Mausoleo di Menelik |
Il mausoleo di
Menelik II°
Ho una strana passione per questo luogo. Vengo qui perché
c’è un pezzo della storia del ‘900 d’Etiopia. Forse vengo qui per le tartarughe
che vedo sempre immobili nel prato davanti al mausoleo. E’ un luogo tranquillo.
Non riesce a essere imponente. Scivolo davanti alla corte dei mendicanti. C’è
sempre un vecchio prete che apre la porta della chiesa e poi solleva la lastra di
metallo, invisibile sotto i tappeti, che nasconde la cripta sotterranea. Bisogna chinarsi per scendere.
L’odore dell’incenso è fortissimo. Il prete, Tekle Mariam, non sa niente. Non
sa rispondere alle curiosità. Da quanto tempo sei qui, Tekle? O, forse, non
faccio le domande giuste. Si limita ad indicare i tre grandi sarcofaghi di
marmo. Menelik, Taytu, Zawditu. C’è anche la figlia di Hailè Selassiè.
L’Etiopia degli imperatori. Qui hanno accatastato, in disordine confuso, i segni della gloria: troni,
tamburi, ombrelli da cerimonia. Tekle si fa fotografare e poi tira fuori da un
cassetto il foglietto delle ricevute. Trenta birr. Poco più di un euro.
Menelik II |
Il prete Tekle davanti al sarcofago di Menelik |
Hailè Selassié
Dovrei esserci abituato. L’ultimo Negus era un autocrate. Il 'modernizzatore' dell'Etiopia, imperatore per diritto divino e usurpazione, era un uomo ‘moderno’ e spietato. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Eppure vi è una sorta di venerazione non ufficiale
nei suoi confronti. E’ quasi un santino che appare in ogni angolo. E’ una
storia lontana. Invecchiata. Eppure c’è qualcosa che non può essere detto.
Quando furono ritrovate le sue ossa, sepolte sotto il pavimento di una latrina dell’ufficio del
suo assassino, il colonnello Hailè Mariam Menghistu, il governo non arrischiò
un funerale. Dovevano passare nove anni prima della cerimonia funebre. L’ultimo
Negus è stato sepolto nella chiesa della Trinità. Il primo ministro Melles
Zenawi sarà sepolto nel cimitero della stessa chiesa. L'imperatore feudale e l'uomo, il ribelle tigrino, radicale e filo-albanese in gioventù, che abbattè la tirannia comunista di Menghistu.
Globalizzazione di
Addis Abeba
Sorrido asciugandomi le mani al club greco con una
macchinetta importata dall’Illinois.
La demolizione di Arat Kilo |
Nel traffico di Kazanchis |
La demolizione di Arat Kilo |
La nuova Kazanchis |
Cantieri di Addis
Abeba
Da anni, Addis è un cantiere. La modernità è il cemento. Il
suo prezzo si è quasi dimezzato. Ora l'Etiopia produce cemento. Da anni, non si fa altro che costruire.
Abbattere e costruire. Le impalcature sono ragnatele di pali in legno. Uomini
aerei vi stanno in equilibrio. Le donne portano sopra le spalle casse di
mattoni. ‘Il cemento è lo sviluppo. Qua non piace il naturale. Vogliono solo cemento. Dipinto, se possibile’, mi dice
un osservatore attento della frenesia edilizia di questa città. Le case della
vecchia Addis Abeba avevano attenzione agli spazi della natura. Oggi, i nuovi
costruttori non vogliono lasciare un solo centimetro libero. A Kazanchis hanno
abbattuto le antiche case italiane. E’ sorta una foresta di palazzi in
vetrocemento. Le finestre dell’hotel Jupiter danno sul muro del grattacielo a
fianco. I finestroni delle nuove ville si affacciano sul muro di cinta della
casa.
Donne sulle impalcature |
Taxi notturno di Addis Abeba
Commetto un errore inevitabile. Mi fido del taxista. Devo
tornare a Rwanda, la mia strada di riferimento. Un amico spiega al taxista. Lui
annuisce. Trattiamo sui soldi. 100 birr, poco meno di cinque euro. Il taxista
non sa dove è Rwanda. Non conosce i cantieri che spezzano la città. Prendiamo
due, tre, quattro strade che finiscono in voragini. ‘No problem’, è tutto
quello che dice. Sbattiamo contro barricate, aggiriamo da Sud la zona di Bole.
Ci perdiamo in strade campestri dentro la città. Addis Abeba è deserta di
notte. Il taxista è cocciuto: ‘This is Rwanda’. Ma non lo è. Riprovo: ‘Malawi embassy’.
Così si danno gli indirizzi ad Addis. Si cercano punti cardinali: un albergo,
un’ambasciata, un ristorante. La vecchia Fiat millecinquecento, dalla porta
bloccata, si ferma. Non riparte. Un ragazzo ci dà una mano a spingere, altri
ragazzi si avvicinano. Birre in mano. Mi devo preoccupare? Ridono e i loro
denti sono un chiarore nella notte. Arriva un’altra macchina. Si offre di
guidarci fino all’ambasciata del Malawi. Dobbiamo spingere, prima. Il taxi
riparte. Arrivo, finalmente, davanti al cancello nero. Fine dell’avventura
notturna. Ci prova lo stesso: ‘More fifty birr’. Non dico niente, scendo.
Nemmeno lui protesta. Ci ha provato. Fa manovra con la macchina. Suona con il
clacson. Il guardiano apre il cancello.
Addis Abeba, 16 novembre
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