venerdì 23 luglio 2010

Calcio a Mostar





Calcio

Ogni mattina passo davanti al club degli Ultras croati. E’ il bar dei tifosi del Zrinjski, la squadra di Mostar Ovest. Ha l’aria ‘tosta’, questo club. Ragazzi con magliette nere aderenti, occhiali scuri, faccia da duri. Adesivi con croce celtica. Un murale feroce: un tipo dalla testa pelata che sventola una bandiera bianco-crociata. Davanti al club, una moschea. Sempre chiusa, ma ben restaurata. Non vi ho mai visto un solo fedele. Qualcuno ha disegnato una croce uncinata sul cancello dell’ingresso. Musica hard dal club. Nome da nazionalisti di cultura, Zrinjski: Nikola Subic Zrinjski, generale croato, erede di una famiglia feudale, morì, nel 1566, nella difesa di Szigetvar, città ungherese, contro gli eserciti di Solimano, il Magnifico. Fort Alamo croato: duemila soldati cattolici contro oltre centomila musulmani. Raffinatezza da politici chiamare la squadra con il nome di un eroe nazionale croato. ‘Siamo di destra’, dice un ultra. ‘A little bit’, precisa.

Alla fine dell’800, erano più espliciti i notabili croati di Mostar che scelsero per la loro squadra di calcio il none di Hrvatski sokol, ‘il Falco Croato’. Glielo proibirono. Il Zrinjski risorse negli anni dello stato fascista di Croazia. Per scomparire con la Jugoslavia di Tito. Il calcio, nei Balcani, è politica. Nuova resurrezione del Zrinjski sotto i due campanili di Medjugorie nel 1992. C’è la Herceg-Bosnia croata e vi è bisogno di simboli. Per questo rinasce la squadra di calcio. Non c’è campionato, va a giocare in Croazia e fa trasferte in Germania e Canadà. L’antico eroe, sconfitto e  ucciso dai Turchi, si trasforma in un centravanti.

La guerra finisce. Lo stadio della Collina Bianca rimane nella geografia croata di Mostar. Nemmeno a pensarci che possa essere restituito a quelli del Velez, la vecchia e gloriosa squadra di Mostar. Che loro giochino nei campetti delle campagne musulmane. Il Zrinjski si impossessa dello stadio. Due squadre nella città. Al diavolo gli slogan del Velez: ‘Unità’ e ‘Mostar nel cuore, Velez fino alla tomba’. La separazione della città divide anche e soprattutto le sue pulsioni calcistiche. I tifosi si organizzano per il derby come se fosse una battaglia. ‘Aspettiamo solo quel giorno’, dice un tifoso del Zrinjski. Con eccitazione, immagino. Si schiera l’esercito quando Velez e Zrinjski si sfidano. I croati, leggo nell’albo, hanno vinto scudetti nel nuovo campionato della Bosnia-Erzegovina.

Mi consigliano di girare alla larga dal club. Mi spiegano che quelli non amano le facce che non conoscono. Non è così: ci entriamo a prendere un caffé. Tutto qui. Non vado in cerca di guai e non chiedo caffé turco. Dopo un paio di giorni ho fatto l’abitudine a quell’affresco minaccioso, agli adesivi con le croce celtiche, alla musica dai bassi violenti. A notte, un comando automatico, accende le luci della moschea deserta. I ragazzi del bar fanno finta di niente. Ci sono linguaggi espliciti che si confrontano nell’anima di Mostar.

Segni di identità
In qualche modo si impara gli automatismi di un confronto silenzioso. Questa strada che percorro ogni matti, la via fra Didaka Buntica, attraversa, senza segni apparenti, il confine fra la Mostar croata e quella musulmana. Le scritte sui muri sono un segno. Il coraggio spudorato di chi le scrive si vede dai metri conquistati. I tifosi del Velez, i Red Army, l’Armata Rossa, si avvicinano più che possono al club degli Ultras. La scrittura dei loro slogan è nervosa, veloce, un po’ spaventata. C’è paura in questo scrivere a un passo dal nemico. Vi è paura dietro l’odio delle tue tifoserie.





martedì 6 luglio 2010

Cellulari



Abitiamo in tre nella stessa casa. La nostra vicina coltiva un grande orto. Come molti, qui a Mostar. Abitudine contadina e strategia di sopravvivenza dei tempi duri.
Tutti e tre abbiamo un cellulare e una sim ‘locale’. Comprata, casualmente, in differenti negozi. 
Abbiamo fatto un errore. Stefania ha una sim croata. Mario una sim bosniaca. Io, non so come, ho una sim serba. Difficile da trovare a Mostar dove, dopo la guerra, quasi non ci sono più serbi. Siamo nella stessa cucina, sediamo nello stesso salottino, passeggiamo nello stesso orto. Eppure quando dobbiamo chiamarci per telefono è roaming internazionale. Ma se io devo chiamare qualcuno a Belgrado, faccio una chiamata nazionale. Divisione etnica delle frequenze.

Segni di Identità. La religione è un segno di identità? Ci sono bandiere della Herceg Bosna, uno stemma bombato, simbolo, nei tempi della guerra, della repubblica autoproclamata dei croati di Bosnia, che sventolano dai campanili. Drappi serbi sono su chiese ortodosse. I musulmani, a volte, mettono le loro bandiere sulle torri dell’orologio fatte costruire dai turchi. In Erzegovina bisogna essere veloci a riconoscere i segni dell’identità

domenica 4 luglio 2010

La croce del monte Hum


La nostra casa è a Mostar Ovest. La strada è dedicata a fra Didaka Buntica, un francescano. ‘Grande patriota', lo descrivono così i siti croati. Predicava con spada e croce agli inizi del ‘900. Appare nella vittimologia francescana. E’ morto di  polmonite. Solo nella Mostar croata, a due passi dalla chiesa-fortilizio di san Pietro e Paolo, potevano dedicare una strada a fra Didaka. Toponomastica della divisione.
Siamo ai piedi del monte Hum. Un quartiere di una certa eleganza. Case con orti e giardini. Ville di professionisti (un medico, un dentista, un notaio). Case nuove e rovine di vecchie palazzine.
Dalla porta della nostra casa, si vede la cima del monte Hum. Da lassù si domina la stretta valle di Mostar. Hanno alzato una grande croce sulla  vetta. Posso immaginare chi sia stato. E’ alta trenta metri. E’ 'fosforescente': si illumina di neon non appena tramonta il sole. Si vede di notte. Si vede da qualunque angolo di Mostar. Che la vedano tutti, insomma. Che la vedano soprattutto i musulmani di Mostar Est. Che ricordi loro che da lassù erano tenuti sotto tiro dalle artigliere croate. Un bel segno di pace.
La via delle armi e della guerra del monte Hum è stata trasformata in una Via Crucis. Al Venerdì Santo, raccontano, lungo questa strada sale una processione. Giorno di morte per un luogo che ha conosciuto bene il sangue e la violenza. Si sparava e si moriva sul monte Hum: a cento metri dalla croce ci sono le tombe di quattro soldati croati. Dal loro rifugio si ammirava, dalla punta di un fucile, lo Stari Most, il Vecchio Ponte di Mostar.
Alla decima stazione della Via Crucis c’è un cartello rosso. Un teschio e ossa incrociate: ‘Attenzione mine’.

Segni di identità. Un grande viale, il boulevar, separa, come una frontiera non dichiarata, l’occidente di Mostar (croato) e il suo oriente (musulmano). La città nuova e la città vecchia. Era la prima linea dell’assedio. Molti palazzi, a quindici anni dalla fine della guerra, sono incrinati di colpi di mitragliatrice. Mi dicono che questo stradone ha un doppio nome: ‘Via dei difensori croati’ o ‘Via della rivoluzione popolare’. A seconda del lato della strada dove abiti, indossi una identità.   

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sabato 3 luglio 2010

Lingua


Andiamo in Bosnia-Erzegovina per scrivere un libro. Quanto scriveremo non verrà tradotto in serbo-croato. Perché questa lingua, mi dicono, non esiste più. A Livno, il vecchio professor Stipe ha insegnato per oltre trent’anni il serbo-croato. Lo stesso ha fatto, a Mostar, il professor Vaso. Stipe, se dobbiamo definirci, è croato. Vaso è serbo. Hanno insegnato, nella loro lunga vita, la stessa lingua. ‘Non vi è alcuna differenza’, mi spiegano entrambi. Vecchie signore si fermano a salutare con deferenza gli anziani professori di una lingua che non c’è più. Ci sono tre lingue ‘ufficiali’ al suo posto: il croato, il serbo e il bosniaco. Qualcuno sostiene che siano già quattro: all’università di Podgorica spiegano che il montenegrino è una lingua. Mi piace lo scrittore Miljenko Ergovic: si considera 'fortunato', è diventato uno scrittore multilingue.

Sono tutte uguali queste lingue. Vero è che i serbi utilizzano l’alfabeto cirillico (chi ha trent’anni oggi ha fatto in tempo a studiarlo nelle classi elementari della Jugoslavia). Il bosniaco, poi, chissà che cos’è. Alle frontiere, i doganieri ti salutano alla stessa maniera. Eppure, se entri in un bar devi stare attento a dove ti trovi prima di chiedere un caffè: kafa, se sei a Mostar Est. Kahva  se entri nel club degli ultras croati a Mostar Ovest. Devi conoscere le differenze in questa terra. Ci saranno trenta parole di differenze fra questi dialetti. In Dalmazia, allora, parlano un’altra lingua. I linguisti delle diverse fazioni lavorano sulle differenze: devono essere approfondite, accentuate, incise con un coltello più pericoloso di un rasoio. Il serbo-croato (il croato? Il bosniaco? Il serbo?) è una lingua slava. Eppure, Amina, famiglia musulmana, irriconoscibile come tale (è alta, bionda, niente velo, camicette attillate, a volte minigonna), è costretta a stare attenta a come parla in classe: il suo liceo è nella parte croata di Mostar. Raccontano che in un parco della città, un banda di buontemponi grandi e grossi chiese a dei ragazzini che lingua parlassero: mai fare l’errore di dire che si parla bosniaco. I ragazzini non sanno che qui si parlava (e si parla ancora) il serbo-croato. Non l’avrebbero scampata nemmeno se avessero detto di parlare questa lingua scomparsa negli anni ’90 del secolo scorso. Sono stati malmenati. Non giocheranno più nei giardini, lindi e ben curati, dell’elegante Mostar Ovest. Quartiere dove, a dar retta ai buontemponi, si parla solo il ‘croato’.

Le cooperazioni sono tremolanti: piuttosto che dire che una lingua c’è, preferiscono non utilizzarla. Si scrive un libro di storie erzegovinesi, ma non può essere scritto in una lingua che non sai più come definire. Ha perso perfino il nome. La nostra interprete si difende malamente: ‘Parliamo una lingua locale’. Lei è musulmana, ma, stando attenta a come parlava, ha frequentato un liceo croato. Sua madre le ha insegnato che nei luoghi pubblici di Mostar Ovest si parla una lingua, a casa, un’altra.

Segni di identità. Tempo di matrimoni in Erzegovina. Sventolano bandiere sulla prima macchina del corteo nuziale. Clacson, suv tirati a lucido, strascichi, pance strizzate in abiti sottomisura. E la bandiera croata o serba a sventolare come se si andasse a un derby di calcio. I bosniaci ne hanno due: bianca con il giglio blu, se sono ‘duri e puri’, è la bandiera dei tempi di guerra. Solo gialla e blu, se sono ‘bosniaci democratici’. In Erzegovina, si fa fatica a trovare le parole per ‘definire’.

2. Passaggio di frontiera
La differenza si osserva a Imotski. Frontiera fra Croazia e Bosnia-Erzegovina. L’autista (bosniaco) mi avverte: ‘I croati vogliono far vedere che controllano. I bosniaci se ne fregano’. E’ la differenza fra l’Occidente e l’Oriente. La dogana croata è sfrontata. Un’esibizione di supremazia. Più valichi, sfoggio di potenza, lusso, quasi grandiosità, superiorità. Niente fuori posto. ‘Noi siamo la modernità’, spiega la Croazia.
Cento metri. Sotto la pioggia. Due doganieri bosniaci sono asserragliati in un gabbiotto. Non c’è posto per entrambi. Grosse sardine strizzate in una scatoletta. Uno controlla il traffico in entrata, l’altro in uscita. E’ una frontiera sgangherata. Come se stessimo lasciando il primo mondo per entrare nel sottosviluppo. L’agente di confine fa un gesto con la mano. Si disinteressa di noi.