lunedì 25 aprile 2011

Primavera a Venezia

San Marco 

Controcorrente. Pasqua a Venezia. Nella folla. Convergere su san Zaccaria. Sei euro un biglietto per il vaporetto. Coda davanti alla pizzeria a taglio di san Rocco. Autofotografarsi, ora è possibile (fine anche della relazione con un passante: ‘Scusi, ci può fare una foto?'), davanti al ponte dei Sospiri. Ponte dei Sospiri? Ponte Scavolini. Come i palazzi di san Marco ora sono Palazzo Lavazza. Onore alla pubblicità. Ma il sindaco di Venezia aveva davvero bisogno anche dei soldi della Scavolini? L’orgoglio deve essere roba sciocca. I turisti si autofotografano nella galleria d’acqua Scavolini. La pubblicità si chiama ‘Il cielo dei sospiri’. Mi dicono che si montano ponteggi a uso pubblicitario: potrebbero essere molto più ridotti per il vero restauro, ma bisogna pensare anche ai fondali della Scovolini. Venezia è così pezzente da aver bisogno dei soldi della Scavolini?

Autofotografia al Ponte dei Sospiri


Il rito della fotografia sul ponte dura trenta secondi. Strana cerimonia: un’occhiatina veloce, si annuisce con un sorriso, una conferma che quello è il Ponte dei Sospiri, la macchina impostata su tutti gli automatismi possibili, uno scatto, una controllata distratta al display, uno scarto di lato. E via. Velocità del mondo.

Anche noi, politically correct, osserviamo una ricca famiglia nera (padre, madre, carrozzina, due bambini robusti) che gira per san Zaccaria. Sudafricani, così a occhio. Potrebbero essere angolani. Congolesi. La diversità colpisce. In questa folla di gente pallida. Le famiglie dell’Est (menu in russo) non sorprendono più. E poi ci sono altri neri a san Zaccaria: giocano un estenuante guardie e ladri con i carabinieri in alta uniforme con il loro carico di borse taroccate. Si muovono entrambi a pattuglie, si conoscono, i carabinieri assumono un’aria severa e camminano senza correre, gli altri corrono. E cercano di nascondersi fra le gambe dei turisti. Quante borse avranno venduto a fine giornata? Scene che fanno parte della iconografia veneziana. Nessun si stupisce di queste fughe improvvise. Non ci si volta nemmeno.

Musica 'apache' a san Zaccaria
Due gruppi di indiani si schierano sulla ‘riva’. Concerti di longmusic. El condor pasa e musica new age. Pifferi, tamburi e base musicale. Casse e batteria di strumenti. In una valigia davanti al due (o trio) una valigetta con dentro sacchettini colorati: ‘Sorpresa 1 euro'. Penne apache. Anche sul sedere. Eppure giurerei che sono indios peruviani. Mi raccontano che niente è causale: una impresa tedesca organizza il tour di questi indiani. Chissà se è vero. Gli apache fanno più folclore degli indios andini?




Tour leader

Il turismo si concentra. Venezia è un cerchio a più strati. Il turismo non ama la solitudine. Vaporetto per san Servolo, vecchio manicomio della città. Siamo i soli passeggeri. Camminiamo in un luogo di grande bellezza. Nessuno. Solo le piante felici della primavera. Poi passeggiata fino a san Pietro in Castello. Prati a Venezia. Siamo in cinque ad arrivare fino a qua. Non c’è un solo bar. Perfezione. Silenzio. Due ragazzi sono seduti sui gradini di un pozzo, intenti a leggere una guida.

E poi a notte, al mattino (nemmeno tanto tardi: basta camminare alle otto, andare fino alla pasticceria che ostinatamente è aperta), si sentono i passi sul selciato delle calle. Banale magia di Venezia.

Le folle di san Zaccaria ricordano il ‘non voler sapere’ dei mesi prebellici nel 1939 e 1940. Vacanze sull’orlo della guerra.

I camerieri sono bengalesi, croati, rumeni, arabi. Qualcuno è di pelle scura. Sono pochi i camerieri veneziani.

Penso che se non riusciamo a parlare agli uomini e alla donne che vanno e vengono a san Zaccaria non abbiamo alcuna possibilità. Se non parliamo ai turisti, non riusciremo a smuovere un solo sassolino di questo mondo. Per fare cosa? Cosa ne fareste del turismo a Venezia? Cosa fareste di fronte a ventitre milioni di persone all’anno?

Passo tre volte sul ponte di Rialto. Il cameriere ha l’aria di una stanchezza irrecuperabile. E occhi di malinconia. Immagino, senza immaginarlo, il momento in cui, a notte, si stenderà su un letto a una piazza in cui, da una venti giorni, non cambia le lenzuola.
Venezia, 25 aprile  
   

giovedì 21 aprile 2011

Primavera a Misurata


Fuori è una primavera magnifica. Mi scaldo al sole. Cammino e ascolto il rumore dei miei passi.

Ha senso la primavera con la guerra alle porte di casa? Ci sono sempre state le guerre alla porta di casa. E c’è sempre stata la primavera. E la guerra di Libia appare ora più come un fastidio, una zanzara che vola nel nostro giardino e vorremmo che nessuno dei nostri ospiti se ne accorgesse. Che la primavera non ne fosse distratta.

Ha senso scrivere un blog (cos’è un blog?) e scrivere di Juliano Mer-Khamis, ebreo- palestinese (ebreo-palestinese, Cristo), uomo di teatro, ucciso a Jenin; di Vittorio Arrigoni, pacifista radicale, ucciso a Gaza, di Tim Hetherington e di Chris Hondros, fotografi celebri, uccisi a Misurata. Ha senso scrivere da questa primavera da meraviglia e mentre stai raccontando di natura, archeologie e uccelletti che cantano? Non dovrei, non dovremmo, essere là invece che qui? Là, a Jenin. A Gaza. A Misurata. Sono luoghi e terre che amo. Ho smesso di scrivere quando ho saputo della morte di Vittorio Arrigoni. Cosa avrei potuto scrivere? Che foto mettere? Eppure non lo avevo fatto quando ho letto della morte di Juliano. E’ solo questione di ‘saperne qualcosa’, di avvertire ‘vicinanza’, che ti fa scattare un dolore? E allora, tutti i cittadini di Misurata di cui non sapremo mai la morte? Io conosco le strade di quella città. Vi ho passeggiato. Ho mangiato kebab e chorba nei suoi ristoranti all’aperto. So di Tripoli Street. Ho dormito al vecchio albergo italiano. Ho felicemente assaggiato pesce in un gran bel posto. Come si chiamava?

Muoiono i ‘visibili’. Muoiono gli ‘invisibili’, ma loro sono senza nome. Il dittatore Somoza venne cacciato dal Nicaragua, solo quando un suo soldato uccise un giornalista americano. Ma erano altri anni. Adesso non sarà la morte di due occidentali a fermare l’odio improvviso fra libici. Non ci sono più regole in questa guerra. Se non quella di ammazzarsi quasi a casaccio. Fra persone che, fino a due mesi, mangiavano assieme l’agnello e mai avrebbero pensato che si sarebbero uccisi l’un con l’altro. Non ci sarà pietà a Misurata. Non ci saranno perdoni semplici, forse non ce ne saranno dopo questa guerra.  

Gioco di fotografie. Il premier italiano Berlusconi tirava indietro la pancia pur di farsi fotografare accanto al pirotecnico, e suo coetaneo (avevano anche lo stesso chirurgo plastico), Muammar Gheddafi. Oggi si bada bene dal farsi fotografare accanto a Mustafà Abd al-Galil, capo degli insorti di Bengasi, presidente del Consiglio nazionale di transizione. Ben si capisce: in fotografia appare un uomo fragile e devoto. ‘Bolla’ islamica in fronte: prova della sua assiduità nelle preghiere. In realtà Abd al-Galil appartiene alla vecchia guardia gheddafiana. Non deve essere fragile: quest’uomo di 59 anni era il ministro della giustizia nel governo di Gheddafi. Provate a leggere l’ultimo numero di Limes: in un articolo Abd al-Galil viene quasi lodato per la sua fama di ‘uomo integerrimo’, definito ‘cooperativo’ nei dispacci dell’ambasciatore Usa a Tripoli. In un altro articolo è liquidato più drasticamente: si dice che ha di fatto ostacolato ogni tentativo riformatrice del regime. E’ accusato da Amnesty International e Human Rights Watch per i soprusi della ‘giustizia’ gheddaffiana. No, Berlusconi ha bisogno di sparring-partner alla sua altezza. E questo ex-giudice cirenaico, non va bene. Oltre tutto, davvero, non sappiamo chi sia davvero e mica si può credere al nostro ministro degli esteri (capace di dire in una intervista da antologia ad al-Jazeera, che per settimane non aveva avuto sufficienti informazioni sulla ribellione libica). Sono certo che il premier rimpiange le grandi parate accanto a Gheddafi. Erano animali simili, si annusarono come cani e si riconobbero all’istante.

Più attento Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni. Dopo aver giocato per settimane su due staffe (mollare o non mollare Gheddafi? Trattare o non trattare con i cirenaici?), si precipita alla Farnesina a incontrare al-Galil. E’ Scaroni che conta, mica Frattini. In Libia, l’Eni era uno stato nello stato. Nessuna foto nemmeno per lui. Non si sa mai. Scaroni ha una gran paura di essere messo ai margini nello scramble for oil della Libia futura. Ne va del 15-20% del fatturato Eni. Ma ci sarà un futuro per la Libia? Alzi la mano chissà come andrà a finire in Libia.

La guerra in Libia è già una delle mille guerre che affiorano dalla loro tragedia solo se viene ucciso un occidentale. Anzi in Afghanistan diventa notizia secondaria anche la morte di un alpino. Chi si ricorda delle guerre in Somalia o in Iraq? Chi ha attenzione per il Libano o la Palestina? Con la tragedia della Libia, con quanto di maligno si tirerà dietro, dovremo fare i conti per anni.   
San Silvestro, 21 aprile


mercoledì 13 aprile 2011

Alkesa rompe le regole

Primavera a Mostar



Aleksandra rompe le regole a Mostar. Gestisce il Club Aleksa, un locale alla moda. Luogo elegante, bel giardino, terrazza sulla Neretva, belle serate nella calda estate. Gastronomia e musica. E’ a un passo dal ponte Tito (è conosciuto ancora così dai mostarini). Ci portano birra croata (qui si notano queste cose, si è sensibili). Birra Karlovacko. Aleksandra è serba. Una foto della vecchia cattedrale ortodossa, distrutta negli anni della guerra, è appesa a una parete. Il Club Aleksa, dedicato al malinconico poeta Aleksa Santic (non so niente di lui: serbo di Mostar, ma ho letto una struggente poesia in cui si parla del giardino di un vecchio iman), si trova nei quartieri bosniaci della città. Melting-pot balcanico. Mi sento felice. Mi avvertono subito: ‘Un tempo era tutto così’. Come a dire: ‘Ora non più’. Non so: per me è importante che ci sia un luogo come questo. Mi aggrappo ai segni, al coraggio, a un fragile desiderio di futuro.

La birra disegna i confini invisibili della città. Nei bar di Mostar Ovest si beve birra Karlovacko. In quelli di Mostar Est vi offrono birra Sarajevsko. Salgo verso le montagne di Nevesinje, ci sono bottiglie di Jelen, birra serba. Bevo con piacere la birra del Club Aleksa. Mi piace la Karlovacko.

Mi piacerebbe fare una mostra con i ritratti dei contadini di cui abbiamo raccontato le storie nel libro sui contadini dell’Erzegovina. E poi chiedere a chi si avvicina di riconoscere un serbo da un croato, un bosniaco da un serbo.

Osservo un bambino giocare con un fucile mitragliatore di plastica. L’arma è più grande di lui. Passeggia con disattenzione nei corridoi di una fiera, ogni tanto spara i suoi colpi luminosi. Non è innocenza. Vedere queste armi fasulle a Mostar è come una ferita che si riapre. Ma ricordo che al mio paese, nelle campagne toscane, senza ricordi di guerra, a Natale il fucile per sniper, per cecchini, è stato uno dei regali delle feste. Sulla scatola c’era proprio scritto: Sniper, parola che abbiamo imparato a conoscere a Sarajevo.

Mi spiegano di continuo le ragioni della guerra. Mi convincono. Storie vecchi, eppure così attuali. Mafie, poteri criminali, primitivismo, pezzi di  di uno stato comunista corrotto. Temo che oggi stia accadendo altrove. Tutto vero. Ma poi a spararsi addosso vanno gli uomini. Uomini normali. Come il gentile professore di serbo-croato che mi accompagna a vedere i suoi ciliegi. Li pota con cura, è un uomo anziano e sereno. Poi indica le montagne e mi dice che là ha combattuto: ‘Abbiamo difeso le nostre terre’.

Tutto doppio a Mostar. Due squadre di calcio. Rifiuti, gas, elettricità, ospedali. Tutto diviso, separato, spezzato. A Mostar Est, Pozorliste è il teatro in bosniaco. Kazaliste, il teatro in croato. Un tempo c’era un’unica compagnia, per anni hanno recitato assieme senza chiedersi 'cosa' fosse l'amico che ti stava vicino. Ora, dicono, non c’è più una lingua comune. Ma tutti parlano la stessa lingua. Solo che non lo riconoscono. Le classi delle scuole sono costruite secondo criteri etnici. ‘Preparativi per la prossima guerra. I ragazzi cresceranno nella divisione, nella intolleranza’. Passo davanti ai bar degli ultras del calcio e immagino questi ragazzi dai muscoli tosti con un mitra in mano. Scaccio il pensiero.

I ragazzi e il Vecchio Ponte

Ma poi ci sono i ragazzi che passano le ore del pomeriggio nelle spiagge sotto il Vecchio Ponte. E la primavera mette euforia ai ragazzi e alla ragazze di Mostar. Fotogrammi di gioia.
Mostar, 10 aprile

martedì 12 aprile 2011

L'uomo dei burattini

Hamiza e la Neretva


Lo spettacolo di Djana e Nedzad

Cantano gli uccelli sulle sponde del fiume più bello del mondo. E’ mattino presto, la vecchia Mostar è ancora una città di pietre e acqua. I mercanti pigramente aprono i loro negozi. I turisti arriveranno più tardi. E gli uccelli taceranno...

L’uomo dei burattini chiede il caffé. Rito lento. Un dolcetto accanto al bricco di rame. La schiuma leggera. La zolletta di zucchero da sciogliere. Il cameriera ha la gentilezza del mattino. 

Hamiza è l’uomo dei burattini. Mostar era (è?) città di artisti. Negli anni ’60, accanto al Vecchio Ponte venne aperto il primo ristorante. Divenne luogo di pittori, scrittori, attori, felici perditempo. Osteria delle grandi bevute. Rakija e birra. Bohemia balcanica. Minareti e minigonne. Gli artisti trovarono rifugio in minuscole case sul fiume.

Hamiza ci accompagna per la sua città. Varca la frontiera invisibile fra Est ed Ovest. Inutile fare finta: oggi questo è ancora il confine fra le terre dei croati e quello dei bosniaci. La casa dove è nato è nei quartieri croati. Ma quando venne al mondo stava finendo la guerra degli anni '40 e si affacciavano speranze fragili. Per decenni a Mostar non vi sono state differenze fra gli abitanti. Almeno così oggi si ricorda. La casa di Hamiza è abbandonata, le finestre sono protette da difese precarie. Appartiene ancora alla sua grande famiglia. Le mura hanno addosso i segni della guerra. Ma il fiume, affluente della Neretva, è ancora lì, alle spalle della casa. Il ragazzino cresciuto negli anni '50 vi si tuffava con gioia. Sì, immagino gli orti, gli alberi, la libertà dei ragazzi di Mostar. Il monte Hum sovrasta la linee delle case. Formidabile campo di giochi.

Oggi, dicono, ci sono ancora mine sotterrate sotto i cammini della montagna. Sulla vetta, i croati vi hanno costruito una croce. Là dove vi era la loro artiglieria pesante.

Ma in quegli anni '50 e '60, così lontani, così vicini, la gente dei quartieri festeggiava assieme il bayram dei musulmani, il Natale dei cattolici e quello degli ortodossi. Si andava di casa in casa con i dolci di ogni festa. Comunità.

Hamiza, già più grande, in un altro quartiere, al mattino, nei giorni di estate, si gettava nella Neretva da una roccia conosciuta come Gvozden. Era alta dodici metri. Suo padre si tuffò l’ultima volta che già aveva cinquanta anni. Hamiza sogna, ai suoi anni (‘che sono più di quaranta’), di tuffarsi ancora nelle acque della Neretva. Il fiume ha insegnato la vita ai ragazzi. Dopo questo salta, si passava al volo di rondine dal Vecchio Ponte.

Hamiza nel teatro dei burattini

La Principessa


L'antica sinagoga, oggi, è il teatro dei burattini. Là finisce la nostra passeggiata nella memoria. Spettacolo di mezzogiorno. Per una classe di ragazzini. Djana e Nedzad e i suoi amici muovono i burattini con maestria. La principessa di legno riesce a fare la danza del ventre. I miei occhi non riescono a staccarsi dal suo incanto. Gli artisti sono ostinati: fanno rivivere Mostar. Alcuni sono tornati a vivere in questa città. Si ritagliano spazi, piccoli giardini, luoghi piccoli. Belli e testardi. Aspettano di aprirli. Forse riusciranno ad aprirli.

Non c’è un cinema a Mostar. Qualcuno ha uno schermo ambulante da portare fino a qui? 

Hamiza offre limonata. Felicità dei melograni per la primavera. Fra qualche settimana metteranno i fiori che renderanno una meraviglia Pociteli e Blagaj. Hamiza, l’uomo dei burattini, ci ha donato un passato, niente malinconie stamane. E’ cocciuto e, nonostante le sue parole, non ha dismesso la speranza: guarda i ragazzi che, a sedici anni, leggono Pirandello e si ostinano a metterlo in scena. 

Si ricostruisce di continuo in questa terra. Che le macerie possano diventare una quinta scenografica per una principessa che balla la danza del ventre.
Mostar, 9 aprile

sabato 9 aprile 2011

Primavera a Mostar

Il Vecchio Ponte

Giorni di imprevista primavera a Mostar.  Il bianco della pietra, l’azzurro del cielo. I suoi abitanti si godono le prime notti all’aperto. Città di caffè. Città del tempo che viene guadagnato. Mostar è una città esagerata. Per la sua bellezza. Forse ha memoria quando era terra di ragazzi e ragazza che volevano il loro tempo. Trent'anni fa risalivamo dal mare fino alla sua musica….

Ma poi perché, stasera, la donna dell’osteria mi vuole raccontare che da lì partivano gli uomini per andare sulla linea del fuoco? La frontiera fra Ovest ed Est della città è settecento metri più avanti. Ci si sparava dai due lati del Boulevard. Ancor oggi è confine invisibile. O confine visibile. Guardo lo stemma bombato che la donna ha appeso dietro al piccolo banco del bar. Stemma della Croazia di Erzegovina. Stemma di guerra. Stemma di uno stato che non c’è. Segno di identità. Ho sempre saputo che era lì. Avevo fatto finta di niente. Perchè stasera la donna ha dovuto raccontarmi questa storia? Nessuno ha ancora dimenticato la guerra. Ha scavato nella testa della gente.

Va precisato: Mostar Ovest sono quartieri croati, Mostar Est è il cuore antico, terra bosniaca. Musulmana, se la religione fosse un criterio etnico. Ma cos’è etnia nei Balcani? Provo a far scorrere le foto di decine di famiglie contadine: sfido chiunque a riconoscere un croato, un bosniaco o un serbo.

La chiesa di Rodoc


A Rodoc, quartiere nel nulla, periferia di Mostar Ovest, i cattolici hanno costruito una nuova chiesa bunker. Nel dopoguerra non hanno fatto altro che costruire chiese con cemento armato. Non hanno nemmeno dipinto la finzione di un intonaco. Chiese come segno guerriero. Hanno innalzato il campanile di san Francesco ben più alto dei minareti. Come se si stessero preparando alla guerra prossima ventura. Ho di nuovo in mente Francesco che scavalca le linee dei Crociati e va a parlare con il sultano. Non è lo stesso Francesco della Mostar dei cattolici.

Su una colonna della moschea di Karadjoz-Beg: un corso di calligrafia araba. Finanziato dall’Arabia Saudita. I sauditi muovono i loro soldi. E con loro arriva l'integralismo. La pressione religiosa. Che mal sopporta l'islam tollerante e dolcemente pigro dei Balcani.

La Fiera commerciale di Mostar, il più importante evento economico dell’anno, viene inaugurata dal primo ministro della Croazia. Come se la Fiera di Milano fosse inaugurata dal premier tedesco.

La sede della Fiera è la vecchia fabbrica Soko. Un tempo vi lavoravano tremila persone. Fino al 1992 qui si costruivano aeroplani. Molti sono finiti in Libia e in Iraq. Alcuni sono stati abbattuti in questi giorni nella guerra civile libica. Accanto alla fabbrica, vi è l’eliodromo: negli anni della tragedia balcanica divenne un campo di concentramento e tortura dei nazionalisti croati. Niente e nessuno sembra ricordarlo.

Gioco di bandiere. Mi raccontano che in una caserma non lontano da qui, vi è dipinta la bandiera rosso, bianca e blu della Croazia. Come dire: in caso di guerra, sono già pronti. Ma questa è Bosnia-Erzegovina e la bandiera è blu e gialla. La repubblica serba ha messo in fila il rosso, il blu e il bianco. Girotondo di colori: la vecchia Yugoslavia aveva la bandiera blu, bianca e rossa.

E’ così folle quanto accade lungo le sponde della Neretva, il fiume più bello del mondo, che non vi sono nemmeno le parole per definire cos’è la repubblica serba o la Federazione Croato-Bosniaca. Sono due entità che compongono lo stato di Bosnia-Erzegovina.

Forse gli uomini e le donne che hanno più di cinquant’anni davvero non vogliono più saperne della guerra. Ma allora perché la donna che cucina cevapi, mi ha ricordato che proprio in questa osteria i guerrieri si rifocillavano prima di andare a sparare?  E i ragazzi? Chi la guerra non ha vissuto e sta crescendo nell’ostilità, nella separazione, nell’ignoranza: è come se si stesse allenando per il genocidio prossimo venturo.

Eppure, oggi Mostar era di una bellezza che commuoveva. Scorrono davvero lacrime di felicità e malinconia in questa città.
Mostar, 8 aprile

lunedì 4 aprile 2011

La Libia a pagina 17 dei giornali. San Francesco a Tripoli

La vecchia Tripoli

 Da giorni partecipo a incontri sulla Libia. Troppi. A Milano, a Firenze, a Venezia, a Verona. Incontri affollati, domande naturali: ‘Perché? Perché nessuno ha previsto? Come finirà?’. Quasi un’ossessione. Per me. Mi sto accorgendo come questa guerra abbia scavato dentro di me. Tempo di fermarsi.

L'hotel Corinthia a Tripoli
La guerra è scomparsa dalle prime pagine dei giornali. Diventata routine. Impasse. Gli uomini in armi si fronteggiano nelle città dei terminali petroliferi. Conosco quel territorio. So del suo deserto, della sua desolazione. Si combatte nella desolazione. Misurata, a sentire le cronache, deve essere un deserto di macerie. Le televisioni non ci fanno capire. Via vai di camionette con mitragliatrici montate sopra. Immagini vere e fasulle, allo stesso tempo. Al Sud, in deserto, si osserva con distacco a quando accade sulla sponda del Mediterraneo. Si cerca un lavoro qualsiasi. Magari in Algeria. A Est di Bengasi un amico, al telefono, dice: ‘Venite, non ci sono problemi’.  Conosco i libici. Nessuno, in realtà, ci racconta cosa sta accadendo sul serio in Libia.

I mercati di Tripoli
I profughi eritrei ed etiopici, quelli che per mesi abbiamo, con cattiveria, respinto dalle nostre coste (nessuno che chieda semplicemente scusa), hanno lasciato il compound della chiesa cattolica di San Francesco, nel quartiere di Dhara a Tripoli. Erano oltre duemila. Giovanni Martinelli, vescovo della città, uomo di tutti i dialoghi, è rimasto solo. Con sei confratelli e collaboratori. Ostinati nel testimoniare la sua fede nel futuro. Che altro può fare un prete? Gli eritrei che si erano rifugiati fra le mura della chiesa, alla fine, hanno trovato un barcone per attraversare il mare. Molti sono morti. Di loro non avremo memoria. Settanta, dice il vescovo, sono stati sepolti ieri nel cimitero cristiano di Tripoli. Conosco quel cimitero. Ne conosco la storia e so che storia può raccontare. So cosa significa per un altro vecchio italiano rimasto in quella città. Immagino il suo dolore. Tutte le organizzazioni internazionali hanno abbandonato Tripoli. Se ne vanno sempre. Martinelli è rimasto.

Il gasdotto dell'Eni



Il cimitero di Hamangi a Tripoli
Da due giorni non cadono bombe su Tripoli. Martinelli, uomo solitamente riservato, si è molto esposto in questi giorni. Ha denunciato vittime civili. Ha invocato mediazioni africane. A metà degli anni ’90 fu lui, lavorando con tenacia, ad avviare il cammino di riconciliazione della Libia con il mondo. Fu il Vaticano, nel 1997, il primo paese ‘occidentale’ a riallacciare relazioni diplomatiche con la Libia. Anche oggi, il vescovo crede che la diplomazia possa più della guerra. Ora o mai più, forse. Gli eserciti sono fermi nel loro affanno guerriero. Il massacro di Bengasi è stato evitato. Bisogna evitare quelli futuri. Cos’altro c’è da bombardare in Libia dopo centinaia di raid aerei? Ho letto che accadde lo stesso in Serbia: i comandi militari non sapevano più cosa bombardare. Certo, Gheddafi mai se ne andrà da Tripoli. Ma è davvero il simulacro di un potere. Deve vivere un momento di folle esaltazione. Assaray al-Hamra, Il Castello Rosso di Tripoli, sulla piazza Verde, è un luogo shakesperiano: ben pochi dei pashà o dei dey turchi che abbiano governato la Tripolitania è morto di vecchiaia in un letto. Oggi vi si sta consumando un’ultima tragedia. Quel castello è il simbolo della precarietà del potere. Per quanto feroce possa essere.

Ho due ricordi di Giovanni Martinelli. La prima volta che lo incontrai volle mostrarmi la sua chiesa. Vi è un grande affresco nella navata di destra. Raffigura l’incontro di San Francesco con il sultano al-Malik al Kamil. Avvenne nel 1219, era in corso la quinta crociata. Gesto straordinario di pace. Gesto compiuto contro tutti gli uomini di quella guerra insensata. Fra Francesco e al-Malik nacque un’amicizia destinata a durare tutta la loro vita. Poi Martinelli prese l’auto e mi accompagnò sul lungomare di Tripoli. Era il tramonto. Il vescovo fece un gesto verso l’orizzonte, il profilo della città vecchia risplendeva sul mare: ‘Come è bella, questa città….’.

Padova, 5 aprile

Il vento e la polvere. Attraversare la piana di Dodom

In cammino nella Piana di Dodom

 Scendiamo dal vulcano. Ci incamminiamo all’alba. Una lunga giornata davanti. Tre ore di cammino a ritroso. Adios, Erta Ale. Ritorno al campo base, il pagamento degli scout è operazione lenta e complessa. Passano di mano centinaia e centinaia di birr. Gli autisti hanno fretta. Sanno cosa li aspetta. Non amano la piana di Dodom.

Gli esploratori novecenteschi (Ludovico Nesbitt, il barone Franchetti, ma anche il vulcanologo francese Hazieff) hanno brutti ricordi della piana di Dodom. Nei loro diari parlano solo di fatica, del ‘rischio della lussuria’, della sete che non può essere placata, dei pozzi insabbiati. Si va avanti a capo chino in questa piana. Questa è la stagione del vento e il khamsin ha trovato un campo giochi perfetto nella conca della Dancalia. Solleva e spinge a velocità da follia nuvole e nuvole di polvere. Fango secco e ceneri diventano un tornado. La piana di Dodom sono i chilometri più lunghi e penosi di tutto il viaggio.
Nebbia

Ci sono ombre in questo inferno di polvere. Ci sono villaggi. Ci vivono uomini e donne, qui. Sono ostinati, rassegnati. Non hanno scelta. Un ragazzino dai movimenti andicappati, insensibile al vento, siede su un letto di pelle di capra. Alza la testa verso il cielo, mostra denti aguzzi come farebbe un leone imprigionato da mille catene. Ha movimenti snodati. Rimango a guardarlo con occhi spaventati. Una donna afferra il ragazzo e cerca di trascinarlo verso la capanna. Una tavoletta islamica, incisa di segni arabi, è abbandonata per terra. Come se la scuola coranica si fosse interrotta all’improvviso per la tempesta. Uomini, donne, bambini sono fantasmi polverosi che appaiono e scompaiono a seconda dei turbini del vento. Stanno lì. In piedi, accanto ai recinti delle vacche. Non ne vedo i volti. Sono davvero solo profili scolpiti dalle rotazioni del khamsin. Non si difendono più dal vento. Gli scialli di tela indonesiana non proteggono. Guardano senza paura l’alzarsi di decine di trombe d’aria. Le ciglia e i capelli sono sabbia. Gli occhi sono striati da vene di sangue. Penso alla fortuna di essere nati altrove. Qualche ragazzino agita un bastone per tenere sotto controllo mandrie di vacche che sbandano di continuo. Donne invisibili vanno verso pozze che da qualche parte devono pur essere. I villaggi sorgono là dove c’è acqua. Almeno una speranza di acqua. Niente ha colore, in questo momento. E’ solo sporco. Un polveroso bianco-sporco.

Le vacche della Piana
I paesi della piana sono spettrali. Hanno i nomi del luogo dove sono stati costruiti. Berità è ‘Il recinto delle vacche’. I bambini, appena visibili, azzardano un saluto con un agitare di mano. Non esiste una vera pista. Perdiamo e ritroviamo tracce di altre macchine. Andiamo avanti a zig-zag. Ci infiliamo in una prateria di monticelli erbosi. ‘Cornee paglie, ramoscelli stentati, venti infami’, scriveva Nesbitt. Ci sentiamo come la pallina di un flipper. Aiythroah è ‘Il vecchio posto’. Meno 83 metri sotto il livello del mare. Desolazione assoluta. Nuvola di cavallette. Carcasse di vacche morte di stenti sono disseminate per la piana di fango secco. Sono animali crollati al suolo all’improvviso, senza emettere un solo suono, morti in un istante roteando gli occhi. Gli animali brucano l’impossibile in questa piana. Ecco Argalè, corso di un wadi essiccato e qualche capanna: ‘Il luogo che fa rumore’. Namagubbi, ‘Le due pianure’. Almeno qui c’è una vegetazione incartapecorita. 
Miracolo: la nebbia di polvere si solleva in un lampo. Appare una striscia di pascolo, una pallida prateria, poi il fronte della lava, paesaggio a strisce, linea verde, linea nera. 


L’orizzonte è chiuso dai vulcani. Cambio improvviso di specchio a Dodom, un altro mondo: centinaia di vacche pascolano senza frenesie, ragazzi afar sollevano la testa verso di noi. Cosa è successo? Lo spettacolo è mutato di colpo. Come se davvero avessimo varcato lo specchio 
La raccolta della duma a Waideddu
di Alice. Dancalia che ricerca i colori perduti. E’ come se acque invisibili si raccogliessero contro l’argine insuperabile della lava: sono loro a regalare linfa e vita a sorprendenti praterie. Le macchine fanno lo slalom in una boscaglia di sterpi. Appare perfino uno strano corso d’acqua. Torrente carsici che riappare con la sua immobilità. Due vacche vi camminano dentro con calma. Ecco le palme di Waideddu, ‘il luogo delle gazzelle’. Quasi venti anni fa questo fu il luogo di prigionia di un gruppo di italiani sequestrati da un movimento ribelle afar. Oggi vi si estrae la duma, bevanda alcolica, figlia della fermentazione della linfa delle palme. Poi ci sono le sabbie morte della foce del grande wadi Saba: passaggio difficile per le macchine. Solo quando si raggiunge l’altra sponda, la pietraia che condurrà fino al villaggio di Ahmed Ela, gli autisti tirano il fiato. ‘Finito’, dicono. Il paese dei cavatori del sale è un profilo desolato davanti a noi.

Ahmed Ela, 20 febbraio