abuelos italiani, spagnoli, tedeschi, gallesi, arabi (che qui chiamano ‘turchi’)…..chi siamo? Di chi siamo figli? Quale è la nostra storia? Si pongono davvero questa domanda oppure è un gioco di intellettuali? Qui, a Iruya, una delle famiglie più potenti celebra le sue origini slave (dalla Yugoslavia fino a queste montagne!) chiamando l’Hosteria di famiglia ‘Federico III’. Mi dicono che hanno poco a che spartire con il paese. Ma non so cosa voglia dire.
A Humaucha incontro Mansur. Cognome arabo. Suo padre era siriano. Lui ha 56 anni. E non sa una sola parola di arabo. Ignora tutto della sua storia. Ma il suo viso potrebbe essere quello di un commerciante della casbah di Damasco. In una generazione si è perso ogni memoria.
E poi ci sono gli aborigines. Figli di un mosaico di antenati. Sanguemisti. In una nazione dove gli indigeni sono davvero pochi. Nascono gruppi contrapposti per rivendicare le terre. Si cerca di ricreare una ‘identità’ che è stata cancellata con una perfidia meticolosa. La sensazione (superficiale) è che davvero comunità indigene stiano cercando di affrontare un mondo nuovo. Con la coscienza confusa di un passato troppo lontano.
E sulla lavagna della scuola di San Isidro, la identitad affronta il delitto dei figli dei desaparicidos a cui è stato negato di conoscere perfino le loro origini. La ‘guerra sporca’ degli anni ’70 è uno spartiacque impossibile da ignorare.
E ancora: le mummie incas di Salta a chi appartengono? Sono un patrimonio di un sapere umano (e quindi devono essere conosciute, studiate, mostrate) oppure devono essere restituite alle comunità indigene? A quali? Anche gli incas erano invasori in questa terra.
Non so se mi aiuta, il musicista Ricardo Vilca: ‘La vida es como un pasaje que tenemos para estar en la tierra, con la tierra, y el cuerpo es un tesoro que nos permite partecipar….eso que sentimos se llama identidad y es mas que nada lo que hablaron los abuelos, lo que vivimos en nuestra casa’.
Cos’è identidad, per me. Confuso in un paese delle Ande.
La tentazione è quasi ovvia: vorrei provare a fermarmi un po’ qui. Davanti a queste montagne. Provare a camminare come fa questa gente che ha tracciato sentieri di milioni e milioni di passi.
Non accadrà. Però Pablo ci è riuscito. E, a sera, suona il violino per i suoi ospiti.
Iruya, 23 ottobre

giovedì 21 ottobre 2010

I minatori di Salinas Grandes

Salinas Grandes


Francisco ha 39 anni, tre figli, un fisico massiccio e ombra di foglie di coca sulle labbra. Siamo saliti oltre i quattromila metri dell'Abra de Lìpan per raggiungere un immenso salar di alta quota. Qui, da sempre, si cava il sale, questa distesa accecante è il fondale di un antico mare: ha lasciato in eredità una coltre salina sfruttata per centinaia e centinaia di anni da piccole popolazioni indigene. Francisco sa di essere un indio colla, ma si definisce semplicemente un abitante originario. E' uno dei dirigenti di una cooperativa che raccoglie 43 famiglie di salineros, gli abitanti di due desolati villaggi, Pozo Colorado e Sanctuario. 'A nessuno di noi piace lavorare il sale, ma dobbiamo farlo. Per patriottismo. Questa è la nostra terra, il nostro sale. Ce lo hanno tolto. Lo stato ci ha tolto terre che appartenevano ai nostri padri. Ci hanno restituito una concessione e noi vediamo sfumare il nostro guadagno in tasse e imposte'. Mestiere devastante, il salinero. Le facce degli cavatori sono coperte da passamontagna, il sole brucia la pelle a queste altezze. Si tagliano vasche nella crosta salina, si lascia a decantare una salamoia di acqua e sale per quasi un anno. Il tempo che si cristallizzi e sia pronto per essere polverizzato. Si lavora otto ore al giorno, sotto un sole impietoso. Gambe a mollo nell'acqua salata.
La cooperativa di Francisco vende attraverso intermediari. Il sale serve alle industrie (zuccherifici, fabbricanti di carta). Vale pochissimo: 50 pesos (dieci euro) la tonnellata. In un mese di lavoro, i salineros della cooperativa estraggono mille tonnellate di sale. Attorno a loro si stringe il cerchio di altri estrattori. Le Salinas Grandes sono disseminate di cavatori. 'E stanno arrivando le multinazionale. Loro hanno fame di litio', dice Francisco. Già sono cominciate le prime ricerche.
Benito
Una dozzina di cavatori si sono trasformati in artigiani. Cavano il sale alla mattina e nel pomeriggio intagliano statuette di sale. Bei lavori. I turisti salgono a Salinas Grandes da Purmamarca. 50 pesos (quanto una tonnellata di sale) l'escursione in pulmino. Vengono fino a qua, si fermano un'ora, comprano gli oggetti dei cavatori, scattano foto. 'Non riusciremmo a vivere senza i turisti', ammette Francisco. Il patto per l'intervista è stato chiaro: 'Io ti racconto, ma tu compri qualcosa'. Va bene così.
I minatori-artigiani
Nei due villaggi (una sola strada, case basse e schiacciate dal vento, alberi tramortiti, una cappella, solo i cani in giro) vivono quattrocentocinquanta persone. 'Non sappiamo niente della nostra storia - spiega Francisco - La nostra lingua originaria è scomparsa, non sappiamo chi eravamo, sappiamo che i nostri padri hanno vissuto qui'.
Francisco
Il fratello di Francisco mi sorprende: mi chiede il mio indirizzo mail. Francisco mi dà il numero del suo celluilare e se ne va sopra una sgangherata motocicletta. Altri turisti stanno arrivando. Un minatore solitario, Benito, 28 anni (non vedrò il suo volto, nascosto da un cappuccio nero) lavora solitario a colpi di piccone e vanga in una vasca in cui il sale è già pronto, un bull-dozer carica il sale su un gigantesco camion. Donne indie aspettano da ore il passaggio di un bus. Ci chiedono acqua.



 Ridiscendiamo a Purmamarca. Un tango per scacciare malinconie. Attorno il paesaggio è di una bellezza estrema. I colori impazziscono al tramonto. Questa è la strada che, con un passo che sfiora in cinquemila metri, porta in Cile. La percorrono colossali bisarche piene di automobili. Tutto ci appare oltre ogni limite.
Salinas Grandes, 20 ottobre

mercoledì 20 ottobre 2010

I sette colori di Purmamarca





Alla fine, Purmamarca, 'il popolo della terra vergine'. Il paese delle montagne dei Sette Colori. Un arcobaleno andino.
Il nostro handbook ha dieci anni di vita. Troppi. I duecento abitanti di questo villaggio andino della Quebrada de Humahuaca oggi sono millecinquecento. Allora c'erano solo due hostal spartani. Oggi ogni famiglia ha il suo Bed & Breakfast. L'hotel Boutique Etnico si confonde con le pendici dei primi cerros. Purmamarca è diventato una inevitabile meta turistica: ha avuto la fortuna di essere stato fondato accanto a questo cerro meraviglia. Lo hanno capito bene gli indios Colla. La piazza di Purmamarca è un formidabile caravanserraglio di coperte, tappeti, lana di lana, ceramiche, charangos. I turisti si affollano per le strade del paese. Arrivano con i pulmini da Salta. Gente straniera (porteni di Buenos Aires, cordovesi, ma anche europei e nordamericani) stanno comprando terre e case in questo villaggio. Hanno aperto negozi raffinati di gioielli, pelli, vestiti e ceramiche. Ci sono perfino gallerie commerciali, ben costruite nell'elementare architettura del villaggio. La sensazione è che abbiano esagerato a Purmamarca. Gli 'alternativi' hanno messo su i loro business eleganti e piacevoli. Al mattino e alla sera, gli indios trasportano i loro carretti pieni di merci. Sta per cominciare l'estate australe. C'è attesa per la stagione. I ragazzini cercano un lavoro per l'estate. Turismo che porta benessere, turismo che trasforma in maniera inesorabile.

I due mondi si sfiorano, ma, come acqua e olio, non si mischiano. Ognuno mantiene i suoi rituali.Gli indios accettano il gioco delle maschere. Cantano chacareras al ristorante di Claudia Vilte. Poi si riprendono momenti tutti loro. Lo stesso fa l'etnia dei turisti. Hanno costruito una strada carrabile per poter ammirare le montagne i Sette Colori dei cerros. Quasi nessuno scende di macchina. Pochi vanno a piedi al mattino presto.

E a notte, chiusi i negozi, luci fioche per le strade di terra, ombre solitarie che camminano, che Purmamarca ritrova una pace improvvisa. Pochi bambini giocano nella piazza, si sentono le conversazioni degli uomini e le parole dei ragazzi. La chiesa viene illuminata, una musica esce da un ristorante. Alcune ore di antica tranquillità.

Purmamarca, 19 ottobre

Le mummie di Lluaillaco

‘Non vogliamo esporre i corpi delle mummie, i corpi degli indigeni. Per rispetto. Perché le loro comunità non vogliono. Per troppo tempo i nostri musei sono stati i musei della Conquista, hanno avuto solo un'attenzione morbosa e arrogante per coloro che qui vivevano’. Le parole di un antropologo di Salta sono taglienti, amareggiate. Gli antropologi si dividono sulla 'questione indigena'. A Salta, capitale del Nord argentino, terra indigena di questo paese, le ferite non appaiono rimarginate.

Poco più di dieci anni fa, nel marzo del 1999, alle quote più alte del vulcano di Lluaillaco, 'il vulcano dell'acqua apparente', una spedizione organizzata da National Geographic trovò i corpi mummificati di tre bambini inca. Era un cimitero di alta montagna, un luogo di sacrificio, luogo di congiunzione fra terra e cielo. Gli inca, conquistatori di queste terre, sceglievano questi luoghi per essere più vicini alle divinità. La spedizione sapeva cosa cercare: da anni, archeologi, antropologi e alpinisti esploravano quelle altitudini. Los Ninos de Lluaillaco divennero subito delle star dell'archeologia.

Le mummie furono portate a valle. Divamparono subito polemiche. Sulla spedizione, sulla custodia di questi corpi. Fu deciso di dedicare alla tre mummie un museo. E' nella piazza principale di Salta. Un bel museo, dal nome superbo (il Maam, Museo dell'Archeologia di Alta Montana), moderno, ben organizzato, perfettamente mediatico, ben studiato da chi sa comunicare. 'Ma chi ha diritto sui corpi di quei tre bambini?', si chiede l'antropologo. Le comunità indigene, racconta, sono divise: alcune chiedono che le mummie siano seppellite nuovamente nel loro cimitero, altre chiedono che vengano ricondotte sulle montagne e che lassù si debba andare se si vuole osservarle. Chiedono che le Conmunidad siano i custodi di quei corpi. Tutto appare intricato, complesso, anche ambiguo. Si intreccia politica, etica, business.

In Argentina molti musei hanno deciso di non esporre le mummie degli indigeni. A Salta, i corpi dei tre Ninos de Lluaillaco sono un forte richiamo turistico. Il museo ha avuto forti finanziamenti, sono stati ben sfruttati. Ed è anche possibile visitarlo senza vedere la vetrina dove viene esposto il corpo: 'Rispettiamo qualsiasi opinione sulla presentazione del corpo', spiegano al museo. Si può davvero ignorare il corpo esposto e uscire senza averlo visto. In una sala al primo piano è conservata una quarta mummia, meno celebre (perché violata ottanta anni fa e ritrovato dopo decenni) dei Ninos. Ma è pur sempre la Reina del Cerro. Per osservarla bisogna intenzionalmente premere un interruttore e accendere una luce.

Le mummie dei tre Ninos accendono inquietudini. Identità, rispetto delle culture devastate dalla Conquista spagnola, i diritti dei popoli indigeni sono questioni che toccano nervi scoperti delle società latinoamericane.
Salta, 19 ottobre


martedì 19 ottobre 2010

La Virgen de Cochabamba



Un garage illuminato a giorno. In fondo splendono raggi solari di carta. E un altare barocco e ingenuo. Sorprendente. Pietre di cartapesta, fiori di plastica, pastori come un presepe, bandiere argentine e boliviane. Un gruppetto di uomini e donne seduti in un lato. Grosse auto parcheggiate.

Una donna dal sorriso contagioso ci viene incontro. 'E' il nostro culto. Alla Virgin de Cochabamba. Una Virgen muy milagrosa. Noi siamo i suoi schiavi'. Roque è il marito di Graciela. E' il garagista. Questo salone è stato anche un vecchio tempio evangelico. Roque lo ha trasformato in garage.

Roque racconta: 'Per nove giorni festeggiamo la Virgen. Anche se la sua vera festa è in agosto. In questa novena, ogni sera, preghiamo, mangiamo, la veneriamo. Venerdì faremo la processione e poi una grande festa. Ogni tre giorni le cambiamo di abito. E' bellissima, la Virgen'. Roque è un uomo alto, forte. Si appassiona come un bambino. In affari deve essere uno tosto. Ogni anno, gli 'schiavi' della Virgen, al 15 di agosto, portano la sua statua fino a Cochabamba. Per la vera festa. Lasciano pietre in segno di fatica e di offerta. Uno sciamano li avvicina e chiede qual'è la grazia che chiedono. 'Un figlio', hanno detto Graciela e Roque. Lo sciamano ha cantato ('nella sua lingua', dice Roque), pregato, bevuto birra, mangiato, invocato la Virgen, danzato. Graciela ha avuto il bambino.
Nel garage di Roque, in una via di Salta, si venera una Virgin muy mliagrosa. Sabato prossimo ci sarà la festa grande. Centotrentuno 'padrini' la stanno organizzando in ogni dettaglio.
Salta, 19 ottobre

Gitani sedentari

Osservo Helmut da almeno un'ora. Sta seduto sotto il sole al bordo della strada che attraversa le terre aride e bellissime della Quebrada di Cafayate. Da un'ora non passa una sola macchina. E lui sta lì. Zaino ai piedi. Aspetta un passaggio. Dall'altra parte della strada, due indio hanno una desolata bancarella di piccoli oggetti. Luogo solitario, l'Obelisco della Quebrada.

Helmut aspetta

Nomade di mezza età, Helmut. Pelle quemada, capelli e barba bianca. In viaggio da tre anni. Prima in motocicletta, ora a piedi. Vaga da settimane in questa Quebrada infuocata. 'E' la mia vita. In Germania soffro di claustrofobia. Io devo sapere che in quella direzione c'è uno spazio vuoto. Cento e più chilometri senza nessuno. Ho viaggiato in Australia e in Canada. Ci  tornerò, ma l'Argentina è una perfetta se vuoi trovare spazio'. Lo lascio con una forte stretta di mano. Ad aspettare una macchina che forse non passerà, ma il suo viaggio continuerà lo stesso.

I velò dei francesi
Pochi chilometri più avanti, un piccolo gruppo di francesi mangia formaggio e beve Coca-Cola sotto lo sguardo indifferente di un pastore indio e di due lama. Sono in bicicletta. Due coppie. Più due bambini. Sul tandem, una scritta: 'Vuelta de el mundo'. Vanno in Patagonia, sono in viaggio da un anno. Le due coppie sono un modello di 'biodiversità': una indossa magliette tecniche e pantaloncini da ciclista, l'altra sembra a giro per una strada di campagna in Camargue: ciabattine ai piedi e pantaloni larghi alla araba. Hanno tutti un'aria felice. Rimandano serenità.

I gitani sedentari non hanno smesso di viaggiare. Come trent'anni fa. Sono uguali ad allora. Un frammento di società in perenne movimento. Daniel, un mago, viaggia su un furgone di paese in paese. Vive di viaggio e spettacoli di strada. Con Ana, ex-biochimica, e due bambini. 'Viaggio per imparare sempre di più'.
Io ho già incontrato i francesi ed Helmut. A Managua nel 1980. Helmut era a San Josè di Costarica in quello stesso anno. Il mago era in una piazza di San Cristobal, in Chiapas. Uomini e donne in viaggio. Da sempre. Come il Che. Senza rivoluzione. Il Latinoamerica offre una meraviglia: la stessa lingua dalla Patagonia al Messico, una stessa storia culturale, la facilità di viaggiare (sconosciuta in Africa). Si può vivere con poco, soprattutto se sei europeo. C'è la saggia indifferenza di chi ti vede passare e pensa che è normale. Anche se il pastore indio non si è mai mosso dalla sua valle. Nomadi contemporanei e sedentari. A dimostrare che niente è impossibile.
Salta, 19 ottobre

lunedì 18 ottobre 2010

La resistenza infinita di Quilmes

Dona Celia a Tafi


Nebbia e nuvole sulla conca sacra di Tafi. Tavolato a duemila metri di quota. La nebbia gioca con le montagne più alte. Le fa apparire e poi le nasconde nuovamente. Fa freddo, a Tafi. Dona Celia, maestra in pensione e scultrice in gioventù, ci ospita nel suo hostal.




Oscar a Quilmes
Naturalmente abuelo italiano, emigrazione del 1890. Dalla Sicilia. Lo scorso anno, a 69 anni, dona Celia è ‘tornata’ in Italia: a Catania. Ha viaggiato per tutta l’isola. Non solo: crociera nel Mediterraneo. Tornerà ancora in Italia. Ha altri parenti in Valle d’Aosta. Italiani e tedeschi andarono a lavorare a Tafi Viejo, oggi sobborgo di Tucuman. Operai nelle fabbriche dei treni. Furono chiuse dai militari della dittatura perché, dice dona Celia, ‘gli operai erano comunisti’. Il governo radicale di Alfonsin le riaprì, ma la loro vita era segnata.

Non si alzano le nuvole sulla valle di Tafi. Nella piccola piazza della città, micromanifestazione peronista. Oggi è il Dia de la Lealtad. Anniversario della ribellione degli argentini all’arresto di Peron. Storia di un altro secolo. Ma il peronismo ha mille anime, mille volti, mille contraddizioni. E oggi è, per caso, anche il Giorno della Madre. I bambini preparano dolcetti per le madri. A Tafi si è deciso di venerare anche Evita.
Alejandro ad Aimacha
Le rovine di Quilmes

Giornata in terra indigena. Il sole riconquista la sua primavera ad Amaicha del Valle. Novemila abitanti, 108 ettari di terre comunitarie. La tradizione indigena nega i titoli di proprietà. Sono terre comuni. Possono essere vendute o affittate solo ad altri membri della comunità e dopo una decisione del Consiglio degli Anziani. Poteri tradizionali (i cacicchi) e poteri dello stato provano a convivere. Delle questioni sociali, ad Aimacha del Valle, si occupa il cacicco. Alejandro, commerciante della piazza, ha quattro orecchini in un orecchio e una bella faccia: ‘Qui viviamo in pace. Il solo guaio è l’alcol, la gente beve troppo’. Nella sua bottega si vede tutto: pan casero accanto ai prservativi, abbonamenti alla televisione vicino ad aspirina alla caffeina. A ogni angolo di Aimacha, vi sono le pietre che ricordano la Pachamama, la Madre Terra. Giovani ‘alternativi’ di Buenos Aires vengono a vivere qui. Gli abitanti li guardano con diffidenza. Ma, alla fine, sembra che ci sia una fragile convivenza da separati in casa. Davanti alla bodega un uomo accende un sound-system di borrachos in una domenica che ora sa di quasi estate.

Quilmes, rovine della più importante città indigena di questa regione, è poco distante. Qui, raccontano, la resistenza indigena contro gli spagnoli fu tenace. Le rovine sono confuse, di difficile lettura, si disperdono fra centinaia di cactus. Quilmes è bella. Gli indios Diaguita furono cancellati dalla faccia della Terra. Alla metà del 1600 vennero tutti deportati a Buenos Aires e scomparvero nel nulla. 
La ferocia silenziosa del colonialismo spagnolo è in queste rovine: si è persa una lingua, nessuno conosce la vera storia di questa città, tutto si è come polverizzato….
E quando si è scoperto che l’archeologia indigena era un buon affare, il governo argentino cedette la concessione sull’area di Quilmes a un investitore privato. Vi costruì un grande albergo con piscina. ‘Ci sentimmo ancora una volta espropriati delle nostre terre’, spiega Herman, giovane guida india. Per oltre dieci anni, le comunità indigene reclamarono l’antica città. Nel 2007, la occuparono. A gennaio del 2008, riuscirono a ottenerne il possesso. Camminare fra le rovine di Quilmes è sfiorare la lotta che ancora divide, con mille contraddizioni, le comunità indigene dal ‘mondo degli altri’. E'difficile capire, è difficile riuscire a sapere senza avere il cuore invaso da sensazione che battagliano fra loro.   
Cafayate, 18 ottobre




I bei matti di Cura Brochero




Oggi Cura Brochero è un luogo di vacanze popolari. E’ una geografia di cabanas, di piccole case di villeggiatura. I prezzi non sono bassi. Si affittano microappartamenti a 50/60 euro a notte. Molto per gli stipendi delle famiglie di Cordoba o di Mendoza, ma nell’estate australe qua non c’è un solo letto libero.
Alberto
Ines
Cura Brochero è diventato un rifugio di matti. Matti simpatici, gente in fuga dalla città. Che trova pace fra questo paesaggio di massi granitici. Gente che, oramai, ha i suoi anni. Andrés ha provato anche lui a fare il cura, ma non ha avuto la stessa fortuna di Brochero. Due anni di Gregoriana a Roma, una missione in Marocco sono stati sufficienti per perdere ogni vocazione. Oggi sorride felice. Sta imparando a fare il ceramista (a Cura Borchero, oltre le cabanas, ci sono gli artigiani della ceramica nera). Ines è una tessitrice celebre. Ha fatto fiere anche in Italia. Produce sete leggere e tinge con buccia di cipolla e rosmarino i suoi tessuti. Donna nomade: come tutti gli argentini progetta viaggi per il Latinoamericana. Inquietudine del Che. E’ la forza di uno spazio geografico dove si parla la stessa lingua dal Messico alla Terra del Fuoco. Alberto è arrivato qua quindici anni fa inseguendo i fantasmi dei comechingon, il popolo originario del las sierras di Cordoba. Archeologo autodidatta, alla ricerca di una identità perduta, di un’eredità culturale cancellata dalla Conquista spagnole. Nessuno comechingon è sopravvissuto all’arrivo degli spagnoli. Albero si ostina a cercarne le tracce: punte di freccia, statuine, qualche osso…..niente di più. Dovremo riparlare di questo popolo. Alberto, attorno alle due stanze del suo museo, ha piantata centinaia di cactus. Vive di cactus. Ama i cactus. ‘Ho imparato la tranquillità da loro’. Figli delle Americhe, imparo da Alberto.
Deve esserci qualcosa nell’aria di Cura Brochero. Non riusciamo ad andarcene.

Cura Brochero, 15 ottobre

La cattedrale di Tucuman





La croce di Tucuman
Pioggia di un inverno che non vuole finire. Tucuman, questa mattina, sa di umidità. L’hostal Vasca sembra gestito da sole donne. Donne vedove. Capelli scuri, abiti dimessi, basse di statura scompaiono dietro al bancone dell’albergo. La nostra camera perde la porta, i cardini sono rotti.Rimane lì, in un equilibrio instabile. Mezzo secolo fa questo strano palazzo deve aver conosciuto altre glorie. Sono rimaste grandi poltrone. Sulle quali nessuno siede.
La cattedrale è stata costruita là dove venne fondata Tucuman. La cappella più importante della chiesa racconta e beatifica la storia coloniale di questo paese. San Miguel sta tagliando la testa a un demonio. Il  diavolo, nero e sconfitto, assomiglia molto a un indigeno.Altro affresco: tocca agli angeli scacciare i nativi con fulmini e saette. Gli indios scappano, gli spagnoli, protetti dalle loro armature, ringraziano, il cielo. Nella cappella vi è la croce che venne alzata quando la città fu fondata: un conquistatore armato e un gesuita dal volto severo hanno sguardi persi nel cielo. Gli indios sono già sottomessi. Nella cattedrale nessuna revisione sulla storia dei vincitori.
Accanto al pulpito, hanno messo una bandiera argentina. La chiesa è nazionalista? E oggi è giorno delle prime comunioni. I bambini in camicia bianca e rosario al collo sfilano con orgoglio davanti ai genitori con videocamere accese. Nessuno sguardo alla cappella coloniale. La chiesa conserva la memoria della conquista e dell’eccidio degli indigeni.
Venti metri più avanti della cattedrale, sullo stesso lato della piazza, vi è l’ufficio del turismo di Tucuman. E’ la statua di una vecchia india dalla larghe vesto, seduta su una panchina ha richiamare l’attenzione di chi sta passando per la grande piazza centrale di  Tucuman. Gli indios riabilitati e resi simbolo di questa regione dell’Argentina dalla promozione turistica.

Tucuman, 16 ottobre

venerdì 15 ottobre 2010

Café de la Paix e Fernet Branca





Petonal de Cordoba, angolo della piazza centrale. Piccioni che invadono i tavolini. Camerieri affranti e dai gilet mangiati dalle tarme. Sono stanchissimi. La gente si siede e si alza in continuazione. Si mangia male. Panini troppo pesanti, trippe unte. Si ingorga la città in questo angolo. Sciamano i ragazzetti a vendere rose e chiedere elemosine. In pochi minuti al nostro barcollante tavolino, sporco di tutti gli avventori che ci hanno preceduto, si avvicina una ragazzina incinta, una donna giovane senza denti e un bambino in braccio, un venditore di profumi in camicia e cravatta, un uomo ci lascia un santino accanto al piatto, un’altra donna depone un cartoncino con su disegnate rose, si avvicina un venditore di capelli da cow-boy, un uomo grasso offre biglietti della lotteria, un suonatore di chitarra afferra una sedia e canta il suo concerto personale. I piccioni hanno imparato a scansare la folla, aspettano la fine del pasto. E poi spiccano un balzo verso le trippe abbandonate nel loro unto.


Alle quattro del mattino, i giovani si ubriacano di Coca-cola con Fernet. Rituale notturno di Cordoba: deve essere Fernet Branca, con etichetta italiana. E’città alcolica, Cordoba. Meno droga che a Buenos Aires. Il vino è per gli adulti. I ragazzi mescolano meloni e vino bianco, ma sui gradini delle piazze, ora che le temperature sono miti, si allineano le bottiglie scure del Fernet e i plasticoni della Coca-Cola.



El Che in Alta Gracia



Villa Nydia. Casa linda. Intonaco bianco. Strada elegante di Alta Gracia. Antiche ville coloniali. Porticato, giardino, e il piccolo Ernesto seduto su un balconcino. Guarda verso la strada. Un bar cubano a fianco della casa. Chiuso, non è ancora stagione di turisti. Ma alcuni microbus sono fermi di fronte alla villa, casa natale del Che. Un ragazzo giapponese è in visita 'religiosa': legge e fotografa ogni particolare con aria felicemente severa. Sfiora (lo faccio anch'io) il manubrio della Poderosa, ci perdiamo nella pagella di Ernesto Guevara (quattro in educazione fisica, immagino per l'asma), guardo la bellezza di Chichina Ferreyra, la prima fidanzata, figlia della ricca borghesia di Cordoba. L'asma del piccolo Ernesto ha dato fama ad Alta Gracia, cittadina a poca distanza da Cordoba: i  suoi genitori scelsero di vivere qui sperando che il suo clima aiutasse il ragazzino. La casa dei Guevara è diventata un museo. Un bel museo.
Cammino s con la mia lentezza. Incerto e silenzioso. Diffidente, forse. Ma qui sono voluto venire. I turisti, ragazzi argentini, sono incuriositi, sorridenti, si scattano fotografie di fronte alle gigantografie del Che e si ritraggono mentre firmano il libro dei visitatori.
Io trovo un'umanità che ho sempre faticato a trovare nel mito di Guevara. Il ragazzo ha l'aria spavalda, un po' sbruffona, da sciupafemmine. Un guascone. I viaggi sono la sua gioventù, la sua formazione. Ha attraversato il Nord dell'Argentina in bicicletta, rafforzata da un motore. Poi la leggenda della Poderosa dell'amico Granados. I viaggi come vita. Il nomadismo degli argentini. Qui sto conoscendo solo ragazzi che progettano viaggi.
Il museo è attento, perfetto, fin troppo.Scritte in braille, libretti multilingue. Cerco il mito e, per fortuna, non lo trovo. In bagno c'è una foto del Che in fasce seduto sul vaso. Vi è qualche tentazione di beatificazione. La violazione di un cartello 'Prohibido entrar' diventa il simbolo di una giovanile ribellione (hanno ritrovato quel cartello e lo hanno appeso alla parete). Chi ha allestito queste sale nella vecchia sala ha avuto davvero 'amicizia' con Ernestito. Chavez, venuto qui nel 2006, assieme a Fidel Castro, ha compiuto gesti maldestri: lascia scritto 'Patria o muerte'. Non è stato capace di scegliere il silenzio. Peccato. Ma il sorriso del Che (le rughe attorno agli occhi) mi appare più forte di ogni intrusione.
Cura Brochero, 13 ottobre 



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