Scrivo al mattino del
sabato. In una strana e bella casa di Melfi. Quasi un’intera sala che è camera da letto (il
letto si ribalta da un finto armadio, è basculante, perfino i soprammobili non
cadono), cucina, bagno, camera dei ragazzi, tavolo da pranzo. Una saracinesca
come porta. Ci sono libri dappertutto. Su Aldo Moro e sulla Lucania. Su Ghandi
e su Giovanni Paolo II. C’è un libro di Zanotelli. Collezioni di libri di
poesie. Leggo Hikmet, il poeta che ha annunciato la nascita di Greta e la
felicità mai detta del mio primo amore. E’ il poeta grazie al quale scrissi il
mio primo articolo. Questa casa sorprende, è rimescolio di cose. Ci sono fotografie di Totò e quadri dalle cornici dorate, serpenti
di legno e chincaglierie, le scarpe stanno sui gradini delle scale e c’è un
leggio con un dizionario aperto. La prima parola che vedo è ‘lentiggini’. Ma ora
sto scrivendo un’altra storia, non posso distrarmi troppo, anche se mi piacerebbe scrivere di ognuno di questi oggetti. Ma devo ancora ricordarmi di
mercoledì scorso, e oggi è sabato. Sono già passati tre giorni da quando il
corteo degli alberi di Rotonda è arrivato in paese. Era già il quinto giorno
della festa. Ecco il diario di quel giorno.
Questa mattina non salirò in montagna. Gli alberi hanno
passato la notte di fronte all’ultima casa prima della salita verso le praterie
del Pollino. E’ stata una notte di pioggia. La giornata, oggi, ha la limpidezza
dei cieli dopo la tempesta. Questa mattina salirò a piedi. Sono pochi chilometri.
Abitudine di queste giornate: la sfogliatella al Gran Caffè.
Sono cliente oramai conosciuto. Compro un giornale che non leggo. Mi siedo
all’aperto. Sedie color verde pallido. Il solito uomo che mi saluta. Mi ha già
raccontato che ha sposato una donna cubana. ‘Educatissima’, dice. Scambiamo
parole silenziose. Una paesana, invece, si perde per un quarto di
ora nelle macchinette mangiasoldi. A volte sento lo scroscio delle monete. Lo
schermo del bar sta già dando i numeri del Lotto. C’è nebbia stamattina. Si
spinge fino alla piazza. Gioca con le panchine, con gli alberi. Provare a dare una strana magia al paese. Rotonda si
trasforma in Parigi. No, in una foto di Luigi Ghirri. Fotografo anch’io allora, cerco di imitarlo, mi piace lo sfiorarsi
dell’umidità con i raggi del sole. Momento perfetto. Mi giro per la piazza e
faccio l’inventario: la grande e nobiliare farmacia De Cuntis dalla grande
insegna, il Gran Caffè con l’immagine di Totò e Beppino De Filippo, la Casa del
Dolce, l’ortolano, in un angolo seminascosto il Caffè 2000 e Uno, l’altro bar è
Da Lidia. Qualche uomo passeggia con le mani in tasca senza sapere bene cosa
fare. Una ragazza mi chiede se posso darle la mia tessera sanitaria per
comprarsi le sigarette.
Dalla radio del Gran Caffè ascolto Gianni Morandi che intona
C’era un ragazzo che amava i Beatles e i
Rolling Stones…..canto a voce alta, la tazzina in mano….sento il cuore che
accelera i suoi battiti….Hanno montato un palco per i discorsi e la musica
della serata. Mi incammino, con la calma tranquilla di essere qui. Felice di avere
abitudini di un giorno. La nebbia si è dissolta. Il sole ha cominciato il suo
giro.
A una finestra sul corso, Carla sta sistemando lo stendardo
di Sant’Antonio. Mi vede passare. Caffè e passaggio in macchina. Mi lascia
davanti ai buoi che già i ualani stanno
aggiogando ai tronchi. Faccio due passi. E l’offerta del primo cibo.
Nell’ordine bevo un altro caffè, mangio prosciutto tagliato spesso e un tassello
di formaggio di pecora. Arriva Saverio e mi mette in mano una fresa con il
pomodoro (una delizia) e mi indica il furgoncino dove distribuiscono sardine.
Bevo vino scuro.
I buoi hanno l’aria stanca e rassegnata. Hanno camminato
molto ieri. Questa mattina dovranno faticare meno. Ma non lo sanno. Saranno
solo pochi chilometri. Un solo tornante. Gli uomini sono radunati attorno
all’albero. Hanno cambiato la stanga. Erano stati previdenti, avevano preparato
due ualanedda. ‘Cantiamo la
canzoncina’, annunciano. ‘Chi vuole si avvicini’. Preghiera a Sant’Antonio.
Questa volta cerco di cantare anch’io. Poi, il fischio. Via, anche questa
mattina il corteo, con la fatica addosso, si mette in cammino. La strada
attraversa ciuffi di ginestre, la giornata è splendente, si va piano. Mi
accorgo che davvero, in questa montagna, non c’è musica. Non appare un solo
organetto, nessun accenno di tamburello. Le grida degli uomini…e…e…e…viva Sant’Antonio. I campanacci. Lo
strusciare degli zoccoli sull’asfalto. Su un muraglione una vecchia scritta:
‘pensavo che fosse amore e invece era noia’….ditemi la storia di chi l’ha
scritto…..il corteo avanza, oggi la Rocca, la cima dell’albero, è poco distante
dalla pitu. La gente è più elegante.
Il corteo sa che arriverà in paese. I gruppi indossano magliette che li
contraddistinguono. Fermo tre ragazzi dall’aria tosta e sorriso da guappi. ‘Tutto
per Sant’Antonio’, hanno scritto sulle loro schiene.
Guardo un grande noce. Le noci hanno un mallo verdissimo.
Fra poco è San Giovanni. Tempo di coglierle. Per fare il nocino.
Si va piano questa mattina. Non c’è alcuna fretta. E’ il
grande giorno dell’arrivo in paese. Ma c’è tempo. Due chilometri, la discesa
quasi finisce. Ecco, la contrada di San Lorenzo. Davanti alle case si aspetta.
Un tavolino fuori dal cancello. C’è vino. Ma la prima offerta è di estathè.
Dolcetti di pasticceria. E ciambelloni fatti in casa. Si va di sosta in sosta.
Sfida fra vicini per offrire agli uomini del corteo una colazione. Thermos di
caffè. A San Lorenzo, il corteo si ferma. Statua di Sant’Antonio in una piccola
radura. Hanno preparato panche e tavoli. Un altare. E’ nuovamente tempo di una
messa. I ragazzi dei gruppi vanno davanti al Santo. Si inginocchiano. Gesto che
sorprende i miei occhi di straniero. Questi uomini sono impacciati nel segno
della Croce. Ma hanno desiderio di compiere il rito. Hanno fede. Sto davanti a loro con la macchina fotografica. Un ragazzo si genuflette e
rimane così per un istante. I vecchi si siedono sulle panche e aspettano. Le
suore tirano leggermente il panno bianco che copre l’altare.
Sì, mattina di riposo. La messa e il cibo. Questa volta è la
gente della Rocca a offrire il pranzo. C’è differenza: spuntano le verdure, i
peperoni, le melanzane, le ciliegie, i pomodori….si mangia in piedi, a morsi.
Godendoci il sole. Si chiacchiera. Don Stefano ha abiti scuri. Si arrabbierà se
dico che, al vestire, ha una vaga somiglianza a un giovane Vasco Rossi? Cappellino da
baseball, giacchetto di pelle nera, pantaloni neri. E’ contento. So che fa il
parroco da dieci anni. Ha meno di quarant’anni. Mi spiega che tutta la festa è
sacro. Mi ripete che questa grande fatica è offerta al Santo. Che chiede ai
ragazzi, con qualche diffidenza e altrettanta curiosità, cosa è la loro devozione. Che la curia sta prendendo
sul serio queste feste. Che sa di correre dei rischi, ma vuole una chiesa che
stia all’aperto, che dica messa nei prati del Pollino o in questa radura. Mi
dice che questo non è un matrimonio fra gli alberi. Mi piacerebbe assistere a
una discussione fra lui e gli antropologi che ti raccontano di questo rito come
sposalizio della natura, dei rituali di fertilità….
Finalmente c’è la musica. Spuntano organetti e tamburelli.
Cerchio di ragazzi giovanissimi. Non hanno accenni di barba. C’è un vecchio
contadino con lo sguardo d’acqua, il cappello in testa, il viso scavato e gli
occhi senza espressione. Suona afferrando il ritmo dei ragazzi. Le sue labbra
hanno una piega impercettibile in un sorriso che non si decide a essere tale. C’è
una ragazza con un bel viso da ragazza tosta. L’ho notata in montagna. Se
avessi dovuto scegliere un volto per Lisbeth Salander, la donna della trilogia
di Millenium, avrei scelto lei. Ma ora, di fronte alla musica, anche i suoi
occhi si fanno di miele e le sue labbra si inteneriscono.
Questa volta precedo il corteo. Scendo rapidamente verso il
santuario di Santa Maria. Cammino da solo. Un rivolo di acqua scorre a bordo
strada. Il Pollino è acqua, ricchezza di acqua. Mi affianca un uomo: ‘Noi siamo
una terra ricca. Acqua e petrolio. Ci portano via tutto. Il petrolio va a Nord
e qua la bolletta è più cara che a Torino. L’acqua va in Puglia. I pugliesi
vengono qui a fare pic-nic. Non lasciano niente. Non danno un soldo alla nostra
economia. Lasciano i loro rifiuti’. Sto in silenzio. Ho pensieri da Nord: come
affratellare pugliesi e lucani? Come fare che questo Sud faccia alleanza e
patto e non abbia bisogno di un nemico?
Mi siedo sotto un noce. C’è una sedia. Fotografo un uomo
salito dalla Calabria per un occhio alla festa. Altro lamento: ‘Mi hanno
licenziato a dicembre. E chi trovi qua che ti dà novecento euro? Non c’è
lavoro. Vero, qua si può vivere senza lavorare.
Ma questa crisi è colpa dei politici. Che rubano tutto. Hanno rubato tutto’. Sono
stanco di lamenti. La colpa è sempre di altri. Altri che sono invisibili. Ma
questa festa è la prova della forza del paese, del Sud, di quanto questi uomini
e donne possano fare. Voglio crearmi illusioni. Ascolto i lamenti, ma vorrei
tirare calci all’aria. Si avvicina una donna e mi rende felice: dopo anni e
anni, bevo un’orzata….
Ora so che Rotonda è il paese del fagiolo bianco, della
melanzana rossa e dell’elefante. Un elephans
anticuus. Fossile trovato a due chilometri da qui. Il museo dove è
custodito è sempre chiuso. Cominciamo da qui: togliamo la polvere da sopra le
ossa dell’elefante, apriamo le porte degli uffici del parco del Pollino, coltiviamo
melanzane e fagioli e facciamone storia del paese. Già che ci sono, come dice
Franco Arminio, lasciate pure gli annunci dei morti, ma mettete anche quelli
delle nascite. Pensiamo più ai neonati che ai defunti.
Ore due, arriviamo davanti al santuario di Santa Maria. Qui
ci si mette belli per l’ingresso al paese. Si incorniciano le corna dei buoi
con fiori. Rose e gigli di Sant’Antonio. Fiori di carta e ginestre. Sono
bellissimi, gli animali. Appaiono bouquet di ghirlande colorati. Sembra
carnevale. I decori sono grandi, sfavillanti, trecce filanti, ghirigori di
carta dai colori che risplendono. Vengono issati sui gioghi, sugli alberi,
sugli incastri dei legni. Il corteo diventa festoso. Sfilata di maschere
gioiose. I capi della pitu e della
Rocca hanno indossato gli abiti migliori. Nicola ha un gessato di altri tempi.
Carletto una giacca da matrimonio. Il capo della Rocca ha una sua eleganza da intellettuale. Ha
persino la cravatta. Ben si capisce: arriva anche il sindaco, strizzato in un
abito nero, ha in mano corone di fiori. Questa è l’incoronazione dei capi della festa. Una ghirlanda di fiori bianchi
a cingere il cappello. Orgoglio di paese. Lacrime degli uomini. Qui ci si
commuove.
E’ tempo dell’atto finale. Ci saranno più atti finali. Le
ventotto porfiche, gli alberi
tagliati nei boschi e portati giù dai gruppi, sono già avanti. Ora sì che la
festa diventa ballo. Arriva la gente dai paesi vicini. I ragazzi danzano, si
baciano, si abbracciano. Non c’è più fatica. Compaiono i pigri che approfittano
solo dell’estasi della festa. Suonano tamburi africani e organetti calabresi.
Ci sono i suonatori di mestiere che non si perdono una festa. Esperti da
matrimoni, vengono a mostrarsi, a passare ore di frenesia. Suonano sapendo che cosa fanno. Hanno foglietti minuti in tasca con
il loro indirizzo. Vogliono la foto. Vendono cd. Il corteo là davanti ora è
danzante. Due uomini della Calabria mi dedicano una suonata di fisarmonica e
nacchere di ferro. Il musicista mi dice che ha fatto l’autista per
quarant’anni. Conosce i parcheggi di Firenze. Hanno occhi ebbri e astuti. Mi
passa un pezzettino di carta con l’indirizzo. Ci tiene alle foto. Ci stringiamo
la mano con forza. Come vorrei mantenere questa promessa.
Gli uomini della Rocca e della pitu sanno che non è finita. Hanno visi seri. Ora devono manovrare per
vie strette. E in mezzo a gente che non immagina quanto grande è stata la loro fatica. C’è nervosismo
nell’aria. Basta un fischio sbagliato e ‘si fa danni’. Due carabinieri non sono
abituati a tenere a bada la gente e sono più incerti che utili. Passano i
tronchi, passa la Rocca, ecco gli ultimi metri del corso, la piazza si apre, i
buoi si stringono, quasi si toccano, schiena contro schiena, gli uomini sono un
fascio di attenzione. A passo di carica si entra in piazza, si scavalca il
marciapiede, la pitu atterra a un
passo dal palco. Occupa tutta la piazza. E…e….e…viva
Sant’Antonio. Applausi. Si riprende fiato. Le autorità sul palco afferrano il microfono. Un tipo mi impedisce di
salire. Non me la prendo. Bofonchio. Niente foto dall’alto. Torno in mezzo alla gente. Ascolto con disattenzione
le parole delle autorità. Ve ne chiedo scusa. Mi
piacerebbe il ‘non possibile’: che possa essere data, cioè, parola e tempo a
qualcuno preso a caso dalla piazza. Qualcuno che non sappia mettere in fila le
parole. Qualcuno che stia zitto su questo palco e ci racconti la sua felicità
inconsapevole e sapiente di essere qui. In mezzo alla festa che lui ha
contribuito a fare grande. Applausi alla fine dei discorsi.
Ecco, ora è il momento. La festa è conosciuta per
quest’attimo. Per quanto sta per accadere. I paesani sanno cosa sta per
accadere. Io so cosa sta per accadere. Ma non ne conosco il ritmo. Non so i
dettagli. Non immagino. Mi sposto, ma non so bene dove stare. Gli uomini si
mettono in fila accanto alla pitu, la
guardano, la soppesano, la sfiorano con le mani, la accarezzano, la toccano con
la punto dello scarpone. Sono atleti prima della competizione, sono sprinter
prima del colpo di pistola. Si tirano le dita delle mani. Nicola sale
sull’albero. Sembra intimidito. Aveva spergiurato alla sua famiglia che non lo
avrebbe fatto. E, invece, è lì. In piedi, si appoggia a un bastone, saggia
l’equilibrio delle sue gambe, non pensa ai suoi anni, si incurva leggermente,
ha l’aria sospesa. Appare tranquillo.
False partenze. Non so chi dia l’ordine. Non so come la
storia prenda il via. Non so chi dice: ‘Ora…..’. Sento Carletto che grida: oooooo…..forza. So che accade. In
fretta. Più in fretta della mia macchina fotografica. Più in fretta di me.
Rimango senza fiato. Non penso. Sto lì, quasi immobile. Gli uomini si sono
chinati, hanno afferrato in cento il tronco, si sono dati spazio, hanno trovato
una forza da titani, non un grido, hanno alzato
l’albero, hanno sollevato quintali di legno di faggio, hanno ruotato su
loro stessi, hanno cambiato direzione e, con uno strappo potente, si sono
portati la pitu sulla spalla.
Silenzio perfetto, adrenalina del silenzio. I volti della gente in piazza si
sono pietrificati. Istante che dà spazio al respiro. Poi tutto accade in fretta.
A passi piccoli, un piede contro l’altro, gli uomini corrono, girano il tronco,
lo fanno arretrare, lo riportano in strada, lo fanno ruotare. Sono trenta
metri. Forse cinquanta. I muscoli sono tesi. Il dolore alla spalla annuncia il
livido. La folla ora ha un grido. Il caporale, Nicola, sta lassù. In piedi. Non
vacilla. Si sorregge all’aria. Poi il tronco viene calato con lentezza. Nicola
sembra scendere dal cielo. Come se fosse un montacarichi. Gli uomini sono
chinati, si rialzano. Si tengono le mani. Ora hanno occhi di lacrime. Piangono.
Ridono. Sorridono. Infine, gridano, urlano, le vene del collo sembrano
esplodere. Ecco, il pianto vero. Gli abbracci, i baci, ci si stringe, si
applaude, si urla. Non capisco nulla, non capisco cosa dicono. Fammi imparare
di colpa questa lingua. So che gridano nomi, santi, parenti, gente che non c’è
più. Per favore, gridate anche per chi è qui. Per chi è nato in questo anno.
Non solo i morti. Questa festa, questa fatica è per i vivi. Per gente che vuole
e sa vivere. Due ragazzi piangono la loro felicità. Piango anch’io. Scatto foto
di lacrime. Il capo, Nicola, ha occhi che sono rossi di acqua, ma non cambia
espressione. I ragazzi lo baciano, lui traballa, non vuole lasciarsi andare.
Lui è il capo. Lo immagino quando stanotte si stenderà sul letto. Ha
settantanove anni e una corona di fiori bianchi attorno al cappello. Adesso si
è davvero stremati. Vino. Brindisi. Evviva. Una sigaretta. Che facciamo? Che la
festa finisca. Che arrivi la malinconia. Saverio mi guarda: ‘I primi giorni
saranno duri. Poi passa…’. Ricomincia l’attesa.
Non c’è tempo. Per fortuna, non c’è tempo. C’è ancora un
sacco di lavoro da fare. I buoi ricompaiono come per miracolo. Fendono la
folla. Vengono riaggiogati al tronco. C’è da portare l’albero davanti al
municipio. Duecento metri. Ultimo viaggio sul serio. Le strade di Rotonda sono
merda di bue. C’è bellezza in questa merda. Le ragazze con il tacco camminano
in punta di piedi. Le donne fanno le schifiltose e ondeggiano in questi scogli
mollicci. Donne dell’Est (russe? Moldave? Ucraine? Con uomini italiani) si
fanno fotografare accanto ai buoi.
Il corteo, stremato e scombinato, si rimette in moto. Provo
a seguirlo. Cambio idea. Che vadano. Questa volta, che vadano. Non seguo
l’ultimo atto. Mi riprendo il mio tempo. Mi appoggio al muro e vorrei piangere ogni lacrima che sento
arrestarsi a un passo dagli occhi. Un ragazzo calabrese mi risveglia: ‘Ci
facciamo una birra…?.’. Lo lascio andare. Poi ci ripenso: ‘Arrivo’.
Sono stanchissimo. Ogni movimento è un dolore di ossa e
muscoli. Non è finita. Ancora, non è finita. Non finisce mai. Ricordo, me lo
avevano detto. Ora c’è da portare l’abete, la Rocca, in chiesa. Nuova giravolta
per il paese. Forza leggera di uomini e ragazzi. L’albero si infila nuovamente
fra i vicoli. Deve raggiungere la piazza dove tutto è cominciato cinque giorni
fa. Chiesa di Sant’Antonio. Quante chiese ha Rotonda? Quante cappelle? Portoni aperti, Don Stefano benedice ancora una
volta, anche lui ha l’aria di stanchezza. Gli uomini stanno davanti alla
chiesa. Mi fanno passare. Entro dentro. Architettura di stucchi e gessi. Hanno
tolto le panche. Navata vuota. L’albero entra, si spinge di lato all’altare,
trova il suo spazio. La lunghezza dell’abete non è figlia del caso. La Rocca
sta obliqua rispetto all’asse della chiesa. Gli uomini la poggiano sul
pavimento. Gridano il sacro. Alzano le braccia. Con lentezza escono dalla
chiesa. Chiedo: ‘E’ finita?’. Gli occhi di un uomo appoggiato allo stipite del
portone annuiscono.
Aspetto che la chiesa si svuoti. Rimango quasi solo. Non
guardo l’albero. Non faccio una ultima foto. Esco. L’aria è fresca. Gruppetti
di persone stanno chiacchierando.
Quinto giorno della Festa, 12 giugno, Rotonda, Terra di Lucania, pianeta Terra.
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