mercoledì 30 maggio 2012

Accettura/Le nozze degli alberi sono avvenute....

Il matrimonio è avvenuto. Il cielo si è fatto di tempesta e di sole. Di pioggia e di luce. Gli uomini e le donne sono bagnati. La sposa si è presa tutta l'acqua e tutto il sole. Ha restituito con generosità i suoi doni ai ragazzi che sono saliti fino alla sua altezza. La Cima era splendida e irraggiungibile. Solo il Maggio poteva stare vicino a lei. I ragazzi sono andati a salutarli prima della notte compiendo l'impresa dell'arrampicata muniti solo di una corda. Pantaloni di velluto e maglioni leggeri. Eleganza per un albero. Il Maggio non era perfettamente dritto, dicono i maggiaioli più esperti. In realtà, cercano di nascondere l'orgoglio di  quanto hanno compiuto ancora una volta. Di fronte a San Giuliano e al ricordo dei compagni che non ci sono più questi uomini hanno lacrime negli occhi e scoppiano in pianti a dirotto. A vederli camminare per andare a 'prendere' la statua del Santo sembrano il Quarto Stato in cammino.
I due alberi, il cerro e l'agrifoglio, sono stati lasciati soli nella notte. Illuminati dalle luce delle bancarelle. Della festa. Dei fuochi di artificio. La loro intimità, per la notte di un giorno immenso, è protetta. Ogni tanto andiamo a dare uno sguardo. Come per avere la certezza che è accaduto qualcosa di straordinario.


domenica 27 maggio 2012

Accettura/Lo sposo è arrivato in paese

La sposa, la Cima, l'agrifoglio comincia il suo viaggio verso le nozze


Lo sposo è arrivato in paese. Ha conosciuto la sposa che era già il tramonto. L'agrifoglio era una bella sposa e il cerro se ne è innamorato a prima vista. I ragazzi della Cima, padrini della sposa, hanno festeggiato a loro modo: vino e arrampicate. Gli uomini saggi del Maggio, padrini dello sposo, hanno sfilato con l'orgoglio dei loro buoi. Le luminarie sono state accese in loro onore.


Il viaggio dello sposo, il Maggio, il cerro tirato dai buoi


Vivere un matrimonio è molto più divertente che scriverne o cercare di mettere a posto le troppo foto. Ci vorrà tempo per i racconti. Ci saranno. Fra qualche giorno, immagino.

Le ragazze di Accettura


Stanotte lo sposo dorme nella grande piazza. La sposa è stata alzata in uno slargo poco distante. Domattina, lunedì, cominciano i preparativi delle nozze.
Gli uomini e le donne di Accettura, dopo una giornata di fatica e di viaggio (sposo e sposa hanno percorso chilometri e chilometri per raggiungere il paese), si sono messi in ghingheri e passeggiano per il corso.
Accettura, 27 maggio


sabato 26 maggio 2012

Accettura/Vigilia di Maggio



Il bosco di Montepiano
C’è agitazione in paese. Sul corso, si aspettano gli arrivi. Una ditta calabrese ha già montato le luminarie. Gli inglesi sono già qui. Altri stanno arrivando dalla Germania. In pullman. I parenti e gli amici sono per strada. Telefonano a ripetizione. Avvertono la famiglia al paese. La festa è anche un’attesa. Un ritorno. Il treno da Roma è in ritardo di un’ora e mezza. Si scenderà alla stazione di Grassano. La stessa di Carlo Levi. Tornano i migranti di Accettura: da Notthingam e da Monsummano, soprattutto. Tornano per la Festa, per la devozione al Santo, per il Matrimonio degli Alberi. Tornano per tradizione e per nostalgia inconfessata. Tornano per questo incontrarsi sul corso del paese.

Il Maggio, il grande cerro

L'attesa dello sposo


Lo sposo, il grande cerro abbattuto dieci giorni fa (‘Deve aspettare dieci giorni steso per terra’) è nel bosco. Passiamo a salutarlo. E’ solo. Lo hanno liberato dei rami. La corteccia è stata tolta dalla ceppa. Aspetta. Appare indifferente, ma, in fondo, ha qualche timore. Non ha mai visto la sposa. Sa che lo attendono giorni faticosi.

Nuvolaglie nere battagliano con il sole. Scrosci improvvisi di pioggia. Le previsioni non promettono nulla di buono.




Il Comitato Feste
I 'ricordi' di San Giuliano

Quadri per la Festa



La Pro-Loco inaugura una mostra di pittura. I maggiaioli offrono paste alla ricotta e vino bianco. C’è un pittore americano dal nome tedesco. Frederik. Viene qui da anni. ‘Per il paesaggio’, dice. I pittori accetturesi sono bravi. Uno di loro, seduto su muretto, fa rapidi schizzi. I ragazzi, i procuratori, membri della Procura della Festa, hanno tirato su un baracchino e vendono biglietti della lotteria, penne, un gioco dell’oca, tavolette con il Santo, riproduzioni delle cende, le ‘costruzioni’ di candele, che le donne porteranno in processione l’ultimo giorno del Matrimonio.



Il passaggio dei buoi in paese


Nicola mi racconta di quando se ne andò dal paese. Lo ricorda ancora: 23 gennaio del 1963. Aveva 17 anni. Treno per Zurigo. ‘Arrivai che c’erano 32 gradi sottozero’. Ha lavorato nelle campagne e in fabbrica. Ora vive a Riccione. Anche i figli vivono in Romagna. Hanno buoni lavori. Nicola tiene due buoi al paese. Solo per la Festa. Paga il loro mantenimento. Solo perché, nel giorno di San Giuliano, tirino la croccia, l’albero che farà da paranco nell’innalzamento del Maggio, dal bosco al paese. Da ventidue anni, i buoi di Nicola hanno il loro posto fra le pariglie della croccia. I posti dei buoi sono importanti. Un tempo si faceva a botte per il posto. Oggi, mi assicurano, ognuno ha il suo. Tutti faticano. Saranno almeno sessanta i buoni che dovranno tirare il Maggio e gli altri sette alberi fino alla piccola piazza Bronzini.

I massari passano per il corso. Spingono le loro bestie. Gridano dietro ai loro buoi. Due, quattro grossi animali. Li avvicinano al bosco di Montepiano. I buoi scartano fra le macchine. Si sentono i campanacci e gli ordini bruschi degli uomini.
Accettura, 26 maggio



venerdì 25 maggio 2012

Matera/C'è un papavero sui gradini di casa Ortega


Josè Ortega (da wikipedia)


Lo sguardo di Josè Ortega, pittore e scultore, si impigliò nella rete invisibile di Matera.

Peppino sulla terrazza della casa Ortega
Peppino, ceramista, figlio di avvocato che scelse il mestiere di artigiano, mi guida fino alla ‘casa di Ortega’. Ne sento parlare da anni. Non so bene cosa sia. Ho visto i quadri a tre dimensioni di Ortega e ne sono rimasto affascinato. Finalmente Peppino trova la felice pazienza di accompagnarmi. Il ceramista, da anni, sta decorando la casa.

La casa di Ortega


La casa è ai confini della Civitas, il cuore originario di Matera. La vetta dei crepacci dentro i quali la città si è costruita. Passiamo davanti alla Cattedrale, andiamo verso un quartiere deserto. La casa di Ortega è aggrappata a uno spigolo della roccia. Casa spagnola. Il suo balcone è un serpente che sembra godersi il sole lungo le mura della casa. ‘Non ci sono angoli a novanta gradi – dice Peppino – Questa città ha un’altra geometria, ha altre regole’.

Il papavero sui gradini


Portone, scalinata interna. C’è un papavero sui gradini. Come è arrivato questa pennellata di rossa sull’avorio del ‘tufo’? I lavori nella casa vanno avanti quando si trovano soldi. Peppino vuole stordirci. Apre la finestra di una terrazza. Davanti, sotto, attorno a noi è la gravina, il crepaccio, la Murgia. E’ un paesaggio duro, ha ‘occhi sospettosi’, ha scritto Franco Palumbo. Peppino dice che ha visto un sorriso felice disegnare le mie sensazioni. La luce del sole è bianca. Violenta. ‘Di antica ferocia’,  avrebbe detto Pasolini.



La gravina, la Murgia



La terrazza di casa Ortega


La casa è un gioco di ombre. Peppino è davvero un artigiano. ‘Ho voluto esserlo. Volevo far parte di una comunità. Se avessi deciso di fare l’artista avrei dovuto andarmene. Ma io volevo un dialogo con la gente attorno a me’. Non so se abbia ragione, ma so che ha voluto che i pavimenti di casa Ortega fossero terra e che i soffitti fossero cielo. Le piastrelle della volta delle stanze si illuminano di stelle d’oro non appena alzi lo sguardo.

Le maioliche


Josè Ortega sognava una Casa delle Arti in questo antico palazzo nobiliare. Quando vi arrivò, la casa stava sprofondando. Abbandonata, il tetto crollato, l’ultimo crollo era vicino. Ortega chiamò Peppino. La casa, storia impossibile, venne salvata. Accadeva quasi trent’anni fa. Josè morì a Parigi nel 1990. Rimanese la meraviglia di questo luogo.

La grande sala


‘Ortega cambiò la sua arte qui a Matera. Rimase avvolto dalla bellezza. Poi, nel giorno della festa della Madonna della Bruna, vide il carro di cartapesta attraversare le vie della città. Non ebbe più pace. Conobbe i maestri cartapestai che, ogni anno, lo costruivano. Volle saperne i segreti. Le sue mani si abituarono ai materiali. I suoi quadri divennero tridimensionali. Sperimentò nuove tecniche. La città antica, un mestiere antico fu l’appiglio per un nuovo cammino’.




Dalla finestra di Pietro



Peppino mi chiede: ‘Perché?’. Perché Ortega, Maccari, Pasolini, decine di altri artisti sono rimasti accerchiati da Matera? Peppino ha una risposta inconsapevole: i suoi occhi sui Sassi hanno sempre lo stupore di un bambino. Il paesaggio nel quale è cresciuto lo sorprende a ogni sguardo. Stringe i suoi occhi e vede qualcosa che nemmeno Ortega ha visto. Una città che sorprende i suoi stessi abitanti è un privilegio.



I gradini
Ritorniamo verso la cattedrale. I gradini di Matera. ‘E’ uno dei ritmi della città. Sono stati costruiti per il passo dei muli accompagnati dagli uomini’. I Sassi sono attenzione.
Matera, 25 maggio

martedì 22 maggio 2012

Appunti per un matrimonio fra gli alberi



I ragazzi, alla sera, affaccio sui Sassi


Sto ai bordi di Matera. Incerto se scendere nei Sassi. Oppure prendere la strada opposta. Voltare le spalle alla bellezza. Andare in cerca dell’altra città. Quella che sfugge ai turisti. Quella che i miei occhi stranieri non riusciranno nemmeno a intuire. Matera è magnetica. Corro il rischio felice di rimanere immobile, di non attraversare mai i confini dei Sassi verso l’esterno. Di racchiudere i mie orizzonti fra le pietre bianche di via Ridola. Di non uscire, per molto tempo, dal mio vicinato. Perchè andare in cerca di altro? Non ne avverto il bisogno. E nemmeno, storia ben più seria, la curiosità. Matera, per me, forestiero, è una ragnatela dalla quale non ho alcuna voglia di uscire.

Il corteo della Cima verso lo sposalizio


E allora prendo appunti sul Maggio di Accettura. Si avvicina il giorno del matrimonio degli alberi. Ne avverto l'attesa, un nervosismo tranquillo e nascosto. Lo sposo, disteso in un bosco, aspetta di mettersi in cammino. Gli uomini gli hanno tolto una vita e gliene hanno data un’altra. Lui appare rassegnato. Ha cominciato ad agghindarsi per la festa. Si è tolto di dosso gli abiti della foresta. Adesso ha un eleganza da giorno importante.
Nessuno, tranne un piccolo clan di eletti, ha ancora visto la sposa. La cima, l’agrifoglio del bosco di Cognato-Gallipoli, ha qualche fremito e si chiede se è giusto questo matrimonio con un albero che mai ha conosciuto. Sa che il Maggio è grande, robusto, massiccio, alto. Questo le piace, ma niente sa del suo carattere. Ha emozione l’agrifoglio. E qualche timore che non rivela a nessuno. Forse agli uomini che la sorvegliano.

Si lavora per rendere 'bello' il Maggio


E’ Pasquale, giornalista attento e appassionato, a raccontarmi. Di Angelo, prima di tutto. Angelo Labbate è stato il cantore del Maggio di Accettura. Ha portato nei boschi di Montepiano e Gallipoli gli antropologi. Li ha costretti nell’umido della foresta. Ha creato, per un istante, il corto circuito fra chi osserva e chi partecipa. Gli alberi ne furono contenti. I massari e i contadini ne furono contenti, anche se, rileggendosi nei libri, faticarono a ritrovarsi.

Gli uomini del Maggio

Ancora Pasquale: il matrimonio degli alberi è sempre esistito. Da quando gli uomini apparvero nella foresta e ne videro la potenza e la bellezza. Il matrimonio viene da tempi che nemmeno possiamo immaginare. Dal neolitico, dalla solitudine della protostoria. ‘E, oggi, anno 2012, è ancora lì. C’è ancora. Ogni anno gli alberi si sposano’.

La foresta di Montepiano


Mi dà un consiglio, Pasquale: ‘Vai a vedere i luoghi della festa lontano dai giorni del matrimonio. Quando vi è solo la solitudine in quei boschi. Forse vedrai la luce che filtra attraverso le foglie, le nebbie umide del mattino, avvertirai il freddo, ascolterai rumori. Bisogna passare del tempo nei luoghi del rito senza il rito’. Al paese conosco un fotografo con una folta barba. Antonio mi ha parlato di giorni antichi, di un ragazzo anarchico che morì su un lungarno pisano quaranta anni fa. E' una complicità forte. Imprevista. E' lui il fotografo. So che è stato capace di fotografare le geografie della festa lontano dalla festa. Ne ha raccontato la luce dei giorni di quiete. Ha afferrato le ombre degli alberi. E persino i suoni e i rumori. Lo ha fatto con la macchina fotografica.

La festa. La sposa è arrivata in paese

‘La foresta è fonte della vita. Gli uomini dei boschi hanno sparato per difenderla quando i signori cercarono di recintarla. Ha dato legna alla gente di queste montagne. Si è sacrificata per donare il fuoco, per fondere i metalli, per dare cibo cotto. La festa è dionisiaca. Un sacrificio e un ringraziamento agli alberi. La foresta cammina. Si muove. Gli alberi parlano. Da Macbeth all’albero delle Anime di Avatar. Dal Signore degli Anelli a Robin Hood. Il legno non è immobile. Non è inanimato. Esiste una antropologia del legno?’
Matera, 21 maggio

lunedì 21 maggio 2012

Lucania '61



Lucania 61 a Palazzo Lanfranchi

Nel 1960, per le celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia, Carlo Levi venne incaricato di raccontare, con i suoi pennelli, la ‘sua’ Lucania. Levi lo aveva già fatto con le parole: aveva scritto Cristo si è fermato a Eboli. Fra il 1931 e il 1936 aveva passato cinque anni di confino nei paesi di Grassano e Aliano. Una Lucania lontana.
Trent’anni dopo, Levi, assieme al fotografo Mario Carbone, torna in queste terre. Carbone, calabrese di origine, fu capace di ‘afferrare’ e ritrarre il mondo contadino dei paesi attorno a Matera. La Lucania era ancora lontana. Levi si ispirò a quelle foto. Le trasformò in un affresco dolente e straordinario. Un’elegia per i contadini di questa terra. Una gratitudine per Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta di Tricarico, morto a soli trent’anni.
Il vicesindaco di Rocco Scotellaro a Tricarico

Il vicesindaco di Rocco Scotellaro a Tricarico















Il grande quadro è nella sala d’onore di palazzo Lanfranchi a Matera. Oggi, di fronte al dipinto, vi sono le foto di Mario Carbone. Levi ha ripreso con fedeltà le donne vestite di nero, i bambini laceri, le case-grotta affollate di uomini e animali, i contadini con gli asini…
Il quadro di Levi venne esposto ai padiglioni torinesi dove si svolsero i festeggiamenti per i cento anni dell’Unità d’Italia. Il quadro si chiama: ‘Lucania ‘61’.

Una famiglia di Grassano
Una famiglia di Grassano



Franco è nato nel 1966. Ricorda le facce dei vecchi del paese di suo padre. Riconosce fedeltà del quadro alla realtà di allora. Sono io a chiedere: ‘Non hai timore che questa terra, vista da lontano, vista dal Nord, sia chiusa nello stereotipo del suo passato?’ Il mondo di ieri, il mondo di oggi.

Lo scorso anno, altre celebrazioni dell’Unità italiana, i 150 anni, i materani hanno portato a Torino il carro di cartapesta della Madonna della Bruna. Hanno mostrato la bellezza e la grandiosità della festa più importante della loro città. Cambiano i tempi.

Maddalena in estasi


Adorazione dei pastori

Mi guardo attorno. Apertura serale del museo di palazzo Lanfranchi. Suona il pianoforte, accordi sperimentali, nella lunga sala di ‘Lucania ‘61’. Tableaux vivants dei quadri di Caravaggio, al piano superiore, gli attori di Teatri35 sono straordinari. Per le sale del museo, molti ragazzi mischiati a gente elegante. Si offre vino e taralli. Il suono di un'arpa al primo piano. Musica rock nel chiostro. A mezzanotte suonano, con fracasso, gli Shore. Cosa avrebbero pensato le donne raffigurate da Carlo Levi? C’è un sindaco-poeta capace di narrare le storie contemporanee di questa terra? Sì, credo di sì. Da qualche parte.
Matera, 20 maggio





domenica 20 maggio 2012

Matera, la forza di gravità della bellezza



Dalla 'mia' finestra. Una mattina di inverno
Non so come cominciare questo viaggio a Matera. Sono arrivato due giorni fa. E non trovo parole. Il tempo scorre. Nel sole. Nel bianco delle pietre. Nel saluto di amici che cerco di ricordare. Nel cibo. Nella finestra che si affaccia sulla roccia dell'Idris. E io non so come cominciare. E allora adopero un trucco banale. Riprendo un articolo (ancora una volta non è un post, scusatemi), parole che ho 'dovuto' scrivere per lavoro. Le rileggo con imbarazzo. Forse non  le rileggo. Ma ho bisogno di parole per cominciare. Vorrei usare parole di altri. Ma ora non le trovo. In  cucina stanno preparando fave e piselli. Aspettiamo amici. 


Piazza di San Rocco, forse...


Tornavo a casa ogni sera e mi dicevo che ero fortunato ad avere amici così generosi. Una breve scalinata di pietra e varcavo il confine fra il Piano e il precipizio della Gravina. Passi in discesa. Al buio intuivo la grandiosità di questo canyon che spezza il tavolato della Murgia. Poi, una grande porta in legno, una corte, l’affaccio di una cisterna per le acque piovane, una terrazza che si protende verso il dirupo urbano del Sasso Caveoso. Ecco, avevo Matera davanti agli occhi. Al mattino era la nebbia dell’umidità a farmela osservare attraverso il filtro di una leggera nuvola magica. A sera era come se le luci delle case della città vecchia, lanterne e lampioni dal riflesso d’avorio, si trasformassero in un presepio stellato. Ha ragione chi scrisse, quattro secoli fa, che a Matera ‘il cielo e le stelle si possono vedere al di sotto dei piedi degli uomini e non sulla loro testa’.
Un gradino e la casa dei miei amici sprofonda in una grotta e io, sopra le righe per questo paesaggio di bellezza perfetta, mi illudevo di essere un pastore della contemporaneità. Non era così: la casa aveva ogni comodità e tecnologia. Ma i Sassi di Matera hanno strani effetti sulla mente del viaggiatore che riesca a passarvi alcune notti. ‘I nostri genitori se andarono da queste case mezzo secolo fa – mi spiega, bicchiere di vino in mano, seduto sulla terrazza, il mio ospite - Non sono mai voluti tornare. Erano spersi e smarriti quando furono costretti a lasciare le loro grotte. Erano stati convinti che bisognava fuggire dalla miseria. Non hanno mai più rimesso piede in questa casa. Credo che ne avessero perfino vergogna. Allo stesso tempo, almeno loro, non vollero vendere. E così, noi, i figli, spesso con studi lontano da qui, siamo tornati. Lentamente. Con incertezza. Poi con felicità. Con il pensiero che eravamo gli eredi immeritevoli di chi, con grande sapienza, ha costruito la meraviglia di Matera’.
C’è altro da dire su questa città? Guido Piovene, quasi sessanta anni fa, già scrisse che ‘i Sassi hanno l’attrattiva dell’inverosimile’, luogo unico dell’Occidente europeo, legame inconsapevole e strettissimo con i grandi centri delle civiltà rupestri: la magnificenza di Petra, le città del sottosuolo della Cappadocia, gli insediamenti trogloditici del Nordafrica e del Medio Oriente. Matera, lontana dal mare, è Mediterraneo. Frontiera di un mondo di pietra.

La bellezza


Città notturna, Matera. Attorno, in queste ore solitarie, vi è solo il silenzio. Un ritmo inascoltabile altrove. Assieme a Venezia (sono davvero le sole due città al mondo che ha senso definire ‘uniche’), i Sassi di Matera sono un’orchestra che non ha bisogno di spartito. Sono città (di acqua, di roccia, di luci, di ombre) costruite con le voci che nessun rumore fa scomparire. Ci si chiama di terrazza in terrazza a Matera. Nella stagione degli amori, si sentono i gatti fare le fusa lungo le rampe del Sasso Barisano. Si riescono ad ascoltare perfino i baci dei ragazzi affacciati al belvedere di via Ridola. I passi di chi scende per vicoli sono un tip-tap che rallenta a ogni scalino malconcio. Chi sale, invece, fa un controcanto con  il suo respiro che cerca di non mostrare affanni. Matera è, forse, la città più scoscesa del mondo. Una città-anfiteatro. Con una acustica perfetta. Ma, all’alba, non sono i rumori a svegliarti, ma la luce della Murgia. Le case-grotta sono state costruite per costringere ogni raggio di sole a impigliarsi nelle piccole finestre.

I pass nella notte

  
Parola chiave è la nostalgia. L’archeologa Bruna Brunello vive a Siena. Lontano dalla sua Matera da più di dieci anni. Ma ci torna ogni volta che può. L’amore non se ne vuole andare. Volevo saperne di più della sua città e lei cominciò a raccontarmi dei filoni dei ragazzi della scuola. I Sassi, nella sua adolescenza, erano il rifugio perfetto delle fughe dalle lezioni. Mi scrisse che nei suoi occhi e nei suoi sensi ci sono ancora i ciddari, le mescite del vino dove, con antichi sistemi, fra ‘600 e ‘700, si pigiavano le uve. Matera sapeva ubriacarsi. La scrittrice materana Mariolina Venezia racconta (in ‘Mille anni che sto qui’) di ragazzi che avevano scelto una casa di Sasso Caveoso come nascondiglio: ‘un intrico di stanze e stanzette, di antichi saloni e stalle, di grotte e cantine’. E, da una finestra, ‘si vedevano le rocce a strapiombo sulla Gravina che diventavano rosa con la luce del tramonto’. Proprio i ragazzi, per primi, riscoprirono i Sassi dopo il loro abbandono. E quelle pietre, maledette nel dopoguerra, inchiodate dalle pagine di Carlo Levi (in Cristo si è fermato a Eboli) a una spettrale ‘aria cupa e cattiva’, furono la gioia disabitata di una generazione di giovani materani. Terreno di giochi e dei primi amori. Per loro quei Sassi, abbandonati per decenni, sono una memoria festosa e incancellabile. Ma, forse, c’è di più: oggi a Matera si torna a vivere. Da qui, da questo Sud, i giovani non se ne vogliono andare. Anzi: arrivano nuovi cittadini. Dall’Europa, dall’America, ma anche da più vicino. Guardate i censimenti: la città cresce, la città che, mezzo secolo fa, rischiava di spopolarsi, ha ritrovato abitanti. Qui si fanno bambini convinti che vivranno bene. E pensate: non è città facile da raggiungere, Matera è il solo capoluogo di provincia italiano dove il treno non è mai arrivato.
Un poeta, Antonio Colandrea, mi sorprese con  parole che erano un semplice, bellissimo elenco di quanto si poteva vedere guardando verso la via dei Fiorentini, la strada che taglia il Sasso Barisano: ‘tufi, tetti di tegole, terrazze, terrapieni, tumuli, giardini pensili, grondaie, guglie, campanili, cenobi, comignoli, cenotafi, chiuditoi, rampe, rincorsi di vicoli, recinti, rosoni….’. Lo scultore Roberto Di Trani mi portò in giro ad ammirare i comignoli e le prese d’aria delle case di Matera: erano capolavori, si trasformavano e diventavano soli, nodi, figure antropomorfe, intrecci labirintici. Mi spiegò Roberto: ‘Questa città è stata costruita da pastori-manovali che sapevano e amavano fare le cose bene’. E poi sarei rimasto ore ad ascoltare il libraio Giovanni Moliterni: ‘A Matera si è contagiati dalla lentezza e da una pigrizia priva di sensi di colpa’. Puoi desiderare altro? La libreria di Giovanni è proprio sul confine di uno dei dirupi della città. Adele Caputo, insegnante e cantante dei Terragnora, straordinario gruppo musicale materano, ha scelto di vivere a Matera. E’ arrivata dalla vicina Puglia. ‘La bellezza è la forza di gravità di questa città – cerca di spiegare – Non riesci a immaginare di poter vivere altrove. Ne vieni continuamente attratto. Anche chi se ne è andato, conserva un legame fortissimo’. Matera è magnetica.

Pietre


Ancora Piovene: ‘Sembra che Matera si affacci a un sottosuolo scoperchiato’. E’ costruita sul vuoto. I suoi abitanti hanno sfidato le leggi dell’architettura e dell’urbanistica. Le strade selciate, i giardini, le terrazze, un pavimento, una scalinata sono il tetto delle case sottostanti. Grondaie e canali hanno imbrigliato le acque di ogni pioggia e le hanno dirette verso una geografia sotterranea di cisterne. I Sassi sono una città verticale che si aggrappa agli speroni rocciosi di un doppio canyon con cerchi concentrici capaci di aggrovigliarsi uno all’altro. E’ un labirinto, la città invisibile (la Matera delle grotte si nasconde dietro un fantastico sipario di case). Gli ipogei sono collegati fra di loro da un reticolo di gallerie. A volte sono almeno dieci i piani di grotte e case sovrapposti. Matera è rupestre e, allo stesso tempo, solare. Negli anni ’50, quando cominciò la diserzione dei suoi abitanti, nei Sassi, come li aveva chiamati un geografo arabo, vivevano almeno quindicimila persone. Furono censite, nei trenta ettari della sua estensione, 2997 case. 1641 erano troglodite. Gli antichi muratori di questo angolo di Lucania non alzavano pareti, ma scavavano grotte nella calcarenite, roccia tenera e gentile. Matera, recita ogni dèpliant turistico, ha l’orgoglio di essere sempre stata abitata. Dall’età del Bronzo ai giorni nostri. Vi è chi azzarda che questa è la sola città ‘dove gli abitanti possono dire di vivere nelle stesse case dei loro avi di novemila anni prima’. E non è una frase campata per aria.
L’urbanistica di Matera appare caotica e, invece, è democratica, ugualitaria: nessuna costruzione, nessun lamione (gli ambienti esterni che prolungano la casa-grotta) ostruisce, agli occhi del vicino, il panorama verso la Gravina. Era solidale, Matera. Quasi un condominio conviviale: il vicinato era un modo di vivere assieme. Gli uomini amavano questi rifugi nella roccia.. Nel 1200, sullo sperone di roccia che divide i baratri del Sasso Caveoso e del Sasso Barisano, venne costruita una cattedrale imponente: questo è il quartiere della civita, l’acropoli della città, inespugnabile fortezza alla quale, da pochi mesi, anche le auto hanno dovuto cedere gli spazi che avevano occupato. I materani sono consapevoli della bellezza della loro città.  


Il Musma


Il medioevo di Matera fu grandioso. Gli architetti del sacro non hanno perso occasione di costruire chiese su chiese. Mistici cenobi rupestri e  superbe basiliche barocche. Il culto della Madonna ha moltiplicato i luoghi santi della città. Giorno infinito, il 2 luglio, quando otto muli trasportano la Madonna della Bruna su un incredibile carro di cartapesta. Una processione di fede e di ritualità antica. Quando a sera, la Madonna verrà ricondotta al Duomo, il carro sarà distrutto dall’assalto della folla: ogni materano sogna di conservarne un pezzo nella propria casa.   
Gli equilibri del mondo rurale si spezzano nell’800. La città-ragnatela comincia a collassare su sé stessa. Smarrisce la sua economia pastorale. Viene scartata dalla modernità. Fu una discesa agli inferi. Matera, nel dopoguerra, divenne il teatro della miseria priva di riscatto, della povertà estrema. Fu un cambio di scena brutale: i discendenti di una grande storia, erano diventati contadini miserabili. Le grotte, oramai, erano tuguri osceni. Matera, negli anni ’50, venne dichiarata ‘vergogna nazionale’. Si scrissero leggi speciali per sfollare i suoi abitanti, per costruire un’altra città. Si costrinse la gente dei Sassi ad abbandonare case inabitabili. Fra il 1952 e il 1967, la città sospesa si svuotò. Fu l’ultimo grande esodo urbano avvenuto in Europa. Le grotte vennero murate per impedire che qualcuno provasse nuovamente a viverci.  La vecchia Matera si sgretolava. Rischiò davvero di scomparire. Furono davvero i ragazzi che filavano la scuola a eleggere la città in rovina a loro nascondiglio. Pier Paolo Pasolini, nel 1964, venne fino a qui per girare uno dei suoi film più belli e rimase incantato da un sole ‘ferocemente antico’. Matera si ribellò al suo destino. La bellezza non volle essere cancellata. Nel 1993, in un paradosso della sorte, la ‘vergogna nazionale’ divenne ‘patrimonio dell’umanità’. E cominciò un testardo lavoro di restauro. Ironia dei tempi: fu la borghesia meridionalista a sostituire i cafoni. I nuovi cavernicoli sono avvocati, medici, architetti, artisti. Lentamente, ma inesorabilmente, è arrivato, nel bene e nel male, il business del turismo. Alberghi di lusso, B&B snob, i ciddari  vengono occupati da pub e ristoranti. Ma nascono felici storie di turismo responsabile. Lo scorso anno oltre duecentomila turisti si sono affacciati al belvedere di piazza Vittorio Veneto per ammirare i Sassi. Quale sarà l’equilibrio possibile del nuovo millennio per Matera?

La notte, Matera


Ma ora è ancora notte. Guardo l’incastro di case del Sasso Caveoso. Penso che questa è una città di giovani. Qui conosco artisti, musicisti, fotografi, scultori, cartapestai, ceramisti, orafi, pittori. Ho incontrato bravi cuochi, nuovi contadini, intellettuali, organizzatori culturali. Ho visitato il Musma, orgoglioso museo di arte contemporanea. Esco di casa, seguo l’istinto dei passi. Mi faccio guidare dalla musica. Scopro che i fiati e gli archi dei jazzisti dell’Onyx, storico club materano, accompagnano i viaggi di un intelligente turismo attraverso i vicoli e le praterie della Murgia. Mi faccio condurre dal ritmo di una chitarra, di tamburelli e organetti. Vibra il cupa-cupa, strano strumento di queste terre. I bassi scuotono l’anima. A Matera, a volte, il silenzio si riempie di musiche. Alla fine ci troviamo a ballare la tarantella all’osteria Malatesta, un’altra frontiera fra Piano e precipizi. Musica in libertà dei Terragnora. Provate, se ci riuscite, a tener ferme gambe e cuore. Questi ragazzi amano il loro Sud. E sanno farlo amare. Come vorrei che un vecchio pastore risalisse ora da un vicolo dei Sassi e si affacciasse nell’osteria. Un patto fra storie diverse. Fra chi se ne andò da questa città di pietra e chi vi è tornato. Ecco, il pastore tira fuori un’armonica e si unisce alla musica. Fuori le luci delle case dei Sassi. E’ vero, a Matera il cielo di stelle è in basso.
Matera, 20 maggio