giovedì 13 giugno 2013

Appunti quasi pubblici per i giorni di Rotonda/Comincia il lungo viaggio della pitu, il faggio che vorrebbe essere abete

E' un diario che prende la rincorsa del ritardo. Ma i giorni sono fatica e bellezza. Scrivo mentre suonano musiche che fanno muovere gambe stanchissime. La mia panchina di pietra. I vecchi che mi guardano senza cambiare espressione. La luce dei lampioni arrossa i volti e riflette sulle pietre bianche della piazza di Rotonda. Metto questa storia che viola tutte le regole dei blog. Senza foto, troppe parole, cerco il modo di raccontare di alberi e di uomini. Ma ora vado a 'ballare'. So che la ragazza dirà: 'Ma come balli male'. Questa è la storia del terzo giorno della festa di Rotonda. L'albero comincia il suo viaggio verso il paese. 

Sono sempre sorpreso quando ascolto lo struscìo dei miei passi sopra le pietre di Rotonda. Sono giorni di festa. Ma il paese, al mattino presto, appare deserto e nelle ore della notte. Nessuno va al lavoro? Le scuole sono già chiuse? Nessuno tira tardi nelle chiacchiere della sera? Alle dieci i bar hanno già abbassato le saracinesche. In piazza ci sono solo due uomini dall’aria dubbiosa. Certo, dimentico che mezzo paese è agli accampamenti nei prati di Pedarreto. Ho voglia di salire a quelle praterie.
Cammino in silenzio. Mi godo l’aria bella della mattina. Una donna, in vestaglia, spazza davanti al portone di case. Qui si esce di casa in pigiama. Il paese è un luogo familiare e intimo.

Risalgo ai boschi di Pizzalonga. Passo per l’accampamento dei paesani. Qualche brace già ricomincia a fumare alle otto del mattino. I fuochi non devono spengersi. I ragazzi cercano di scrollarsi di dosso la stanchezza di un’altra notte quasi senza sonno. Sono infreddoliti. Stanno in piedi un po’ curvi. Le mani in tasca. La testa ancora confusa. Felici delle ore passate.
Nel bosco, nella radura in cui la pitu ha trascorso il suo primo tempo da albero caduto, è già al lavoro una pattuglia di uomini. Sono il gruppo dell’abete. La gente della chioppa. Hanno i sensi ben svegli. Questa mattina devono lavorare di fino e di eleganza. L’albero non sa ancora che sta per diventare il vero protagonista della festa. La pitu è destinata a diventare la carrozza reale di un corteo trionfale. E’ la zucca di Cenerentola. L’albero è l’ospite di onore, l’attore principale dei giorni santi di Rotonda. La pitu è l’anima dei boschi aggraziata dal lavoro degli uomini. Nel legno ci sono i folletti che proteggono le notti di Rotonda. Gli uomini, con le loro grida, mi ricordano che mi sbaglio: questa festa è per Sant’Antonio. ‘E…e….e…viva Sant’Antonio

Gli uomini hanno cura dell’albero che loro stessi hanno abbattuto. Questa mattina devono scavare la punta della pitu perché vi si possa incastrare la ualanedda, la stanga della carrozza. Bisogna sistemarla nell’albero. E’ un lavoro di abilità ed esperienza: l’albero deve viaggiare per oltre venti chilometri tirato dagli strattoni di diciassette pariglie di buoi. La ualanedda deve essere un lavoro ben fatto. Nicola, Michele e Carletto prendono la guida silenziosa dei lavori. Qui bisogna tagliare con l’esattezza dei millimetri e con motoseghe che, se si è sbadati, possono fare a pezzi il tronco. Ci vuole attenzione. Sono gli occhi e le parole dei vecchi a guidare il lavoro degli uomini dalle pance forti, le mani ad artiglio e la delicatezza di un chirurgo. Si discute per minuti su una scaglia di legno da togliere e sulle misure dell’incavo che dovrà ospitare la ualanedda. I ragazzi, chini a fianco del tronco, guidano, con gesti della mano, le manovre di chi impugna le motoseghe.

Comincio a conoscere gli uomini che stanno attorno all’albero. I Forte, ad esempio. Tre uomini. Il più giovane ha settanta anni. Il più anziano ottantacinque. Nicola ne ha settantanove e fa il caporale del gruppo dell’albero. ‘Siamo di razza alla festa’, mi sussurra Antonio, l’uomo degli ottantacinque. Ha un cappelletto alla Jovanotti (o meglio: Jovanotti ha un cappelletto come un manovale dei boschi), il fisico esile, le rughe a tessere un viso sorridente e la sigaretta sempre in bocca. I Forte sono diversi dagli altri uomini della foresta: sono magri, tutti e tre. Il loro nonno era caporale della pitu settanta anni fa. Anche il loro padre doveva esserlo, ma non ne sono sicuro. Hanno fatto i muratori. ‘Generazioni di muratori’, ricorda Mario, il più giovane, quindici anni di Svizzera a costruir case. Nicola si appoggia a un bastone. Dice poche parole. Quasi dei sussurri. Non hanno voce di tuono, i Forte. Nicola sembra comandare con gli occhi. Mi dicono che sono due dei suoi figli a maneggiare con sapere le motoseghe. Nicola sta sempre un passo indietro, controlla con attenzione antica. Si appoggia a un bastone. Ha un’aria mite. Il comando ‘esecutivo’ è affidato a Carletto, il vicecapo, cinquantasei anni, gruista in Svizzera, il miracolato della festa, l’uomo che, da ragazzo, fu rialzato da una paralisi dall’intercessione sacra di Sant’Antonio.

Saverio ha vent’anni. E i suoi capelli si alzano in una onda. Vanno per alto. Intuisco la sua passione. E la dedizione alla festa. Lavora duramente. Sposta legni, accorre dove vi è bisogno, da una mano in ogni modo. E’ sempre pronto. Cosa provi in questi giorni? Mi sento sempre sciocco quando mi ritrovo sulle labbra questa domanda. ‘Emozione’, risponde Saverio. E guardo i suoi occhi che osservano l’albero. So che se, fra venti anni, nei giorni della festa, ripasserò di qui lo troverò attorno all’albero. Sta vicino agli anziani. Impara, Saverio. Sta imparando. Non smetterà di lavorare fino all’ultimo minuto. E’ del gruppo degli uomini che, chini sull’albero, mani sul tronco, piedi a sostenere un corpo che fa da puntello, controllerà la traiettoria della discesa della pitu.

Guardo il lavoro degli uomini. Hanno discussioni, ma non incertezze. ‘Che ti avevo detto. Ti mangio un’orecchia’, dice Michele quando ha la prova di aver avuto ragione in una divergenza di lavoro. Gli uomini ridono di gusto. Si costruiscono i cunei-incastro che devono bloccare la ualanedda. I movimenti delle asce sono sicuri. Ci sono ferri che vengono usati solo nei giorni della festa. Vi sono incisi i marchi del fabbro e del proprietario. La scure di Michele fu forgiata da Pasquale Cocciari in Abruzzo. Fabbro degli anni ’50. Ascia per squadrare. Lama da 22 centimetri, filo d’acciaio. Adatta per squadrare tronchi. ‘Qui facevamo le traverse per i binari’, mi ricorda Michele. Il fabbro ha inciso un sole, segno beneaugurante, sulla lama. Questi attrezzi hanno storia. Sono importanti i dettagli di questa festa. Gli uomini colpiscono con il calcio della scure per incastrare il cuneo. Michele e Carletto manovrano, in sintonia, le asce. Non sbagliano un colpo. Sono un pendolo. I legni si incuneano nel foro dove hanno sistemato la stanga. A occhi profani questo sembra un lavoro solo di fatica e forza. Lo è, ma è necessario esperienza, precisione, misurazioni esatte al millimetro. Qui si è minuziosi. Quasi orologiai del monte Pollino. Ci vorranno tre ore per incastrare la ualanedda nella pitu. Non hanno fretta gli uomini. Da questo lavoro dipende il successo del trasporto dell’albero.
Alla fine si concedono la colazione: salami paesani, prosciutto, formaggi. Si taglia il pane con coltelli a serramanico. Si beve vino. Alcuni rifiutano, vogliono conservare la loro attenzione intatta. Sanno quanto è lunga la giornata. Il cibo è sistemato su un banchino attorno a un albero. Si mangia con piacere.

Metà mattinata. Ridiscendo per il bosco in fretta. Torno a Pedarreto. I ualani, i mandriani, si stanno contendendo i posti nel corteo trionfale. I buoi più alti staranno a ridosso dell’albero, aggiogati alla ualanedda, luogo di onore e di fatica. Tocca a loro dare lo strattone più forte. I più piccoli, invece, avranno la testa della sfilata. Diciassette pariglie di buoi. Animali superbi. Quasi trent’anni fa, un mandriano si mise a cercare i buoi più grandi d’Italia proprio per essere sicuro di avere il primo posto davanti all’albero. Risalì la penisola, arrivò fino in val di Chiana e guardò, ammirato, lo splendore dei chianini al pascolo. Non esitò: se ne portò in Pollino una coppia e fece le sue prove. Certo, avevano zampe fragili ed erano abituati alle pianure, inadatti alla montagna, ma erano animali splendidi e forti. E altissimi. Quasi due metri di altezza al garrese. Non erano animali da lavoro, la loro carne era celebre per le bistecche, ma quelle bestie avrebbero conquistato il  posto più importante del corteo, quello vicino all’albero. Divenne un mestiere dei paesi del Pollino salire in Toscana, comprare vitelli di chianina e farli crescere in questa montagna. I buoi protestarono, ma, alla fine, si abituarono alla nuove geografia. Mi dicono che il fitto della coppia più alta può raggiungere i cinquemila euro. Quelli che stanno in seconda posizione arrivano a tremilacinquecento euro. La festa è anche una storia di economia. La fede e il sacro hanno un costo. Sono sacrificio vero. I chianini vengono usati solo per le feste. Solo per questa festa.

A Pedarreto si stanno misurado i buoi. Il vigile di Rotonda, con aria sorniona e apparentemente disattenta, impugna una stecca metrata. Immagino che sia il vigile del paese da decenni. Mestiere difficile. Tonino, un uomo piccolo e magro, un fazzoletto rosso al collo, ha il foglio dei conteggi. Ci sta scritto sopra: ‘Misurazione delle pariglie’. Tonino, maestro di sci di fondo, ha una cartelletta con tutti i dati delle feste del passato. I ualani devono allineare le bestie in un rettangolo rosso disegnato sull’asfalto della strada, le zampe dell’animale devono stare in parallelo. La schiena ben dritta. Si misura al garrese. Non è facile convincere le bestie. I più alti si ribellano. Sono sfrontati con quella loro aria lontana. Il vigile prova a poggiare il livello della stecca sulla curva della schiena e l’animale, maligno e divertito, scarta di un passo. Si ricomincia. Ci vuole pazienza. Merda di vacca attorno ai nostri piedi. Ma non si muove nessuno. Questa è operazione importante nella gerarchia della festa. Il posto nel corteo viene deciso dai millimetri. Si litiga sull’altezza. Si deve fare anche la media della statura della coppia dei buoi. Si controlla con diffidenza le manovre del vigile. Che deve inforcare gli occhiali per leggere il metro. Il bue più alto è due metri e quattro centimetri. Si misurano anche i millimetri sul serio. Sei millimetri. E’ altissimo, ma il suo compagno di pariglia sta sotto i due metri. Tonino fa le divisioni su un foglietto. Qui si usa la penna e non le calcolatrici. Per un centimetro vince un’altra coppia. Questa volta non ci sono stati battibecchi. Qualche occhiataccia, sì. Qualche mormorio insoddisfatto. Il vigile, sotto i suoi baffi, non ha mai cambiato espressione.

Il viaggio comincia dopo il pranzo. Questa volta si sale in molti a Pizzalonga. Salgono i mandriani. Salgono i paesani. A famiglie, a gruppi. Processione dei boschi. Ecco che arrivano i baffoni. Biagio, Vincenzo e Mario. Conosco i loro volti e la loro mole. Mi dicono che Saverio, il quarto fratello, è morto anni fa:‘Lui era la tradizione della festa’. Il padre aveva i baffi, anche il nonno li avrà avuti e loro se li toccano con orgoglio, e fanno un sorriso insospettabile. Biagio ha baffi asburgici e occhi che diventano felici quando ride.
Salgono i buoi, vengono allineati nel cammino del bosco. Il cielo si ingrigisce di colpo. Sibili di freddo. Fa impressione il tiro dei buoi. E’ da meraviglia. E’ regale. Appaiono le stanghe che si attaccano una all’altra con un ramo-gancio. Corteo lunghissimo. Ragazzi hanno in mano le pannule, i legni-leva che dovranno controllare la traiettoria dell’albero. Possono frenarlo, dirigerne la corsa, indirizzare il taglio di una curva lungo la strada che porta al paese. E’ il gruppo della Terribbila a impugnare le pannule. A loro toccherà cercare di evitare che la pitu finisca fuori strada. Dovranno impedire che la coda dell’albero deragli. Tenere sotto controllo i suoi scarti nelle curve a tornante.

E’ uno spettacolo vedere muoversi i buoi. Un fischio e loro si muovono torcendo i muscoli del collo e puntando gli zoccoli a terra. Scatto improvviso, rovistiò di animali, urla degli uomini, bastoni che mulinano nell’aria, mani che stringono corde, passi che si fanno veloci. Il corteo ha la sua coreografia. Si scende per il bosco, si sfiorano alberi, si affonda nel fango, ci si apre quasi a ventaglio in una radura. L’albero sembra impantanarsi. Come se non volesse scendere. Gli spiriti dei boschi cercano di trattenerlo. La forza dei buoi e degli uomini lo smuove da ogni incastro impossibile. Io non so quanta strada vi è da fare, ma questi uomini sì. E non si sconfortano. Il viaggio è destinato a durante un giorno e mezzo. C’è un lavoro da fare. Facciamolo. A ogni difficoltà scatta un grido: ‘E…e…e…viva Sant’Antonio’, ci si da forza urlando a crocchio in onore del Santo. Prima di ogni ripartenza si canta la canzoncina (così dicono gli uomini), inno sacro al Santo. E’ questa la colonna sonora della discesa. Sì, qui manca la musica. Non ci sono organetti o tamburelli. Si viaggia con le grida dei mandriani, lo strisciare del tronco, i campanacci dei buoi e la loro protesta a muggiti. Un fischio, lanciato fra l’aria di due dita, fa muovere all’istante gli animali.

Si scivola nel bosco, viaggio in foresta, foglie di primavera sono la volta che onora il corteo dei buoi. Si segue il tracciato di una carrareccia. L’albero si impunta, scavalca dossi, si obliqua nelle curve, sbatte contro le rocce. In un grande prato incrocia il gruppo sceso delle altitudini del Pollino, la gente della Rocca, i roccaioli. Loro hanno portato giù, con fatica immensa, l’abete, la cima dell’albero che sarà innalzato davanti al municipio. I due alberi, il faggio (che avrebbe voluto essere abete) e il vero abete si sfiorano, si guardano con curiosità, sanno che dovranno innestarsi uno con l’altro. Un matrimonio del Pollino.

Alla fine, ho la sorpresa degli ultimi metri del viaggio di questo pomeriggio. L’ultimo tratto prima dei prati di Pedarreto è una sorta di scivolo. Cento metri a capofitto nel bosco. Si deve mollare l’albero in una discesa a precipizio. Guardo gli uomini con apprensione e stupore. Fanno manovre che preparano la sfida a un pericolo. Hanno staccato i buoi, ora ruotano il tronco, lo fanno oscillare in un quasi-vuoto, la punta del legno sta a mezz’aria, dirigono il tronco verso il basso, cercano di controllare la caduta, hanno muscoli tesi e braccia fortissime. Mi cacciano al riparo di un albero. La pitu prende velocità, si frena nel fogliame, riacquista ebbrezza, scivola con impazienza. Gli uomini riescono a controllarne il volo. Lo fanno rallentare, ne guidano il percorso, il tronco attraversa due rocce, atterra nella radura. Si prende fiato. Respiri profondi. E’ andata….Questo era il rischio dell’oggi. Ostacolo scavalcato. ‘E….e….e…Viva Sant’Antonio’. Oggi la fatica è finita, il tronco sta sul sentiero da dove dovrà ripartire. Donne appaiono con i cesti dei biscotti e i bicchieri del vino. La festa è una storia semplice. Un grande viaggio, il cibo per ricompensa e aiuto e, dagli anni del cristianesimo, il canto come preghiera al Santo. E’ così da secoli.

La mia notte è di stanchezza. Chiudo gli occhi. Le gambe si ribellano a ogni movimento. Mi scaldo al fuoco degli accampamenti di Pedarreto. Mangio pasta e pancetta arrostita. Pezzi di grasso morsicati con voglia. Vino bianco e buono. Poi rosso e forte. Non dico una parola. Non ne ho la forza. Mi sembra che anche gli uomini attorno al tavolo siano silenziosi. C’è un’aria di strana malinconia: è l’ultima notte degli accampamenti. Domani la festa comincia la discesa dalla montagna. Al prossimo buio non si dormirà nei boschi. Ci sarà il comodo, ma non la libertà. Tardi nella notte ci sono i fuochi di artificio. Mi dicono che è un paesano a donarli alla festa. Esplodono nel cielo. Li osservo mentre scendo. Non ce l’ho fatta ad aspettare il loro spettacolo. Il sonno mi trascina verso il paese deserto. Sento i miei passi sulle pietre. La chiave nella porta. La notte, anche dai vicoli di Rotonda, ha il tuono dei fuochi che illuminano la montagna. Tengo la finestra aperta per farmi accompagnare nel sonno dal riflesso di un cielo che si accende con le stelle dei fuochi.
Terzo giorno della festa di Rotonda, terra di Lucania, pianeta Terra.







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