Sono già via da Rotonda. Ho risalito la Lucania. Italia, quanto sei lunga! Tre ore di auto, Salerno-Reggio Calabria, cantieri su cantieri, ponti da abbattere e da ricostruire. Poi strada per Potenza e infine risalire fra i campi che già seccano verso Melfi. Paesaggio selvatico. Mai stato da queste parti. Altri amici, un'altra ospitalità che ha il sapore dell'amicizia. Addio a Rotonda. Ma ho pagine di diario da sistemare. Ancora senza foto. Ancora senza il rispetto di alcuna regola del blog. Questo è il racconto del quarto giorno della festa, martedì del lungo viaggio del corteo degli alberi.
Ho preso un ritmo da tempo sospeso. Un tempo altro. Il sonno
raccomoda le ossa. Toglie fatica ai muscoli. Che, comunque, si svegliano
protestando. Le mie gambe non sono allenate, ma i piedi hanno un buon passo. Mi
sveglia una luce limpida. La mia finestra da una su una piccola corte. Un
nespolo si arranca fino al balconcino. I gradini che portano alla mia casa,
sull’angolo di via della Rose, sono lucidati dal tempo. Il profilo delle
pendici del Pollino che si arrampicano verso i piani sono il mio orizzonte. Al
mattino guardo verso la montagna senza pensieri. Oramai ho abitudini: un
passaggio dalla piazza, caffè e sfogliatella al Gran Caffè. Compro, per
compulsione, un giornale che non leggerò. Il mondo mi sembra lontano. Questa mi
appare un’altra Terra. Dimentico. Saluto le donne, che in vestaglia, ogni
mattina continuano a spazzare davanti a casa. Mi ricordano i paesi del mondo arabo.
Alle otto sono ai prati di Pedarreto. La ragazza del rifugio
ha occhi stanchi da notte di lavoro. Ha un sorriso di montagna. Sono in
ritardo, la Rocca, l’abete, la Cima dell’albero che sarà innalzato davanti al
municipio, è già arrivato alla collinetta dove si alza la statua a Sant’Antonio.
Chissà come è nata questa devozione nei monti del Pollino? Mi dicono che Antonio è passato per questa montagna.
Io faccio parte della gruppo della pitu, del faggio che vorrebbe essere abete. Torno nel bosco dove
l’albero ha passato la notte. I buoi sono già allineati di fronte al tronco.
Non si camminerà molto questa mattina. Bisogna conservare le forze per la lunga
strada del pomeriggio. Oggi si lascia la montagna. C’è tempo per un’altra
colazione. Prosciutto e frittelle. Vino. Passa un uomo e offre Martini in
bicchierini. ‘Mio padre beveva Martini, questo è il mio ricordo. Bisogna bere’.
Ricordo che a Pietrapertosa, al mattino, offrivano anice.
Parlo con i ragazzi dei pali, le pannule, che controllano la discesa della pitu. Saverio ha inciso sul suo palo il nome della Terribbila, il suo gruppo, e una data,
1931. Chiedo: ‘Riguarda la mia famiglia. Un anno importante’. E non dice altro.
Saverio ha la voce roca e gli occhi chiari. Sta faticando fin dal primo momento
della festa. E…e….e..viva Sant’Antonio.
Si canta. E’ la meditazione prima dell’avvio.
Il fischio. I buoni hanno un balzo. La pitu rimane immobile. Nuovo fischio. Questa volta il tronco ha un
fibrillazione. Partenza. Falsa partenza. Nella prima curva, l’albero si
incastra fra le rocce di un torrentello. Penso: da qui non si toglie più. Gli uomini mi
smentiscono. Si mettono di lato alla pitu,
si chinano sul legno, lo afferrano con mani e braccia, aspettano l’ordine di
Carletto. Il vicecaporale alza una mano….oooooo….forza….e
gli uomini sollevano un albero che non potrebbe essere alzato. Loro ci riescono. Le fibre della ualanedda si crepano, la stanga rimane
appesa al tronco da un frammento di legno. Reggerà fino alla fine del lungo
viaggio? Una catena assicura il cocchio dei diciassette buoi alla
tronco-carrozza.
I nomi dei buoi: Capitano, Cavaliere, Fiorino, Barone,
Grazioso, Generoso…..girano la testa quando li chiami.
E’ breve il cammino nel bosco. Poche centinaia di metri. Si
arriva al sole, al vento, un brivido di freddo. Siamo arrivati ai prati. La pitu lancia uno sguardo verso la rocca. Gli
uomini non permettono che i due alberi stiano troppo vicini. Una sposa e uno sposo prima
delle nozze? Nessuno qui parla di albero maschio e albero femmina. Questa è la sagra dell'albero. Ora si
aspetta che la gente si raduni per la messa. Di fronte alla statua di
Sant’Antonio. Sacro e profano si incastrano nella festa. I prati di Pedarreto
sono una foto di Salgado. I vecchi con le sedie, i giovani che non sanno cosa
fare delle mani e le tengono in tasca o davanti al ventre, gli uomini con gli
sguardi severi, le donne con i bambini. Un popolo, insomma. Attorno gli accampamenti
dove hanno trascorso la notte. Gli alberi hanno fatto irruzione nel villaggio
nomade. Un ragazzo rom vende cappelli a tre euro. Nel pomeriggio scenderà a un
euro. Mi dice che ha girato l’Italia: ‘Roma, Torino, Pisa…Cento’. Cento? Ha un
solo dente e una bella faccia. Ho sempre visto vendere questi cappelli in
Lucania. Hanno una macchina-bancarella, i rom. Vendono cesti per il pane e
assurdi pinguini sempre-in-piedi. A sera, non ne hanno più uno. Un buon
mercato.
Si va a cercare il caporale della pitu. Non comincia la Messa senza di lui in prima fila. Don Stefano
ha una voce forte. Gli uomini assumono l’aria contrita e seria. Parla di San
Barnaba, il parroco. Prega, e io lo noto come riflesso quasi involontario,
perché non si ci siano disuguaglianze sulla Terra e contro le armi di
distruzione di massa. La gente ha attenzione. Ho la sensazione che la prateria abbia due navate. Più
donne a destra, più uomini a sinistra. Gli uomini della pitu stanno in piedi. Le mani sul ventre. ‘Il creato è la
meraviglia di questa nostra montagna’, dice Don Stefano. Chiesa bellissima,
questa mattina. Due suore sorvegliano che tutto sia a posto. Suor Maria intona i canti. Entrambe daranno anche la
comunione. Fila di gente per l’ostia consacrata. Cassette di pane benedetto ai
bordi dell’altare. Finisce la messa e c’è ressa per prendere un panino e
mangiarlo a piccoli morsi. ‘Se non ti sbrighi a fotografare, la cassa rimane
vuota….’.
C’è il tempo per l’ultimo cibo in montagna. Fa freddo.
Appaiono giacche pesanti. Vado al rifugio.
Sfoglio una rivista del parco. Leggo antiche storie,
qualcuno ha scritto della sua famiglia: ‘il nostro genitore svolgeva a Castrovillari
l’agognata e davvero provvidenziale attività di agente di custodia presso
quelle carceri giudiziarie’. Agognata e provvidenziale? Alle feste degli alberi ho incontrato molti uomini
che fanno le guardie penitenziarie. Penso al mio destino diverso, da figlio di
un commercialista di Firenze che aveva lasciato la campagna ottanta anni fa. Non avrei mai pensato di fare il secondino.
Gli uffici del Parco del Pollino mi scandalizzano. Sono
arrivato al sabato, primo giorno della festa ed erano chiusi, sbarrati. Nessuno
rispondeva al telefono. Non c’era una sola informazione, una sola carta,
nessuna mappa dei sentieri. A cose serve un parco se non si è aperti a chi lo
vuole visitare? Se non aiuta chi lo vuole visitare? I paesani sono un coro di
lamenti verso il parco. ‘Ci hanno perfino vietato di raccogliere la legna
caduta’, dice un vecchio. Ascolto in silenzio. Un pensiero ce l’ho: un parco
solo di divieti non potrà mai funzionare. Pensiero banale.
Smontano le tende dell’accampamento. Mi prometto che l’anno
prossimo ne fotograferò le architetture. I parenti sono venuti da Varese per
accamparsi ai piani di Pedaretto. La nonna è immobile protetta dalla ruota
colossale di un trattore. Vado di tenda in tenda. Per fotografare. Ne esco con
vino e prosciutti, biscotti e formaggio. Fotografare è mestiere difficile nei
giorni della festa.
Gruppo di ragazzi. I
benedetti di Sant’Antonio. ‘La festa è tutto. Lui è tornato dalla Germania
per questo’. Francesco gioca a calcio in una serie da professionisti. Ma qui beve birra
e fuma. I ragazzi hanno il pallore della notte stremata e fuori dalle righe.
Hanno addosso un’adrenalina stanchissima. Anche loro offrono vino. ‘E’ di qua.
Bevi’. Smontano un precario impianto di casse e amplificatori. ‘Verremo sempre
alla festa’.
Altro accampamento. Un vecchietto suona per mezz’ora gli
stessi accordi all’organetto. Ha mani di cartavelina ed è magrissimo. Un altro
vecchio alza le mani in una danza che non può fare. Le donne, più pratiche, ci
smontano il tavolo sotto il naso. Bisogna fare in fretta ora. Sta per partire
il corteo per il viaggio più lungo. Si rischia di rimanere dietro alla fila dei buoi.
Penso: questa è l’identità di un popolo. La festa è il loro
riconoscersi. E’ appartenenza allo stesso paese.
E ora il cammino. Quindici e passa chilometri fino al fondo
valle. Fino alla prima case delle campagne del paese. Tornanti attorno ai quali
far girare i tronchi e il corteo di buoi. Storia biblica. Bibbia del Pollino.
Immaginate: ventotto tronchi tirati da altrettante coppie di buoi, più la Rocca,
l’abete, con la sua scorta di ragazzi e uomini giovani, infine l’albero, la pitu tirata da diciassette pariglie di
buoi. Attorno furgoncini, ape, trattori, motocarri carichi di cibo, vino,
panini, frittate, salami…..è migrazione di un popolo. Dall’altro delle praterie
si vedono le giravolte dei tornanti. Ogni curva è un’apprensione, una fatica, una
forza di braccia, un attaccare e staccare buoi. E’ un’attenzione anche quando
il corpo si ribella e vorrebbe solo riposare. E gli zoccoli dei buoi si
stancano sull’asfalto. Le soste sono senza fine. Alla Timpa, ‘il luogo delle
collinette di pietra’, da sempre c’è un furgone bianco. E’ il fioraio del
paese: per devozione offre vino bianco fresco e prosciutto. Mi siedo e non voglio più alzarmi. Sono in pace, qui. A ogni ostacolo
superato, scatta di grido e l’agitare di braccia: e….e…e…viva sant’Antonio.
Il cammino sta nella ripetizione. Si cammina per oltre
cinque ore. Curva dopo curva, chilometro dopo chilometro. L’abitudine dà forza.
Si ha voglia di ripetere. Che la fatica non finisca, che il cibo non finisca,
che la festa non finisca. Si frana giù dal Pollino. Il paese è in valle. Rotonda è
sdraiata sulla schiena di un roccione. Come se cercasse un riposo più che un
nascondiglio. Come se volesse offrire calma alla sua gente. La montagna si è
fatta schienale, spalliera per le case del paese. Leggo Franco Arminio quando
parla del Pollino: ‘Una montagna corale’, scrive. E poi dice che ‘Rotonda,
Castelsaraceno, Latronico, San Severino sono paesi senza squilli, di una
bellezza pacatamente povera, appartata’.
La marcia va avanti a stratti, il cielo si rabbuia, corteo
disordinato, ma ben attento a non distrarsi. La discesa ha pericoli. Insidie. La coda
della pitu a volte si ribella ai pali
dei ragazzi. Si va giù tornante dopo tornante. E’ un cammino di cui loro hanno esperienza. Gli uomini ne
conoscono ogni metro. Ultima curva, brusca, secca, difficile da affrontare. Il
cielo, quest’anno, ha voluto essere generoso. E lo fa sapere agli uomini della
festa. Aspetta che il corteo sia arrivato alla prima casa, oltre la fontana,
per scatenare la sua tempesta. I mandriani tirano fuori cerate. Il nostro
viaggio, per oggi, è finito. Da un riparo io posso godermi lo scroscio violento della pioggia.
Loro, invece, devono badare ai buoi, sfamarli, accudirli, trovare un rifugio per la loro
notte. ‘Ci sta anche l’acqua nella festa’.
Martedì 11 giugno, quarto giorno della festa di Rotonda, terra di Lucania, pianeta Terra.
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