martedì 4 giugno 2013

Un giorno devi andare




Jasmine gioca malamente a calcio in quello spiazzo ritagliato fra le baracche della ‘favela delle palafitte’. Ma è capace di segnare un gol con un tiraccio da femmina. E’ capace di attraversare i vicoli fetidi delle favelas guidando, con dei piatti d’ottone, la corsa dei bambini. Ritrova un sorriso, Jasmine: accanto ai bambini, nello sfiorare la pelle di Joao, fra le donne della comunità. Ma non c’è un happy-end. Non c’è un lieto, non si esce consolati dall’ultimo film di Giorgio Diritti. Già, ‘Un giorno devi andare’. E Jasmine si è messa in cammno. Non mi riesce chiamarla Augusta, il suo nome nel film, anche se immagino le ragioni di questa scelta: Augusto è un missionario a suo modo celebre in quelle terre.

Un matrimonio finito, un figlio che non è nato, un padre che non c’è più, una madre racchiusa nel silenzio. Jasmine raggiunge suor Franca, sorella di San Romedio in Trentino, terra di missionari, nell’immensità della Amazzonia. Là dove tutto è davvero grande, sconfinato, violento, bellissimo, terribile. Vagano di villaggio in villaggio, le due donne. Sul battello Itinerante. Ma gli occhi di Jasmine sono perduti. Non riesce a sorridere nemmeno ai bambini. Suor Franca sa cosa è giusto: ha ascoltato la voce di Dio ed è partita. Ma non si è posta domande, Franca. Non si è chiesta se davvero la gente del fiume cercasse il suo stesso Dio o se preferisse mangiarsi i polli invece che le loro uova. Le due donne sono cacciate da un villaggio che si è convertito a una setta cristiana. Franca non si arrende, è sicura che Dio sia al suo fianco. E’ una ‘professionista dello spirito’. La chiesa nella foresta è stata costruita con i soldi di chi vuole metter su un albergo di lusso nella giungla e i missionari non si interrogano. Dicono solo: ‘Prima di evangelizzarli, avremmo dovuto dare loro un cervello’. No, Jasmine non può più viaggiare con Franca. Non ha le sue certezze. Non cerca sicurezze, Jasmine. Non vuole carità. Non ha una missione da svolgere. Scende dalla barca. Ne prende un’altra, viaggia fino a Manaus. Si addentra fra i vicoli di palafitta della favela. Cerca, Jasmine.

C’è la ricerca della ragazza. C’è la solitudine della madre fra le nevi del Trentino. C’è un colloquio via skype straziante, nella sua lontananza, fra la madre e Jasmine. L’illusione della vicinanza quando i corpi sono mille miglia lontano. E le parole non bastano. E anche le anime non si avvicinano. E’ lacerante il contrasto fra le nevi di San Romedio e il sole umido di Manaus.

Giorgio Diritti non ce la racconta tutta. Questa storia è ‘sua’. Non si va fino in Amazzonia per raccontare questa storia. Non si sceglie Jasmine come attrice dei silenzi se non c’è qualcosa dentro che non ci vuoi dire, ma che si intuisce. C’è emozione, la tua emozione, in questo film.


Nella favelas la telecamera corre, si avvicina, sembra viva. Si sente il cuore battere. Nel saliscendi 
terribile della vita. Ci sono i bambini, c’è il giovane che sogna di ballare in Italia, ci sono le donne, c’è il gioco, c’è una condivisione che a Jasmine, senza illusioni, appare vera. Gli occhi di Jasmine ritrovano una luce, la sua bocca afferra nuovamente il sorriso. Lotta, la ragazza. Il senso della vita appare a portata di mano. Non tornerà in Italia. Almeno per ora, voglio credere. Non è ancora il tempo.

Ma la vita non ha mai un ‘buon finale’. Non esiste un happy end. Questo film assomiglia alla vita, non ha consolazioni da offrire. Esistono mille finali. Ogni giorno c’è un finale diverso. Un bambino della favela, l’amico di Jasmine, viene venduto ai trafficanti di corpi. I politici vogliono distruggere la favela. Un’alluvione la inonda di rifiuti. Le case vengono portate via dal fiume. Joao tradisce la comunità. Ma esiste questa comunità? Una radio di quartiere cerca di infondere uno spirito di resistenza. Ma il giornalista è solo nella sua casa. Joao ha davvero tradito? Era davvero possibile un dialogo, o un amore, fra i due giovani? Jasmine è sola. Straniera. Troppo alte le sue ambizioni? Troppo forti le sue speranze? Ora è il tempo della pioggia e del silenzio. L’ultimo quarto d’ora del film è solo silenzio. E rumore della natura. Una canoa, la tempesta, una spiaggia bianchissima. Jasmine alza una tenda precaria, offre il suo corpo alla violenza del sole e della pioggia. Cerca, cerca ancora. In questa totale solitudine. Un pescatore le porta, ogni tanto, del pesce e delle banane. La solitudine, assoluta. Un giorno, un bambino appare sulla spiaggia. Si guardano. Con qualche diffidenza si avvicinano. Poi giocano, corrono, volano assieme. Jasmine sorride. Sorride. Ed è capace di salutare il bambino quando la famiglia di pescatori arriva a cercarlo. La canoa se ne va. Jasmine rimane sulla spiaggia. Rannicchia le ginocchia contro il petto. La telecamera si allontana. Jasmine è lì.


Cosa accade dopo i titoli di coda?

Li lascio scorrere tutti. Cerco un appiglio. Non c’è alcun gancio da afferrare prima che la luce si riaccenda nella sala. Non c’è che andare. Anche Jasmine si alzerà e muoverà i remi della sua canoa. Non ci sono scorciatoie.

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