sabato 31 dicembre 2011

'Mille fabbriche, nessuna libreria'

Giorgio Bocca (da mentelocale.it)



In ritardo. Ma, spero, i ricordi non siano mai in ritardo. La mia nostalgia è per i miei primi anni di questo mestiere. Quando leggevo, rileggevo e sottolineavo un meraviglioso libretto: 'Miracolo all'italiana'. Era la raccolta degli articoli scritti da Giorgio Bocca venti anni prima. Scopro adesso che, la prima volta, quelle pagine erano uscite per le edizioni Avanti. Io avevo la terza edizione, pubblicata da Feltrinelli, nel 1980. 


Ricordo che mi sorpresi (con intenzione) a copiare le sue parole. A trasformarle. A ruotarci attorno. Perchè le sue parole raccontavano l'Italia e le trovavo perfette. Dovevo raccontare Prato, la mia prima 'inchiesta' importante, e io copiavo quanto Giorgio Bocca aveva scritto venti anni prima.


Quel piccolo libro cominciava con il racconto di Bocca attorno a Vigevano. Terra a me sconosciuta. Bocca, fin dalla prima parola, ti faceva capire, ti avvolgeva, ti diceva: 'Vai avanti, e ne saprai delle belle'. 

Bocca era davvero, ha ragione Umberto Eco, 'un montanaro che non le mandava a dire dietro'. Nella prefazione a quel libretto, scriveva: 'Se questo libro, come spero, otterrà il risultato di far uscire dai gangheri un certo numero di persone, me ne riterrò pago'. 


Ecco, ora il '900 sta finendo sul serio. Se ne stanno andando i giornalisti che sono stati capaci di raccontare gli ultimi decenni. Adesso tocca ad altri, ma se in una redazione (di giornale, di televisione, di blog) ci sarà un montanaro capace di raccontare ciò che vede (che vede sul serio, non attraverso il monitor di un computer o un display di un cellulare) le parole continueranno ad avere senso.


E allora non rimane che copiare ancora. Quell'articolo attorno a Vigevano venne intitolato: 'Mille fabbriche, nessuna libreria'. Era il gennaio del 1962 quando Giorgio Bocca arrivò in via del Popolo...


'Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una. Non volevo crederci. Poi mi hanno spiegato che ce n'era una, in via del Popolo: se capitava un cliente, un forestiero, il libraio lo sogguardava, con diffidente stupore. Chiusa per fallimento, da più di un anno.
Diciamo che il leggere non si concilia con il correre e qui, sotto la nebbia che esala dal Ticino, è un correre continuo e affannoso. Tribù fameliche giungono dalle province venete e dalla Calabria; sui prati che videro galoppare i falconieri di Francesco Sforza sorgono, nel consueto disordine, baracche, villette e condomini; negli invasi delle risaie crescono i pioppi di pelle bianca....ora anche i braccianti della Lomellina si inurbano in questa Vigevano dove i contadini possono diventare ciabattini e i ciabattini industriali nel volgere di poche settimane.
Avanti popolo, la ricchezza è a portata di mano, di fallimento non si muore e se va bene, il denaro circola, il disoccupato manca, le boutiques, i negozi di primizie, i fiorai sono gli stessi di via Montenapoleone e più cari, gli elettrodomestici e le automobili si vendono che è un piacere.'

A proposito: bisognerebbe tornare a Vigevano. Ora, oggi. Per capire cosa rimane di quelle mille fabbriche e scoprire che, magari, una libreria adesso c'è in via del Popolo. Seguire le orme di Giorgio Bocca è una buona strada per incamminarsi lungo il 2012.
San Casciano in Val di Pesa, 31 dicembre

giovedì 29 dicembre 2011

Paradosso Qatar/2


Il Qatar è un apparente paradosso.
Un paese piccolo, 11mila chilometri quadrati. Come dire: metà della Toscana.
Un milione e settecentomila abitanti. Ma solo 640mila sono arabi di origine qatarina. Gli altri sono immigrati. Indiani, pakistani, singalesi, iraniani. Lavoratori senza diritti. Semi-schiavi, in altre parole.
Il 96% dei qatarini vive a Doha.
Il Qatar è indipendente da appena quaranta anni.
Paese islamico. Sunnita. Wahhabita, corrente conservatrice dell’Islam. Nel mondo musulmano solo l’Arabia Saudita è ufficialmente wahhbita.
Il Qatar è un paese moderno. Capofila dell’Islam di mercato. Spregiudicato in economia. Ma ortodosso e integralista nella sua fede.
In Qatar si trova una importante base militare statunitense.
Reddito pro-capite attorno ai 120mila dollari all’anno.  Secondo nella classifica mondiale, dopo il Liechtenstein. Pil da 150 miliardi di dollari. In Qatar si trova il più grande giacimento al mondo di gas naturale. Terzo paese produttore al mondo dopo Russia e Iran. Quattordicesimo posto per il petrolio (26 trilioni di metri cubi di riserve).

Il Qatar è stato il primo paese arabo a riconoscere i ribelli di Bengasi. Il secondo al mondo, dopo la Francia.
Il Qatar ha fatto parte della coalizione Nato schieratasi con i ribelli di Bengasi nella guerra civile libica: ha inviato sei mirage nei cieli della Libia. Notizie non confermate parlano di una presenza di istruttori e militari qatarini nel territorio libico. Uomini di Doha avrebbero partecipato alla battaglia per Tripoli. Sicuramente Doha ha fornito armi e munizioni ai ribelli bengasini.
Doha ha subito promesso di comprare il petrolio messo in vendita da Bengasi.
Il Qatar aspira al comando della forza internazionale che dovrebbe garantire la ‘stabilizzazione’ della Libia. In realtà, dopo la fine della guerra, sembra che l’interesse a questa missione militare sia diminuito. Si calcola che in Libia vi siano 125mila uomini in armi. Fanno parte di una settantina di milizie. Il controllo di Tripoli è ripartito fra 17 milizie armate.

Fonti giornalistiche rivelano che Doha ha stanziato 500 milioni di dollari per sostenere il bilancio dell’Egitto. Avrebbe finanziato il partito salafita del Cairo. Ha sostenuto apertamente il partito di ispirazione islamica vincitore delle elezioni in Tunisia.  Il Qatar ha assicurato protezione e visibilità (trasmissioni di approfondimento su al Jazeera, fondatore di Islamonline) a Yusuf al-Qaradawi, uno dei più influenti predicatori islamici: di origini egiziane, è considerato ispiratore del partito islamico tunisino e è apparso in piazza Tahir al Cairo.

In Qatar aveva trovato rifugio Sayh Alì al-Salabi, il mediatore, nel 2009, fra Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, e i fondamentalisti libici del Libyan Islamic Fighting Group. Il loro accordo condusse alla liberazione di numerosi ‘pentiti’ dell’opposizione islamista a Gheddafi. Fra di loro il controverso Abdel Hakim Belhaj. Oggi è il ‘governatore militare’ di Tripoli e, secondo molti osservatori, la sua brigata è stata armata dal Qatar. Al-Salabi ha ingaggiato una sfida contro le componenti ‘laiche’ del Consiglio di Transizione libico. Alla fine della guerra, ha, di fatto, ottenuto le dimissioni del ‘primo ministro’ Mahmud Jibril.

Dal calcio alla televisione. Per approdare alla guerra, all’economia, ai giochi aggrovigliati e spietati della politica internazionale. Il Qatar è più che un paradosso. Lo sa bene la diplomazia europea: Lorenzo Declich (islamistica.com, 30secondi.globalist.it), su Limes, fa notare che l’Italia ha nominato ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Maria Buccino Grimaldi. Parigi, invece, ha inviato Antoine Sivan. Si ritrovano dopo qualche anno (e saranno rivali): entrambi fra il 2004 e il 2008 erano stati ambasciatori a Doha. Un caso?
San Casciano in Val di Pesa, 28 dicembre





mercoledì 28 dicembre 2011

Paradosso Qatar/1


Non deve essere stato facile per l’ex-presidente del consiglio italiano ammettere di essere ‘secondo’ a qualcuno. ‘Noi i soldi del Qatar non li abbiamo’, ha spiegato Silvio Berlusconi a chi lo interrogava sulle possibilità del Milan di ingaggiare il calciatore argentino Carlos Tevez.

Già, il Qatar e il calcio. Il Qia, fondo sovrano del Qatar possiede il 70% del Paris Saint-Germain, la squadra che sta contendendo Tevez al Milan. Braccio di ferro fra lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani e Berlusconi: fra qualche giorno sapremo chi vincerà. A presiedere il consiglio di amministrazione del Psg vi è un membro della famiglia reale: Nasser al-Khalifi. Che è anche al vertice di al Jazeera Sport.

Gente seria nel calcio e nella televisione, i qatarini. Gli sceicchi di Doha possiedono anche il Malaga. Sono sponsor ufficiali (180 milioni di euro in sei anni) del Barcellona: hanno costretto Messi, Xavi e Iniesta a spostare sulla schiena il logo dell’Unicef. E infine il trionfo finale: il Qatar, 93esimo nel rankig Fifa, appena sopra il Malawi, nessuna tradizione alle spalle, ospiterà i campionati del mondo di calcio nel 2022. Dovrà avere undici stadi, racchiusi in un territorio arido grande poco più della Corsica.

Appassionati di televisione, gli sceicchi di Doha. Si racconta che al-Jazeera, la televisione più guardata nel mondo arabo (60 milioni di spettatori), sia costata 150 milioni di dollari alla famiglia al-Thani. E lo sceicco Hamad, ancor oggi, a quasi vent’anni dalla nascita dell’emittente, ripiana i conti della tv. Al-Jazeera è stata un’arma formidabile per i ribelli di Bengasi nella guerra contro Gheddafi.

Lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani


Il 30 marzo del 2011, a Doha, sono cominciate anche le trasmissioni di Libya Tv, primo canale satellitare dell’opposizione libica. Il Qatar ha fornito tecnologie e strutture;  pagato e ospitato i giornalisti.

La nuova televisione libica verrà creata dall’ex-direttore di al Jazeera. Waddah Hanfar, giordano di origine palestinese, ottimo giornalista. Si era dimesso dalla televisione di Doha dopo che Wikileaks aveva pubblicato documenti di un possibile legame fra lui e la Cia.

Plausi occidentali, invece, per al Jazeera Balkans, nuova televisione (multietnica) di Sarajevo. E’ la prima volta che Doha apre un canale televisivo in lingua locale (potrà chiamarla serbo-croato?). Da occidente il Qatar entra in Europa con il calcio, da oriente con le televisioni.

Ancora: il presidente dell’assemblea delle Nazioni Unite è il qatarino Nassir Abdulaziz al Nasser.
Infine: la seconda delle tre mogli dello sceicco al Thani è Mozah bin Nasser al-Misnad. Elegantissima nelle sue apparizioni pubbliche. Cinque lauree honoris causa, ambasciatrice dell’Unesco, presidente della fondazione del Qatar per le scienze e lo sviluppo. Riviste femminili italiane azzardano: la posizione di Mozah sulla poligamia e sul codice di famiglia ‘è uno dei segreti meglio conservati dell’Emirato’.  Mozah bin Nasser al-Misnad è considerata una esponente del femminismo islamico.

Difficile negare la super-attività di un piccolo, poco popolato (e ricchissimo) emirato arabo.
San Casciano in Val di Pesa, 27 dicembre






domenica 25 dicembre 2011

Frammenti/Natale, 1972

La pensilina dell'Isolotto


Piazza dell’Isolotto. Notte di Natale. Freddo intenso. Quasi pioggia per tutto il giorno. Pensilina del vecchio mercato. Parcheggio per le auto del quartiere. La prima notte fu oltre quaranta anni fa. 1969, c’era già Laura. Che oggi si ostina a cantare ‘nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà’ avvolta in una sciarpa colorata. Io sono arrivato qui in una notte nel 1972. Un Natale di lotta, si diceva allora. Non ricordo il freddo di quell’anno. Ma fu una buona notte, di questo sono certo.

I falò


Fuochi ardono in due bidoni. Primo Natale senza Enzo Mazzi, il prete che sollevò un quartiere. Il prete di una prima, preziosa eresia. Se ne è andato qualche settimana fa.

Cerimonia senza rituale, il Natale in piazza. Enzo riusciva a nascondere la sua presenza,  a 'essere' con gli altri, oggi è capace di non far pesare la sua assenza. Per alcuni anni, il Natale dell’Isolotto si era ritirato nelle Baracche Verdi, poi, nonostante le età e gli acciacchi, è tornato al freddo. Una Palestina urbana.

Siamo in pochi. Cento uomini e donne. Forse qualcuno in più. Goffi nelle vecchie giacche a vento, sotto i cappelli di lana, stretti nei guanti, nascosti dalle sciarpe Tè speziato per vincere il freddo. 'A gratis'. Un dono.

Parlano i ‘movimenti’. Sorrido quando qualcuno dice che siamo il 99%. Non dobbiamo essere qui. Il popolo del Natale si è disperso per i molti preti irrituali di Firenze e dintorni. Qui c’è la gente della storia dell’Isolotto.  La ragazza della 'decrescita' rivela di essere stata battezzata in questa piazza quarantadue anni fa. Un ragazzo senegalese ricorda Thomas Sankara. Vorrei chiedere ai ragazzi se sanno chi era Sankara. Questo è un frammento della nostra storia del ‘900. Chiedo a Greta se sa chi era Alex Langer. Non lo sa. Ci sono le foto di Alex disseminate per casa mia. Cerco di raccontarle. Come glielo spiego in pochi minuti?

Blowing in the wind

I ragazzi cantano blowing in the wind, traduzione italiana. Da sempre cantano le stesse canzoni. Ognuno di noi le sussurra





Mezzanotte. Un uomo taglia il pane. La bottiglia del vin santo è già sul tavolo che non è un altare. Una preghiera laica. Niente campane. Gli uomini e le donne si avvicinano e mangiano il pane. Si riconoscono. Si fa così da decenni. Forse da secoli. I ragazzi cantano, come ogni anno, noi ce la faremo.

Ostinati nella notte di Natale. Ci sono facce di ragazzi fra le rughe della gente dell’Isolotto.

Il giorno dopo il sole splende sulla città.
Firenze, 25 dicembre

sabato 24 dicembre 2011

Only You

A volte, solo a volte, riappaiono vecchie storie che credevi aver dimenticato. Questa storia ha una sua verità. Quella sera, all'altro capo del mondo, là dove ora è estate, è stasera, è qui, dove le ore sono di un freddo intenso. Quanto tempo...


I Platters (da Rockol.it)

Davo la schiena al piccolo palco. Non so perché avevo scelto quel ristorante. La musica quasi non  la sentivo. Non mi piaceva quel posto. Me lo avevano suggerito amici che poi che non si erano visti. Ero solo. Il vecchio era salito incespicando negli scalini. Era buffo: un papillon rosso, uno smoking nero troppo usato, i capelli bianchi. La voce era un sussurro. Certo, abiti adatti per chi cantava quelle note così invecchiate. Sorrisi e non mi voltai. Eppure quella voce rimase sospesa nell’aria anche dopo che la musica si era ammutolita e il brusio del ristorante era ricominciato indifferente. Quella voce non dava pace. Era dolcissima. Si era come fusa con la carne che stavo mangiando e stava scendendo dentro di me. Dov’era quel vecchio? Mi girai. Mi resi conto che non lo avevo nemmeno guardato mentre con passi lenti mi era scivolato accanto. Lo cercai per la sala, la musica silenziosa si era trasformata in un vortice leggero di note. Non poteva essere. Era seduto in un angolo, quasi accasciato sul tavolo. La sua mano giocava con la bottiglia che un cameriere aveva subito posato davanti a lui. Non beveva, i suoi occhi non erano lì. Vedevano cose che nessuno poteva scorgere. Seguii il suo sguardo e mi persi in un spazio con una strana luce. Come il colore del cielo sul mare dopo un temporale. Seguii il suo sguardo e lui ne approfittò per scomparire. Il tavolo vuoto, un bicchiere lasciato mezzo pieno.

Non rividi mai più Andy Moss. Nessuno seppe dirmi dove trovarlo. Tornai più volte in quel ristorante troppo elegante di Santiago. La sua voce non mi arrivò più come una sorpresa. Nessuno conosceva il tuo vero nome. Ma io, lo giuro, capii. Anche se non avevo mai ascoltato un tuo concerto.

Jeanette, molti anni dopo, mi rintracciò. Una telefonata strana, silenziosa, notturna. Ero nella mia casa della Ciudad. Lei mi ricordò quella sera in un ristorante lontanissimo. Mi disse che aveva per me una cassetta registrata. La sua voce era sopravvissuta. Mi arrivò per posta pochi giorni dopo. A mano, la grafia di un vecchio: ‘Lo so che lei ha sentito. Era il segno che aspettavo per cantare l’ultima canzone’. C’era anche una lettera di Jeanette che mi spiegava che il vecchio aveva avuto il mio indirizzo dal portiere dell’albergo. Andy era sepolto davanti all’oceano e la sera il cielo cambiava colore per lui. Con uno scatto metallico la cassetta cominciò a suonare. Chiusi gli occhi.

Non so dove scrissi questo frammento. Forse qui, a San Casciano in Val di Pesa. O forse in una notte che non voleva avere fine a Santiago del Cile. Molti anni fa. Ricordo bene quel vecchio cantore.

Ma poi trovo un appunto: questa storia è nata da un ritaglio di giornale malamente conservato. Parlava di Andy Moss. Era la voce dei Platters. Morì, come a volte accade, poverissimo. Ma non se ne lamentò mai. Nessuno lo riconosceva quando cantava per i clienti dell’hotel Los Condes. Jeanette gli regalò il mare. Stasera potrei cercare anche quel disco antico.
San Casciano in Val di Pesa, 24 dicembre


giovedì 22 dicembre 2011

Dominicana/L'isola lontana dal mare

La copertina dell'Isola lontana dal mare


E alla fine il libro scritto in quaranta giorni è 'uscito'. Proprio nei giorni del freddo, alla vigilia di Natale, arriva una storia dall'isola che non conosce gli inverni. Una storia di zucchero e frontiera proprio mentre le nostre feste si fanno di zucchero. Proprio mentre molti turisti stanno partendo per il caldo che quell'isola promette e garantisce tutto l'anno. E io che mi ero convinto che quell'isola, l'isola spezzata fra Dominicana e Haiti, fosse lontana dal mare. Anzi: che il mare proprio non ci fosse.

E' un'altra vigilia sull'isola: dovrebbero cominciare, se non sono già cominiciati, i mesi della zafra, della raccolta della canna da zucchero. Come vorrei essere là. A capire, a guardare. I treni delle piantagioni si intrecciano sui binari che tagliano i canneti. Gli uomini hanno affilato i machete. Nei bateyes, i villaggi dei vecchi tagliatori, c'è fermento. Ma non ci sarà riscatto. E' così. Da sempre, per sempre. Però, in qualche sera, si ballerà al suono dei tamburi di qualche brujos, sacerdoti del voodoo. I pastori protestanti celebreranno le loro messe ritmate. E padre Pablo, gigantesco sotto la tonaca bianca, giocherà con i bambini. Buon Natale a voi che non mi leggerete, ma che vi avete donato un frammento della vostra isola lontana dal mare. E poi, lo sappiamo, che esistono altre opportunità per le stirpi condannate a cento anni di solitudine.

Questo è quasi un messaggio privato. Troppa fretta nello scrivere questo libro. L'isola meritava tempo, attenzione, giorni su giorni, parole. E' uscito fuori un istinto, una urgenza, una scrittura che andava per conto suo. Guidata solo dagli occhi. Ora il piccolo libro sarà nelle librerie e per le strade con i ragazzi neri che lo venderanno camminando. Provate a darci un'occhiata. E poi convincete chi sta partendo per la Dominicana a trovare il tempo per dare uno sguardo all'isola lontana dal mare.

Il libro si chiama 'L'isola lontana dal mare'. Edito da Terre di Mezzo. Costa 8 euro.


La copertina che è stata scartata


Un paragrafo del libro. Dove si racconta di Bolivar. Che adesso starà tagliando canna...

Ha un nome importante, il vecchio. Che vecchio non è. La sua età non ha definizioni. Quaranta o sessanta anni? La fatica confonde. Si chiama Bolivar, ha il mozzicone di una sigaretta in bocca e si raddrizza mascherando il dolore alla schiena. Da prima dell’alba è chino in un giovane canneto. Bisogna liberare le piantine dalla mala hierba. Lavoro infame. Si cammina piegati, con i ginocchi che scricchiolano e la spina dorsale che si ribella. Il machete deve tagliare solo le erbacce. Più tardi, prima della paga, passerà un sorvegliante a controllare le file del nuovo canneto. E’ un azzardo di incentivi e minacce, il lavoro da bracero. Ho scorto Bolivar e il suo gruppo da lontano. Mi sono messo in cammino in mezzo alle nuove piante. Le zanzare hanno cominciato a godere del mio sangue fin dal primo passo. Mi sono sentito ridicolo e stavo maledicendo l’idea di attraversare le canne. 

Bolivar


Bolivar si è messo dritto appena sono arrivato vicino ed è come se avessi visto un Mosè magro e malandato alzarsi davanti a me. Il machete sollevato a mezza altezza. La sigaretta spenta, gli occhi scuri come una ribellione. Devo abbassare il mio sguardo. E fermo i miei occhi sui suoi i pantaloni. Sono scuri, bagnati, potrebbero stare in piedi da soli. E’ come se quest’uomo fosse caduto in un fossato e ne sia appena uscito fuori. Sono intrisi di sudore e fatica. Sono una spugna. E’ odore di uomo quello che mi viene addosso. Le zanzare non danno requie. Penso a quanto mi aveva detto Andrès quando mi ha indicato il campo in cui avrei trovato gente al lavoro anche in questi mesi di tiempo muerto: ‘Quella gente sta lavorando da prima dell’alba. E alla fine si troverà con cento pesos in tasca. Non avrà da sfamare la famiglia’. Ho visto il viso di Andrès indurirsi per la prima volta: ‘Il sudore di una persona si rispetta’. E ora io e Bolivar non abbiano nulla da dirci. ‘Puoi fare le foto’, dice lui senza che io abbia avuto parole per chiedere qualcosa. Li seguo sui solchi dove sono state piantate le nuove canne. Avanti per cento metri, indietro per altri cento. Di nuovo avanti, di nuovo indietro. Schizzi di sudore volano nell’aria. Io sono sudato fradicio e non maneggio un machete. Nel sensore della macchina fotografica rimangono le gocce che cadono dal volto di Bolivar e il puntino bianco della sigaretta che non ha lasciato cadere dalle labbra. Me ne vado, lascio nelle mani di Bolivar la paga di un loro giorno di lavoro. Due euro a testa. Berranno birra stasera, questi uomini. E io non so se vergognarmi o essere contento di queste foto. 

Orbetello, 22 dicembre


venerdì 16 dicembre 2011

Frammenti/Pronto Soccorso

Sala di attesa del pronto soccorso


Le stanze dell’Osservazione del Pronto Soccorso sono ritagliate nel corridoio di una società assistenziale antica di oltre sette secoli. Complessi lavori di ristrutturazione rendono difficile e paradossale la vita quotidiana dell’ospedale. In pochi passi si passa dalla modernità più luccicante a edifici cadenti. Da porticati rinascimentali a labirinti di scale. Questa stanza dell’Osservazione è cadente. Non è un deposito delle scope, ma potrebbe esserlo. Il linoleum di qualche decennio fa è la frontiera fra il vecchio e il nuovo.

‘Il direttore sanitario ci manda telegrammi sulla posta interna. Ci chiede di essere sempre sorridenti. Venga lui alle quattro del mattino in mezzo agli ubriachi e vediamo se ha voglia di sorridere’

‘Sono alla ricerca disperata di una barella’

Coperte


Ho capito come funziona? I medici del Pronto Soccorso (pochi) affrontano le emergenze. Alcuni, feriti o dolenti, vengono dirottati nell’Osservazione (nel corridoio con divisori a soffietto di plastica). Ma non vi è mai tempo per ‘osservarli’. Stanno lì. Vestiti come sono arrivati, su un letto-barella. Una flebo appesa al braccio. L’ospedale è nel centro storico, la maggior parte di chi arriva qui sono anziani soli. Vengono ‘dimenticati’. Un vecchio è rimasto ore con addosso il cappotto e il cappello. Ogni tanto gridava. Le infermiere fanno quanto possono. Passano le ore. A volte un giorno e una notte. La sensazione è di essere abbandonati. Una signora spagnola ha un’emorragia. Sta lì e non capisce. Lei percepisce di essere lì da ore. Non parla italiano e nessuno parla spagnolo. Lei ha un aereo il giorno dopo e non capisce cosa sta succedendo. Ha le lacrime agli occhi. I vecchi non hanno forza per richiamare l’attenzione delle infermiere. Gli stranieri non riescono a farsi capire.

La parte vecchia dell’ospedale è davvero cadente.

Ha senso un ospedale nel pieno del centro storico (non sai dove parcheggiare la macchina)? ‘Ci sono troppi anziani nel centro che hanno bisogno di cure, se dovessero venire fino alle periferie, spederebbero decine di euro di taxi. Qui possono venire con spese minori’.

Corridoio


I vecchi si immobilizzano sulla loro barella. Hanno occhi senza luminosità. La bocca è aperta. Come se cercassero aria.

Mi dicono: ‘In tutto l’ospedale ci sono quattro portantini. Due sono fissi a radiologia. Gli altri devono occuparsi di spostare i pazienti da un reparto all’altro, dalle camere ai controlli. Fanno quello che possono’.

Una porta sbatte di continuo. Le vecchie finestre non frenano gli spifferi. Ma nelle corsie fa un caldo eccessivo. Per tre volte, un’infermiera prega un uomo di andarsene. E’ finita l’ora del passo. Ma l’uomo viene dalla Germania. E non vuole lasciare la vecchia donna. C’è un albero di Natale, qualche paziente lascia un regalo per le infermiere.

Monna Tessa


Esco fuori assieme a una ragazza. Non so perché, ma ci scambiamo due parole. Lei sorride e sussurra: ‘Il mio ragazzo mi ha già detto che non vuole invecchiare’. Non è così giovane come immaginavo, la ragazza. Ha trent’anni e ha un lavoro precario al bancone del pane in un centro commerciale. Tutte le sere è in ospedale: la nonna ha perso la parola e aspetta. Lei la imbocca. Tutte le sere.

Guardo le statue dei benefattori, il bassorilievo arcigno di Monna Tessa, la leggendaria governante che convinse la famiglia Portinari a finanziare la costruzione dell'ospedale. Sono fuori, sopra la città è color cobalto.
San Casciano in Val di Pesa, 16 dicembre

martedì 13 dicembre 2011

Frammenti/Una mattina, verso Milano

La stazione di Pioltello


Frammenti/Una mattina, verso Milano
Piccola pioggia. Leggera. Incerta. Altri potrebbero definirla insistente e fastidiosa. Ma la pioggia di questa mattina non era così. Navigava a mezz’aria. Ti  circondava di umidità. Tutto qui. Non era nemmeno troppo tardi. Però le strade erano vuote. Piccole pozzanghere nelle sconnessioni del selciato. Ho un trolley e il rumore sull’acciottolato è un fragore. Penso che sto svegliando un sacco di persone dietro le finestre. Nessuna luce. Eppure, davvero, non è troppo tardi. Nessuno in giro. Fino al fiume non incontro nessuno. Mi chiedo se esiste una parola in italiano per dire ‘trolley’.

In una strada più stretta, uno spazzino è una macchia arancione nel buio. Scopa con diligenza quasi rabbiosa. Sposta cartacce e spazzatura minima in mezzo all’asfalto. Aspetta una macchina pulitrice, immagino. Si accanisce contro la poltiglia di un foglietto che non vuole staccarsi da terra. Alla fine, rinuncia.

In piazza della stazione, riunione operativa di un gruppo di rom. Ne sento le voci roboanti. Le donne hanno toni acuti. Stanno lì, le mani in tasca, maglioni da Caritas, cappelli di lana, davanti al Waldorf Suite. Escono due ospiti del residence. Gente che ha che fare con il cinema. O la televisione. Hanno ingombranti cavalletti e pannelli riflettenti legati alle grandi valige. Hanno fretta. Passano in mezzo ai rom. Nessuno li degna di uno sguardo. Una donna, serissima, con le occhiaie, è accucciata in un angolo dell’ingresso del Waldorf Suite. Fuma una sigaretta, ha un bicchiere di polistirolo in mano. Ma non le serve per la cenere. Guarda avanti. Senza vedere nulla. Si avvicinano altre due donne. Dalle gonne che arrivano fino alle scarpe. Hanno volti segnati. Non so da cosa. Camminano a passi lunghi. I rom stanno per sparpagliarsi, secondo un piano ben collaudato, per la città. Un sabato di lavoro.

La stazione di Pioltello


Ho un biglietto da ritirare alle macchinette self-service. Armeggio con i tasti. Non funziona la lettera I. Cambio postazione. Digito. Niente da fare. Devo sbagliare qualcosa. Faccio un terzo tentativo, ma ancora mi appare una maschera: ‘Absent object’. O qualcosa del genere. Non provo un’altra volta. Vado verso il treno. Parlo con una capotreno. Dice: ‘Ha dimenticato qualcosa. Controllerò io sul treno’.
Il treno va troppo veloce. Non riesco nemmeno ad aprire il computer che siamo già a Bologna. La capotreno non è passata.

Alla stazione di Milano so di dover prendere un treno per Pioltello. Non so dove sia Pioltello. Non ci sono più i cartelloni di carta. Quelli dove sono scritte tutte le stazioni. Forse ce n’è rimasto uno in un angolo della stazione. Ma ora non lo vedo. Ci sono solo avvisi luminosi e digitali. Treni che vanno a Bergamo, a Lecco, da altre parti. Pioltello su quale linea sarà?

Cerco di fare il biglietto per Treviglio. La macchinetta non accetta i miei venti euro. Un uomo (un uomo? Non alzo nemmeno la testa, non so che faccia abbia) si avvicina all’improvviso, forse si china verso di me. Dice: ‘Mi compri un biglietto?’ Sobbalzo. Credo impaurito. Momento di rabbia. Urlo, quasi urlo: ‘No’. E scappo via, senza voltarmi. Verso il treno. Salgo senza biglietto.

La stazione di Pioltello


Sale un ragazzo. Quasi elegante. Felpa e blu-jeans. Il treno parte e lui comincia ad andare avanti e indietro per il vagone. Io sono solo in uno spazio di otto posti. Mi sono rannicchiato lì. Il ragazzo passa e lascia un foglietto giallo. Chiede soldi. Oppure un buono pasto. Vi è scritto: ‘Vivo così’. Dico ancora una volta: ‘No’. Ma lui è già andata via e ha lasciato sulla poltroncina accanto alla mia, il suo foglietto. Mi sembra che mi scotti addosso. Mi alzo. Sto in piedi. Nel corridoio vicino alla porta. Lontano dal quel cartoncino giallo. Il ragazzo ripassa. In silenzio. Si riprende il biglietto. Lo guardo camminare nel vagone. Penso che ha dei bei jeans.

A Lambrate sale un uomo di sessanta anni. Piccolo, grasottello. Lo noto perché è in maglietta a maniche corte. Fa freddo là fuori e lui è in maglietta. Ha tre grandi borse, in falsa juta. Colorate. Una borsa celeste, una verde, l’altra azzurra. Spuntano fuori giornali, carte, una confezione da supermercato di carne grondante sangue, surgelati, scatole di biscotti. L’uomo poggia le borse per terra. Prende un giornale vecchio di venti giorni. Cerca gli occhiali in un borsetto, gadget di un operatore turistico. Occhiali vezzosi, moderni, color rosso vino. Comincia a sfogliare il giornale. Lascia cadere le pagine che sembrano non interessarlo. Guardo i fogli svolazzare nel vagone.  L’uomo scorre gli articoli, strappa delle pagine, non so se legga gli articoli. Non capisco cosa cerchi. Si ferma sulle pagine finanziare. Prende altri giornali. Fa la stessa operazione. Alla fina strappa una doppia pagina. Rimane con un solo foglio in mano. Lo piega con cura. Più volte. Alla fine se lo mette nel taschino della camicia. Siamo a Pioltello. L’uomo raccoglie le pagine che sono volate via. Le rimette, quasi accartocciate, nelle borse. Si prepara a scendere alla nuova stazione. Scende. Si ferma sulla banchina. Guarda il treno in partenza sul binario più vicino. Si avvicina, ma il treno parte. Rimane lì.

Penso che non ho fatto fotografie questa mattina.
Treviglio, 11 dicembre


giovedì 8 dicembre 2011

Mario Dondero/Cosa ne sa Reagan di Piero Della Francesca

Un titolo che rimanda a storie di molti anni fa. Mi è venuta voglia (forse perchè sono giorni in cui si è affievolito il raccontare) di mettere in questo blog alcune interviste fatte qualche mese per un libro sullo sviluppo umano. Furono begli incontri, bei colloqui, belle ore. Tutto troppo lungo per un blog, ma non ho voglia di lavorarci sopra e quindi le sistemo qui nella loro versione integrale. La prima intervista è a Mario Dondero, un fotografo, uno strano fotografo. Capace di restituirmi la fiducia nella fotografia. 
Le interviste sono apparse nel volume 'Politiche per uno sviluppo umano sostenibile', edito da Carocci e a cura di Enrica Chiappero-Martinetti






Mario Dondero a Pieve Santo Stefano



Il documentario che doveva narrare del rapporto fra la cultura, la bellezza e il presidente americano non venne mai fatto. Avrebbe avuto il titolo splendido che noi decidiamo di far riapparire per questa intervista. Non ho capito bene le ragioni per le quali le riprese non cominciarono mai, ma il progetto di Mario Dondero e dei suoi amici era intrigante: le politiche del presidente-simbolo del neoliberismo più impietoso della storia recente sarebbero state diverse se si fosse soffermato ad ammirare i capolavori di uno dei più grandi pittori del Rinascimento italiano?
Attenzione, questa è una strana non-intervista. Soprattutto per un libro di economia. Mario Dondero è fra i più grandi fotografi del ‘900. Ha 83 anni e, come dicono i suoi amici più cari, è un bugiardo. Perché, in realtà, ne ha quattro volte venti. Tanta è la sua energia, la sua curiosità, la sua capacità di sedurre chiunque lo avvicini. E’ sempre in movimento, Mario: per questa intervista abbiamo dovuto inseguirlo fra Milano, Parigi, Bologna prima di riuscire a fermarlo nella sua piccola casa di Fermo con la promesso che il giorno dopo lo avremmo accompagnato in un viaggio. Perché Dondero è un fotografo che mai ha avuto la patente. Viaggia in treno, in corriera, sulle auto degli amici. A piedi. Come ha fatto a fare il fotografo? La fotografia, per lui, non è stata un’arte, ma una maniera, la più efficace, per raccontare storie. Meglio: per raccontare l’uomo. Ha detto Mario Dondero: ‘Una strada non è una strada, o una finestra non è una finestra se non c’è la presenza umana’. E mettere al centro l’uomo è uno dei cardini di chi elabora le teorie dello sviluppo umano. Mario non lo ammetterebbe mai, ma le sue foto sono di grande bellezza. E sono imperfette, colme di difetti ‘tecnici’, ma hanno la rara capacità di cogliere l’essenziale di un uomo o di una donna. Vale la pena ascoltarlo, allora. E riflettere su questa idea della bellezza che l’economia non riesce quasi mai a comprendere nei suoi manuali.

Mario Dondero


Tu hai coltivato una strana bellezza, Mario. Le tue foto hanno raccontato il ‘900. Hai fotografato artisti, scrittori, musicisti, tutti cultori del bello. Cosa è la bellezza?
‘Non so dirtelo. So che la bellezza travalica la questione estetica. E’ un’etica’.
Una bella fotografia riesce a raccontare la povertà?
‘Sì, c’è una foto di Salgado che ritrae un minatore brasiliano mentre afferra la canna del fucile di un guardiano. I suoi muscoli sono tesi, il suo sguardo è ribelle. E’ un’immagine di Spartaco che fronteggia un soldato romano. E’ una foto di grandissima forza. Ma Salgado corre un rischio: in lui, a volte, prevale l’estetica e questo edulcora il risultato. La bellezza estetica può confondere, può essere un trucco che ti fa evadere dalla profondità delle cose. A volte credo che ci sia un eccesso di bellezza nelle immagini. Se vuoi essere esteticamente seducente, corri il pericolo di perdere la sostanza delle cose. Il bello può essere dannoso, se serve a nascondere il vero. Ho visto foto molto sofisticate della guerra in Afghanistan che non raccontavano niente. Ho il timore che belle immagini, tecnicamente perfette, servano a far dimenticare quello che non si vuol fare vedere. Peggio: il non raccontare diventa l’obiettivo principale. Ho in mente invece foto che io non riuscirei mai a fare: un fotografo napoletano, Luciano D’Alessandro, ha mostrato i ricoverati in un ospedale psichiatrico e lo ha fatto con immagini dalla composizione perfetta. Sono foto splendide, ma non ingannano. Restituiscono la tristezza di quel luogo’.
Domanda senza correttezza politica: la povertà può essere bella?
‘Ricordo i contadini egiziani. Gente poverissima. Era gente di una grande eleganza. Sai cosa abbrutisce più della povertà: il consumismo? Oggi un contadino indossa tute e cappellini pieni di pubblicità’.
Ho la sensazione che la bellezza sia una storia riservata ai ricchi.
‘Le case di terra cruda, di acqua, malta e paglia dei villaggi del Mali sono infinitamente più belle delle ville di Berlusconi. Le pitture rupestri più antiche sono sempre più belle di quelle più vicine a noi. I disegni che i bambini fanno prima che una maestra venga a insegnar loro come dipingere sono migliori di quelli che faranno dopo. C’è autenticità, freschezza, spontaneità nella vera bellezza. Questi erano temi cari a Pasolini. Il buon gusto è qualcosa di spontaneo. Il cattivo gusto è artefatto. Quando si smarrisce l’ingenuità, si diventa piccolo borghesi e non si è più niente. La bellezza ha leggi semplici. E’ semplicità’.
Mi stai dicendo che la modernità standardarizza, favorisce la bruttezza?
‘No, non essere sempre definitivo. Ci sono designer che sono poeti. Non credo che esista una legge valida per ogni occasione: a Matahusen ho visto il memoriale costruito dagli architetti. Bello, ma non rimandava la drammaticità di quel luogo’.
Il socialismo ha tradito la bellezza, mentre il capitalismo è stato ben più fertile. So di darti un colpo basso con questa affermazione.
‘Non sarei così radicale. Il socialismo può essere deprimente. Forse lo è diventato. Ma i russi dell’epoca della rivoluzione hanno espresso un livello artistico straordinario. Poi è finito l’entusiasmo. C’è stato un imbarbarimento. Ma il primo momento rivoluzionario è stato altamente creativo. I primi comunisti erano persone cortesi. Oggi, in Russia, gli ex-comunisti sono dei cafoni. Sono tornato in quel paese dopo molti anni e ho incontrato un regista. L’ultima volta che lo avevo visto stava girando un film su Majakovskij. Oggi, con aria desolata, mi ha detto che stava facendo spot sugli antifurto’.
Sembra che la conservazione della bellezza sia incompatibile con lo sviluppo. E’ così?
‘L’istinto della bellezza è una dote che va coltivata. Ci sono state stagioni, nel corso della storia, in cui si è raggiunta qualcosa di molto vicino all’armonia. Penso al paesaggio toscano. E’ stato costruito dall’uomo. Oggi la fretta, l’avidità, un falso senso del risparmio per guadagnare più denaro sono minacce concrete alla bellezza. Una casa contadina in Toscana è bella. E’ stata costruita da contadini. Da muratori che ben sapevano cosa stavano facendo. In questi anni si rischia di perdere saperi, mestieri, competenze. La bellezza ha bisogno di tempo. E invece, spesso, si confonde lo sviluppo con il progresso. Io abito nelle Marche, un paesaggio di grande dolcezza, gente cortese, eppure chi ha costruito le fabbriche non ha avuto attenzione per questo luogo. Altrove, a volte, sono stati chiamati architetti bravissimi a progettare le fabbriche e paesaggio e industria sono riusciti a convivere’.
La bellezza è economia?
‘La bellezza è legata al talento. All’amore per le persone, per le cose , per l’ambiente. Ripeto: non confondiamo lo sviluppo con il progresso. La bellezza è contagiosa: se faccio qualcosa di bello, anche chi mi sta vicino sarà tentato di rifarlo. La bellezza è anche economia e ha un grande valore economico perché rende attrattivo acquistare qualcosa di bello’.
I Medici erano banchieri potenti. Seppero chiamare attorno a loro una corte di artisti straordinari. Un potere economico fortissimo può essere sensibile alla bellezza?
‘Qualche volta è successo nella storia. Il Rinascimento fu un’epoca straordinaria. C’era contaminazione fra artisti. E i Medici avevano un’alta sensibilità estetica. Se devo pensare al Novecento mi viene in mente l’esperienza di Adriano Olivetti. Era un mecenate. Un capitalista che metteva al centro l’uomo. Vi sono imprenditori che invece sono ambigui e cinici: usano la bellezza per poter vendere di più un prodotto. Oggi non vedo grandi illuminati nel mondo del capitale o della finanza. Mi sembra un universo di furbi, gente senza né visioni, né pietà. Ci sono i collezionisti, è vero, ma loro vogliono mettere la bellezza in cassaforte, non condividerla’.
Luoghi come gli ospedali o i carceri possono essere belli? Voglio dire: possono aiutare a vivere meglio i giorni da reclusi o da malati?
‘Ho fotografato gli ospedali. Sono stato rimproverato di aver reso belli dei luoghi che erano disastrosi. Ma qui non stiamo parlando di fotografia: sì, questi luoghi possono essere belli. Non sta scritto da nessuna parte che debbano essere brutti. Ma bisogna stare molto attenti: il carcere dell’isolotto di santo Stefano a Ventotene è un capolavoro architettonico, ma è uno dei luoghi più crudeli che l’uomo potesse immaginare. La sua bellezza era così raffinata da trasformarsi in claustrofobia per chi, come Pertini, vi fu detenuto.
Cerchiamo di capirci, anche se può sembrare banale: la bellezza può aiutare?
‘Sì, non c’è dubbio. Il bello non è inutile. Non è frivolo. Tutto ciò che è bello può migliorare la vita’.
  
Il luogo dell’intervista
La casa di Mario è in un vicolo, stretto e umido, di Fermo, bella cittadina delle Marche. Una fila di ciclamini, ostinati contro il freddo, guida chi vuole trovare la casa nei mesi invernali. Abitazione a due piani, umile, piccola, buia. Colma di fotografie. Non c’è posto dove sedersi a casa di Mario. Ogni sedia è occupata da buste di fotografie. Non c’è un tavolo dove mangiare. Ogni letto è una distesa di provini e scatoloni. Ogni parete è un affresco del Novecento. Che Guevara è davanti al letto: Mario si sveglia guardandolo dritto negli occhi. Al suo fianco cavalcano i barbudos trionfanti. Ci sono le fotografie degli scrittori del Nouveau Roman. C’è la Parigi di Yves Montand e di Jean Seberg. Mario ha fotografato Picasso, Beckett, Roland Barthes. La sua vita è in bianco e nero. Il filosofo Giorgio Agamben ha associato le foto di Mario Dondero all’idea del Giudizio Universale. Parliamo precariamente seduti a un tavolo travolto da stampe in bianco e nero. Una stufa scalda a fatica la stanza. Non c’è spazio per far un solo movimento veloce. Il gatto scivola fra le gambe e reclama attenzione. 





giovedì 1 dicembre 2011

Rosa, primo dicembre 1955. A Montgomery, Alabama

La foto segnaletica di Rosa (da potacchione.wordpress.com)

Ci sono parole che ti passano accanto e si impigliano nella mente.
Un tempo cosa facevi: forse, se eri un giornalista, te le annotavi su un taccuino e, forse, un giorno sarebbero riemerse.
Oggi faccio una strana operazione (almeno per me).

Qualcuno alla radio, accesa al mattino, fra una crisi e l'altra, lascia andare un ricordo che appare irrimediabilmente fuori posto. E fuori posto, Rosa Parks lo era certamente quando il primo dicembre del 1955, a Montgomery, in Alabama, salì su un autobus. Rosa era una donna di 42 anni. Faceva la sarta. Forse era stanca quel giorno, non vi erano posti a sedere liberi nella parte dell'autobus riservata ai neri. Rosa era un afroamericana. Era nera. E, in quegli anni, meno di mezzo secolo fa, nella più grande democrazia della Terra, i neri erano cittadini inferiori. Rosa, quel giorno, sedette nei posti destinati ai bianchi.

Oggi è l'anniversario di questa storia straconosciuta e lontana. I passeggeri bianchi di quell'autobus protestarono, l'autista, James Blake, ordinò a Rosa di alzarsi. Lei rifiutò. Blake chiamò la polizia, Rosa venne arrestata.

Quella stessa notte, a Montgomery si riunirono decine di afroamericani. Emerse, allora, un leader naturale, il pastore protestante Martin Luther King. Quegli uomini e quelle donne decisero di non accettare più soprusi. I neri cominciarono a boicottare i bus dell'Alabama. Per 381 giorni andarono a piedi. Fino a quando non furono cancellate le leggi e i regolamenti segregazionisti.

Rosa Parks (da ildiverso.blogspot.com)

Non ebbe vita facile, Rosa. Fu minacciata, non trovò più lavoro in Alabama. Si trasferì a Detroit. Riprese a fare la sarta per poi diventare segretaria di un membro del Congresso. Nel 1999 ricevette la Medaglia d'Oro dal Congresso e fu ricevuta dal presidente Clinton.

Rosa è morta a Detroit nel 2005. A 91 anni.

Non so, in realtà sono andato a leggermi un paio di articoli e guardato wikipedia per scrivere queste parole su Rosa. Non ho tenuto per me questa storia. Solo perché è un anniversario che ben pochi ricorderanno?
Non ne ho idea: so che questa storia mi ha davvero attraversato la mente questa mattina. E mi sembrava così diversa da quanto stavo ascoltando. Mi sembrava così lontana, dimenticata, racchiusa in un'agiografia di buoni sentimenti. E, allo stesso tempo, mi sembrava così attuale, così reale, così vicina a noi. Un blog ti consente di raccontarla, di copiarla. Un taccuino virtuale. E' rimasta bianca la pagina del taccuino di carta. Perché ho dedicato mezz'ora di questo primo dicembre a Rosa?
San Casciano in Val di Pesa, primo dicembre

martedì 29 novembre 2011

Luoghi di resistenza (in)consapevole/La libreria Griot a Roma

Il tempo in libreria


Angolo di via Santa Cecilia, quartiere di Trastevere, Roma. Piccola porta a vetri. Qualche incertezza a capire che si tratta di una libreria. Tre tavoli, sedie, fogli sparsi. Questo è un luogo dell’Africa.
Long sellers: Maryse Conde con le sue ‘Mura di Segou’. La giovane Igiaba Scego, scrittrice in bilico fra Somalia e Italia, gioca in casa (lei è romana e romanista): i suoi libri della doppia identità sono molto amati. Ma anche la nigeriana Adichie Chimananda ha i suoi appassionati. Riszard Kapuscinski e Angelo Del Boca devono essere sempre presenti sugli scaffali della libreria: penso che sia uno strano accoppiamento, due grandi giornalisti che hanno raccontato in maniera opposta la grandezza e la nefandezza di Hailé Selassiè, ultimo negus d’Etiopia. E ancora, i classici: Ken Saro Wiwa, ‘Il crollo’ di Chinua Achebe, almeno fino a quando e/o lo ha ristampato. Bella classifica di libri. Quasi un indice di gradimento dei libri africani in Italia.

Leggere in libreria


Cinque anni di vita. Non è poco per una piccola libreria così specializzata. Ostinazione e passione. Libreria al femminile. Quattro donne a gestirla nella vita di ogni giorno. Forse solo delle donne potevano avere il coraggio sfacciato di creare una libreria africana. Forse devi credere che Carla abbia assecondato il desiderio della figlia Martina. La ragazza era tornata da una storia africana come esperta dell’Unesco. Non voleva dimenticare. La madre le dette una mano. E aprirono un luogo di libri africani. Una libreria controcorrente. Capace di raccontare come questo continente fosse vitale. Un luogo dove sfuggire agli stereotipi nei quali noi occidentali vorremmo rinchiuderlo. I libri sugli scaffali, gli oggetti, i veli mauritani come i tessuti maliani, bi dvd di questa piccola libreria sono a dimostrare la forza dell’Africa.

Giuseppina di fronte alla libreria


Si vive di libri africani? ‘Si sta a galla’, dice Giuseppina, antropologa, traduttrice de ‘L’invenzione dell’Africa’. Sì, se la libreria diventa anche  Officina e offre corsi di lingua (arabo - grande successo, effetto delle primavere del Nordafrica – swahili, amarico e farsi). Sì, se si inseguono le case editrici (spesso disattente verso le piccole librerie) che pubblicano libri africani. In difficoltà Epochè (hanno avuto il coraggio di collane africane), ecco che Morellini ha una collana Griot, E/O ha ‘I leoni’, Nuova Frontiera è attenta all’Africa. Escono libri per Jacabook e per Harmattan. L’Emi conserva e rinnova la sua storia africana. Uno scaffale è dedicato al mondo nero del continente americano.




Non si passa per caso da via Santa Cecilia. Non è fra le strade del turismo bohèmienne che affolla Trastevere. Bisogna cercarla, questa libreria. Studenti, aficionados, viaggiatori, lettori accaniti passano con qualche regolarità. Cercano libri particolari. Qui si fanno incontri, io passo del tempo con Matteo che sa di Somalia (incontro casuale, appunto, in un pomeriggio) e sta cercando di imparare l’arabo. Ci sono oggetti che raccontano frammenti di Africa. Oggetti portati da amici. C’è un catering (maliano e palestinese) per occasioni conviviali.

Fra qualche tempo, dalla officina della piccola libreria partirà il progetto di una mappa. Un wiki-Africa italiano. Un tentativo di scrittura collettiva di una mappa che ci indichi i luoghi presenza africana in Italia. Progetto da seguire. Al quale collaborare.

Luogo strano. E, allo stesso, normale. C’è aria di casa. Luogo prezioso.
Roma, 26 novembre
Libreria Griot
Via di Santa Cecilia, 1/A a Roma
Tel. 06.58334116
www.libreriagriot.it
Chiuso al lunedì. 

sabato 26 novembre 2011

I bigliettini di Trastevere

I bigliettini sulla statua di Sant'Antonio


Chiesa di Santa Maria a Trastevere. Poco più delle otto del mattino. I mendicanti prendono posto nella piazza. Il ‘loro’ posto. Quali trattative vi sono state per decidere? Gli uomini rom camminano con il bicchieretto di plastica in mano: ‘Figli, fame, figli’. Le donne si sistemano agli angoli. Un ragazzo nero oscilla su gambe malferme. Lancia sguardi dal basso. Altri, più ambiziosi, trovano istanti di pace nella chiesa. Si siedono. Aspettano.
Davanti alla comunità di Sant’Egidio, due uomini e una donna, vestiti con eleganza da diplomatici, attendono una macchina con autista. Arriva con un ultimo colpo di acceleratore. Il fotografo si muove. Scende un africano di alto rango. La comunità ora ha un ministro nel governo. Fremono di orgoglio e di importanza. Un soldato di guardia osserva con indifferenza. Nelle orecchie l’auricolare bianco di un ipod.

Il messaggio di Ana y Antonio ai piedi del Santo


Dentro la chiesa, la statua di sant’Antonio è sommersa da biglietti di carta. Richieste di grazia, di aiuto, di incoraggiamento. I piedi del santo sono coperti dai messaggi. Qualcuno è riuscito a infilare un foglietto persino fra le dita della statua. Un messaggio, fra i tanti, è ben leggibile: Ana e Antonio chiedono l’aiuto di sant’Antonio perché Mari Carmen trovi un fidanzato. E’ scritto in spagnolo.
La piazza è bellissima in questa ora della mattina.
Roma, 25 novembre

Ps: a sera la piazza si svuota dei medicanti. Abbandonano i loro luoghi. Appaiono i suonatori,  i venditori di fiori e di chincaglierie. Solo il ragazzo nero dalle gambe malferme e dallo sguardo dal basso non si è mosso. E’ lì, a fianco della chiesa di santa Maria, da almeno dodici ore. Nel primo pomeriggio era seduto, leggeva un fumetto con una sigaretta malridotta in mano. Il cappuccio quasi tirato sugli occhi. A sera stava travasando vino in una bottiglia di plastica.


Enzo in San Francesco a Ripa


A notte, incontriamo Enzo. Suona la chitarra in San Francesco a Ripa. Vive a San Basilio. Aspetta sempre l’ultimo autobus. Viene ad ascoltare la musica dentro il caffè. Gli offriamo vino e torta al cioccolato. Poi ci invita a uscire e per noi suona De Gregori. ‘Hanno ammazzato Pablo’. Già, e Pablo è vivo.