E' un diario che prende la rincorsa del ritardo. Ma i giorni sono fatica e bellezza. Scrivo mentre suonano musiche che fanno muovere gambe stanchissime. La mia panchina di pietra. I vecchi che mi guardano senza cambiare espressione. La luce dei lampioni arrossa i volti e riflette sulle pietre bianche della piazza di Rotonda. Metto questa storia che viola tutte le regole dei blog. Senza foto, troppe parole, cerco il modo di raccontare di alberi e di uomini. Ma ora vado a 'ballare'. So che la ragazza dirà: 'Ma come balli male'. Questa è la storia del terzo giorno della festa di Rotonda. L'albero comincia il suo viaggio verso il paese.
Sono sempre sorpreso quando ascolto lo struscìo dei miei
passi sopra le pietre di Rotonda. Sono giorni di festa. Ma il paese, al mattino
presto, appare deserto e nelle ore della notte. Nessuno va al lavoro? Le scuole
sono già chiuse? Nessuno tira tardi nelle chiacchiere della sera? Alle dieci i
bar hanno già abbassato le saracinesche. In piazza ci sono solo due uomini
dall’aria dubbiosa. Certo, dimentico che mezzo paese è agli accampamenti nei
prati di Pedarreto. Ho voglia di salire a quelle praterie.
Cammino in silenzio. Mi godo l’aria bella della mattina. Una
donna, in vestaglia, spazza davanti al portone di case. Qui si esce di casa in
pigiama. Il paese è un luogo familiare e intimo.
Risalgo ai boschi di Pizzalonga. Passo per l’accampamento
dei paesani. Qualche brace già ricomincia a fumare alle otto del mattino. I
fuochi non devono spengersi. I ragazzi cercano di scrollarsi di dosso la
stanchezza di un’altra notte quasi senza sonno. Sono infreddoliti. Stanno in
piedi un po’ curvi. Le mani in tasca. La testa ancora confusa. Felici delle ore
passate.
Nel bosco, nella radura in cui la pitu ha trascorso il suo primo tempo da albero caduto, è già al
lavoro una pattuglia di uomini. Sono il gruppo dell’abete. La gente della chioppa. Hanno i sensi ben svegli.
Questa mattina devono lavorare di fino e di eleganza. L’albero non sa ancora
che sta per diventare il vero protagonista della festa. La pitu è destinata a diventare la carrozza reale di un corteo
trionfale. E’ la zucca di Cenerentola. L’albero è l’ospite di onore, l’attore
principale dei giorni santi di Rotonda. La pitu
è l’anima dei boschi aggraziata dal lavoro degli uomini. Nel legno ci sono i
folletti che proteggono le notti di Rotonda. Gli uomini, con le loro grida, mi
ricordano che mi sbaglio: questa festa è per Sant’Antonio. ‘E…e….e…viva Sant’Antonio’
Gli uomini hanno cura dell’albero che loro stessi hanno
abbattuto. Questa mattina devono scavare la punta della pitu perché vi si possa incastrare la ualanedda, la stanga della carrozza. Bisogna sistemarla nell’albero.
E’ un lavoro di abilità ed esperienza: l’albero deve viaggiare per oltre venti
chilometri tirato dagli strattoni di diciassette pariglie di buoi. La ualanedda deve essere un lavoro ben
fatto. Nicola, Michele e Carletto prendono la guida silenziosa dei lavori. Qui
bisogna tagliare con l’esattezza dei millimetri e con motoseghe che, se si è
sbadati, possono fare a pezzi il tronco. Ci vuole attenzione. Sono gli occhi e
le parole dei vecchi a guidare il lavoro degli uomini dalle pance forti, le
mani ad artiglio e la delicatezza di un chirurgo. Si discute per minuti su una
scaglia di legno da togliere e sulle misure dell’incavo che dovrà ospitare la ualanedda. I ragazzi, chini a fianco del
tronco, guidano, con gesti della mano, le manovre di chi impugna le motoseghe.
Comincio a conoscere gli uomini che stanno attorno
all’albero. I Forte, ad esempio. Tre uomini. Il più giovane ha settanta anni.
Il più anziano ottantacinque. Nicola ne ha settantanove e fa il caporale del
gruppo dell’albero. ‘Siamo di razza alla festa’, mi sussurra Antonio, l’uomo
degli ottantacinque. Ha un cappelletto alla Jovanotti (o meglio: Jovanotti ha
un cappelletto come un manovale dei boschi), il fisico esile, le rughe a
tessere un viso sorridente e la sigaretta sempre in bocca. I Forte sono diversi
dagli altri uomini della foresta: sono magri, tutti e tre. Il loro nonno era
caporale della pitu settanta anni fa.
Anche il loro padre doveva esserlo, ma non ne sono sicuro. Hanno fatto i
muratori. ‘Generazioni di muratori’, ricorda Mario, il più giovane, quindici
anni di Svizzera a costruir case. Nicola si appoggia a un bastone. Dice poche
parole. Quasi dei sussurri. Non hanno voce di tuono, i Forte. Nicola sembra
comandare con gli occhi. Mi dicono che sono due dei suoi figli a maneggiare con
sapere le motoseghe. Nicola sta sempre un passo indietro, controlla con
attenzione antica. Si appoggia a un bastone. Ha un’aria mite. Il comando
‘esecutivo’ è affidato a Carletto, il vicecapo, cinquantasei anni, gruista in
Svizzera, il miracolato della festa, l’uomo che, da ragazzo, fu rialzato da una
paralisi dall’intercessione sacra di Sant’Antonio.
Saverio ha vent’anni. E i suoi capelli si alzano in una onda.
Vanno per alto. Intuisco la sua passione. E la dedizione alla festa. Lavora
duramente. Sposta legni, accorre dove vi è bisogno, da una mano in ogni modo. E’
sempre pronto. Cosa provi in questi
giorni? Mi sento sempre sciocco quando mi ritrovo sulle labbra questa domanda.
‘Emozione’, risponde Saverio. E guardo i suoi occhi che osservano l’albero. So
che se, fra venti anni, nei giorni della festa, ripasserò di qui lo troverò
attorno all’albero. Sta vicino agli anziani. Impara, Saverio. Sta imparando.
Non smetterà di lavorare fino all’ultimo minuto. E’ del gruppo degli uomini
che, chini sull’albero, mani sul tronco, piedi a sostenere un corpo che fa da
puntello, controllerà la traiettoria della discesa della pitu.
Guardo il lavoro degli uomini. Hanno discussioni, ma non
incertezze. ‘Che ti avevo detto. Ti mangio un’orecchia’, dice Michele quando ha
la prova di aver avuto ragione in una divergenza di lavoro. Gli uomini ridono
di gusto. Si costruiscono i cunei-incastro che devono bloccare la ualanedda. I movimenti delle asce sono
sicuri. Ci sono ferri che vengono usati solo nei giorni della festa. Vi sono
incisi i marchi del fabbro e del proprietario. La scure di Michele fu forgiata
da Pasquale Cocciari in Abruzzo. Fabbro degli anni ’50. Ascia per squadrare.
Lama da 22 centimetri, filo d’acciaio. Adatta per squadrare tronchi. ‘Qui
facevamo le traverse per i binari’, mi ricorda Michele. Il fabbro ha inciso un
sole, segno beneaugurante, sulla lama. Questi attrezzi hanno storia. Sono
importanti i dettagli di questa festa. Gli uomini colpiscono con il calcio
della scure per incastrare il cuneo. Michele e Carletto manovrano, in sintonia,
le asce. Non sbagliano un colpo. Sono un pendolo. I legni si incuneano nel foro
dove hanno sistemato la stanga. A occhi profani questo sembra un lavoro solo di
fatica e forza. Lo è, ma è necessario esperienza, precisione, misurazioni esatte
al millimetro. Qui si è minuziosi.
Quasi orologiai del monte Pollino. Ci vorranno tre ore per incastrare la ualanedda nella pitu. Non hanno fretta gli uomini. Da questo lavoro dipende il
successo del trasporto dell’albero.
Alla fine si concedono la colazione: salami paesani,
prosciutto, formaggi. Si taglia il pane con coltelli a serramanico. Si beve
vino. Alcuni rifiutano, vogliono conservare la loro attenzione intatta. Sanno
quanto è lunga la giornata. Il cibo è sistemato su un banchino attorno a un
albero. Si mangia con piacere.
Metà mattinata. Ridiscendo per il bosco in fretta. Torno a
Pedarreto. I ualani, i mandriani, si stanno
contendendo i posti nel corteo trionfale. I buoi più alti staranno a ridosso
dell’albero, aggiogati alla ualanedda,
luogo di onore e di fatica. Tocca a loro dare lo strattone più forte. I più
piccoli, invece, avranno la testa della sfilata. Diciassette pariglie di buoi.
Animali superbi. Quasi trent’anni fa, un mandriano si mise a cercare i buoi più
grandi d’Italia proprio per essere sicuro di avere il primo posto davanti
all’albero. Risalì la penisola, arrivò fino in val di Chiana e guardò,
ammirato, lo splendore dei chianini al pascolo. Non esitò: se ne portò in
Pollino una coppia e fece le sue prove. Certo, avevano zampe fragili ed erano
abituati alle pianure, inadatti alla montagna, ma erano animali splendidi e
forti. E altissimi. Quasi due metri di altezza al garrese. Non erano animali da
lavoro, la loro carne era celebre per le bistecche, ma quelle bestie avrebbero
conquistato il posto più importante del
corteo, quello vicino all’albero. Divenne un mestiere dei paesi del Pollino
salire in Toscana, comprare vitelli di chianina e farli crescere in questa
montagna. I buoi protestarono, ma, alla fine, si abituarono alla nuove
geografia. Mi dicono che il fitto della coppia più alta può raggiungere i
cinquemila euro. Quelli che stanno in seconda posizione arrivano a
tremilacinquecento euro. La festa è anche una storia di economia. La fede e il
sacro hanno un costo. Sono sacrificio vero. I chianini vengono usati solo per
le feste. Solo per questa festa.
A Pedarreto si stanno misurado i buoi. Il vigile di Rotonda,
con aria sorniona e apparentemente disattenta, impugna una stecca metrata. Immagino
che sia il vigile del paese da decenni. Mestiere difficile. Tonino, un uomo
piccolo e magro, un fazzoletto rosso al collo, ha il foglio dei conteggi. Ci
sta scritto sopra: ‘Misurazione delle pariglie’. Tonino, maestro di sci di
fondo, ha una cartelletta con tutti i dati delle feste del passato. I ualani devono allineare le bestie in un
rettangolo rosso disegnato sull’asfalto della strada, le zampe dell’animale devono
stare in parallelo. La schiena ben dritta. Si misura al garrese. Non è facile
convincere le bestie. I più alti si ribellano. Sono sfrontati con quella loro
aria lontana. Il vigile prova a poggiare il livello della stecca sulla curva
della schiena e l’animale, maligno e divertito, scarta di un passo. Si
ricomincia. Ci vuole pazienza. Merda di vacca attorno ai nostri piedi. Ma non
si muove nessuno. Questa è operazione importante nella gerarchia della festa. Il
posto nel corteo viene deciso dai millimetri. Si litiga sull’altezza. Si deve
fare anche la media della statura della coppia dei buoi. Si controlla con
diffidenza le manovre del vigile. Che deve inforcare gli occhiali per leggere
il metro. Il bue più alto è due metri e quattro centimetri. Si misurano anche i
millimetri sul serio. Sei millimetri. E’ altissimo, ma il suo compagno di
pariglia sta sotto i due metri. Tonino fa le divisioni su un foglietto. Qui si
usa la penna e non le calcolatrici. Per un centimetro vince un’altra coppia. Questa
volta non ci sono stati battibecchi. Qualche occhiataccia, sì. Qualche mormorio
insoddisfatto. Il vigile, sotto i suoi baffi, non ha mai cambiato espressione.
Il viaggio comincia dopo il pranzo. Questa volta si sale in
molti a Pizzalonga. Salgono i mandriani. Salgono i paesani. A famiglie, a
gruppi. Processione dei boschi. Ecco che arrivano i baffoni. Biagio, Vincenzo e Mario. Conosco i loro volti e la loro
mole. Mi dicono che Saverio, il quarto fratello, è morto anni fa:‘Lui era la
tradizione della festa’. Il padre aveva i baffi, anche il nonno li avrà avuti e
loro se li toccano con orgoglio, e fanno un sorriso insospettabile. Biagio ha
baffi asburgici e occhi che diventano felici quando ride.
Salgono i buoi, vengono allineati nel cammino del bosco. Il
cielo si ingrigisce di colpo. Sibili di freddo. Fa impressione il tiro dei
buoi. E’ da meraviglia. E’ regale. Appaiono
le stanghe che si attaccano una all’altra con un ramo-gancio. Corteo
lunghissimo. Ragazzi hanno in mano le pannule,
i legni-leva che dovranno controllare la traiettoria dell’albero. Possono
frenarlo, dirigerne la corsa, indirizzare il taglio di una curva lungo la
strada che porta al paese. E’ il gruppo della Terribbila a impugnare le pannule. A loro toccherà cercare di
evitare che la pitu finisca fuori
strada. Dovranno impedire che la coda dell’albero deragli. Tenere sotto
controllo i suoi scarti nelle curve a tornante.
E’ uno spettacolo vedere muoversi i buoi. Un fischio e loro
si muovono torcendo i muscoli del collo e puntando gli zoccoli a terra. Scatto
improvviso, rovistiò di animali, urla degli uomini, bastoni che mulinano
nell’aria, mani che stringono corde, passi che si fanno veloci. Il corteo ha la
sua coreografia. Si scende per il bosco, si sfiorano alberi, si affonda nel
fango, ci si apre quasi a ventaglio in una radura. L’albero sembra
impantanarsi. Come se non volesse scendere. Gli spiriti dei boschi cercano di
trattenerlo. La forza dei buoi e degli uomini lo smuove da ogni incastro
impossibile. Io non so quanta strada vi è da fare, ma questi uomini sì. E non
si sconfortano. Il viaggio è destinato a durante un giorno e mezzo. C’è un
lavoro da fare. Facciamolo. A ogni difficoltà scatta un grido: ‘E…e…e…viva Sant’Antonio’, ci si da forza
urlando a crocchio in onore del Santo. Prima di ogni ripartenza si canta la canzoncina (così dicono gli uomini), inno
sacro al Santo. E’ questa la colonna sonora della discesa. Sì, qui manca la
musica. Non ci sono organetti o tamburelli. Si viaggia con le grida dei
mandriani, lo strisciare del tronco, i campanacci dei buoi e la loro protesta a
muggiti. Un fischio, lanciato fra l’aria di due dita, fa muovere all’istante
gli animali.
Si scivola nel bosco, viaggio in foresta, foglie di
primavera sono la volta che onora il corteo dei buoi. Si segue il tracciato di
una carrareccia. L’albero si impunta, scavalca dossi, si obliqua nelle curve,
sbatte contro le rocce. In un grande prato incrocia il gruppo sceso delle
altitudini del Pollino, la gente della Rocca, i roccaioli. Loro hanno portato giù, con fatica immensa, l’abete, la cima
dell’albero che sarà innalzato davanti al municipio. I due alberi, il faggio
(che avrebbe voluto essere abete) e il vero abete si sfiorano, si guardano con
curiosità, sanno che dovranno innestarsi uno con l’altro. Un matrimonio del
Pollino.
Alla fine, ho la sorpresa degli ultimi metri del viaggio di
questo pomeriggio. L’ultimo tratto prima dei prati di Pedarreto è una sorta di
scivolo. Cento metri a capofitto nel bosco. Si deve mollare l’albero in una
discesa a precipizio. Guardo gli uomini con apprensione e stupore. Fanno
manovre che preparano la sfida a un pericolo. Hanno staccato i buoi, ora ruotano
il tronco, lo fanno oscillare in un quasi-vuoto, la punta del legno sta a
mezz’aria, dirigono il tronco verso il basso, cercano di controllare la caduta,
hanno muscoli tesi e braccia fortissime. Mi cacciano al riparo di un albero. La
pitu prende velocità, si frena nel
fogliame, riacquista ebbrezza, scivola con impazienza. Gli uomini riescono a
controllarne il volo. Lo fanno rallentare, ne guidano il percorso, il tronco attraversa
due rocce, atterra nella radura. Si prende fiato. Respiri profondi. E’ andata….Questo
era il rischio dell’oggi. Ostacolo scavalcato. ‘E….e….e…Viva Sant’Antonio’. Oggi la fatica è finita, il tronco sta
sul sentiero da dove dovrà ripartire. Donne appaiono con i cesti dei biscotti e
i bicchieri del vino. La festa è una storia semplice. Un grande viaggio, il
cibo per ricompensa e aiuto e, dagli anni del cristianesimo, il canto come
preghiera al Santo. E’ così da secoli.
La mia notte è di stanchezza. Chiudo gli occhi. Le gambe si
ribellano a ogni movimento. Mi scaldo al fuoco degli accampamenti di Pedarreto.
Mangio pasta e pancetta arrostita. Pezzi di grasso morsicati con voglia. Vino bianco
e buono. Poi rosso e forte. Non dico una parola. Non ne ho la forza. Mi sembra
che anche gli uomini attorno al tavolo siano silenziosi. C’è un’aria di strana
malinconia: è l’ultima notte degli accampamenti. Domani la festa comincia la
discesa dalla montagna. Al prossimo buio non si dormirà nei boschi. Ci sarà il comodo, ma non la libertà. Tardi
nella notte ci sono i fuochi di artificio. Mi dicono che è un paesano a donarli
alla festa. Esplodono nel cielo. Li osservo mentre scendo. Non ce l’ho fatta ad
aspettare il loro spettacolo. Il sonno mi trascina verso il paese deserto.
Sento i miei passi sulle pietre. La chiave nella porta. La notte, anche dai
vicoli di Rotonda, ha il tuono dei fuochi che illuminano la montagna. Tengo la
finestra aperta per farmi accompagnare nel sonno dal riflesso di un cielo che
si accende con le stelle dei fuochi.
Terzo giorno della festa di Rotonda, terra di Lucania, pianeta Terra.
Nessun commento:
Posta un commento