Questi post sono dei
‘non finiti’. Qui, in paese, Lucania ai confini con la Calabria, non ci sono connessioni smarrite nell’universo
della velocità. Qui si va piano. E c’è da bere vino aspro e mangiare carni
grigliate. Non c’è tempo per la letteratura. Per le parole. Quindi scrivo
rubando minuti perché da questo, se riesco a perdonarmi e a trovare una forza
futura, uscirà qualcos’altro. Che ancora non so. Una storia che allaccia uomini e alberi, pensavo. E ora, computer sulle ginocchia, in una piccola piazza, affido, giusto per non dimenticare, questi appunti al blog e non al quadernetto dalla copertina blu-scuro. Questi
post, ammesso che riesca a metterli on line, un giorno cambieranno. Forse. Non
ci sono foto, non ho il tempo di scaricarle. Sono davvero appunti. Servono a me. Abbiate pazienza. E non credo nemmeno che sarò capace di tenere il ritmo. Da domani si sale nei boschi. Anzu c'è chi parte stanotte. E io avrei voglia di seguirli. L'anno prossimo, mi dico.
Venerdì, arrivo a
Rotonda
Lascio alle mie spalle Firenze e la kermesse sulla modernità
di Repubblica. Ne leggo le cronache dove si esalta un’Italia innovativa che
parla il linguaggio delle app e delle tecnologie. Mi sembra una litania di
parole. Quasi una autoreferenzialità. Non ne riconosco il senso mentre scendo verso Sud. Lascio, con
difficoltà, svincoli delle autostrade. Sorpasso Napoli, indovino per puro caso
la Salerno-Reggio Calabria, vedo i paesaggi cambiarsi, le case trasformarsi,
verso un’altra Italia.
Italia, quanto sei lunga! E poi mi perdo in stradelli che
vorrebbero essere di montagna. Italia isolata. Italia splendida. L’insegna
dell’hotel Chiaro di Luna è scritta con la vernice gialla. Un condominio in
mezzo a campi di ginestre nasconde il disco-pub Insomnia. Per un’ora non
incontro una sola auto e la strada è rappezzamento di frane. Adios, Italia
delle tecnologie. Solo Paolo Rumiz, sulle pagine di Repubblica, sa raccontare
questo paese altro. Per il resto del suo giornale, questo mondo non esiste.
Venite qui a fare la Festa delle Idee, mille chilometri lontano da Firenze.
Venite a una vera festa che dal neolitico ha avuto la capacità di arrivare fino
alla nostra modernità. Venite a Rotonda dove per connettervi al web (se il web
esiste) bisogna contare sulla gentilezza di Gianantonio che ha un negozio nella
piazza con gli alberi. Venite a Rotonda per la Festa dell’Abete, rito
arboreo del massiccio del Pollino. Festa arcaica che fa un’irruzione felice e
sconosciuta nel mondo della contemporaneità. E magari scoprirete che l’abete,
in realtà, è un faggio. E questo, non so perchè, ha una sua importanza.
Questo è Chiapas d’Italia. Periferia. Margine. Terra
irraggiungibile. Terra senza lavoro, ti dicono tutti. Ma non è un paese arreso,
come scriverebbe Franco Arminio. Non ne è questa la mia idea dopo averci passato un
mezzo pomeriggio. A Rotonda vivono tremilacinquecentoquarantadue persone.
Perlomeno a ieri sera (parola del responsabile dell’anagrafe). In queste ore non
è morto nessuno, non è nato nessuno. Paese che un po’ si spopola. Ma non
troppo. ‘Paese di vecchi’, ha detto il sindaco, mi informano con una punta di rabbia
addosso. E smentiscono: ‘Non è vero, qui i giovani ci sono. E si fanno bambini’. Ma il lavoro
non c’è. Allora si parte alla domenica sera per fare migliaia di chilometri e
salire fino a Torino o Milano a tirar su cavi dell’alta tensione. A Rotonda,
per i casi della storia, si è esperti in elettricità. Un ragazzo è morto su un
traliccio quest’anno e il paese conserva un lutto vero, doloroso. Qui si è tutti parenti.
E si continua a partire alla domenica e ‘ritirarsi’, tornare, al venerdì. Per
stare almeno un giorno e mezzo al paese. E soprattutto le ferie sono attorno al
giorno di Sant’Antonio, tredici di giugno, per della Festa dell’Abete, sei
giorni di follia e fede, fatica e devozione nei boschi del Pollino.
‘In tanti lasciano la campagna. Non rende’. ‘Non è vero, se
hai ‘no poco di terra, stai bene. Un po’ di aiuto ce l’hai. Ogni famiglia qui
ha una campagna’.
E se Rotonda fosse la modernità? In fondo qui vivono rumeni
che lavorano nei boschi. Una ragazzina cinese è la migliore della sua classe.
Una donna algerina è arrivata qua a 18 anni, innamorata di un paesano e oggi ha
tre figli e cucina splendidi piatti lucani. Dal barbiere conosco un marocchino
che mi parla dell’Italia meglio di me e da musulmano va in chiesa. Specchio di
un’Italia che si prova a inventarsi convivenze. C’è una postina che ama il suo
lavoro e che domani andrà a prendere una lettera che ho lasciato in una buca delle
lettere. C’è un vecchio signore che intaglia legni e costruisce bastoni in un
assurdo negozio nella piazza. Ci sono tre barbieri (e da Tonino potrei andare a
farmi tagliare la barba. Anzi, oggi l’ho fatto. Dopo quaranta anni sono senza
barba, prodigio perplesso di Rotonda). Ci sono un sacco di bambini. C’è un bar
dietro l’altro. Sguarniti e disordinati, con calendari appesi alle pareti e
bottiglie di vino bianco sugli scaffali, belli come i bar di paese. Qui si
beve birra Raffo, birra di Taranto. Sono luoghi per il gioco delle carte degli
uomini, per la birra al mattino, per le chiacchiere a voce roca. E’ vero, mancano
i ragazzi sui vent’anni. Ma ora stanno tornando per la festa. Se ne stanno a
giro per il mondo. A studiare per una laurea inutile. I più a lavorare. C’è una
pasticceria che vende crêpes grondanti nutella a un euro e mezzo. La cedrata,
seduti al tavolo, costa un euro. Qua non ti fanno pagare gli ‘odori’ che ti
mettono con le verdure. Qua si coltiva la melanzana rossa e il fagiolo bianco.
Si va fino a Foiano della Chiana, dalle parti di Arezzo, per comprare vitelli
di chianina, buoi che si utilizzano solo per feste arboree. Qua le donne, nei
giorni di Sant’Antonio, offrono pan brioche all’uscita dalla chiesa e vestono i
bambini più piccoli con il saio del santo. La chiesa è piena nei giorni della
festa: ci vanno gli uomini, quelli che poi saliranno nei boschi per tagliare
l’albero, la pitu e le porfiche, a chiedere forza al Santo. Confessano,
così, la loro ‘devozione’. Il prete è giovane e del paese: benedirà i buoi e
dice che il senso della festa è proprio in questa fatica ‘offerta al Santo’. In
chiesa mi guardano con qualche sospetto: ‘Siete della sovrintendenza?’. Ricordo
che in Aspromonte mi domandarono se ero della polizia.
Non c’è musica. Non so perché. Nelle Dolomiti Lucane
risuonano i tamburelli e gli organetti. Qui le parole degli uomini e delle
donne. Non c’è colonna sonora. Almeno per ora.
Carletto è il vicecapo della pitu, del gruppo, cioè, che taglierà e trasporterà il faggio. Ha 56
anni, fa il gruista in Svizzera. E’ un miracolato.
In un giorno di Natale, allora aveva dodici anni, rimase paralizzato. Nessun
medico sapeva guarirlo. I genitori si rivolsero al Santo nel giorno della
festa. Misero il ragazzino sull’albero non appena arrivò in paese e Carletto
ricominciò a camminare. ‘Basta crederci, in fondo’. Carletto da allora, da
trentasei anni, quindi, viene sempre giù per la festa. Fa parte della gruppo
della ‘a chioppa’, di coloro che
hanno i buoi più alti e stanno vicini all’albero nel trasporto. Un gruppo di
èlite. Adesso, vigilia dei giorni della festa, offrono pizze e schiacciate,
pasta con salsa di pomodoro e capperi e dolci. Fanno bere birra e vino. C’è adrenalina
nell’aria. Tutti hanno voglia che la festa
cominci.
Il caporale della pitu
(qua, già lo sapete se avete letto fin dall’inizio, chiamano abete quello che è
un faggio) è Nicola Forte. Lo vedo alla guida di un’ape. Ha 79 anni. Porta gli
occhiali. E dal 1987 è capo del gruppo dell’albero. Non se inorgoglisce. Appare
timido. Non è nemmeno grande e grosso. Guida una squadra di una sessantina di
persone. Deve aver un’energia nascosta. Mi dice che questa è la più bella festa
della Lucania: ‘Qui siamo più riuniti’.
Credo di capire cosa vuole dire
Viva San’Antonio. Mi dicono: ‘Il Santo vince sulla Vergine
Addolorata. Che si celebra in agosto. Ma è questa, ora, a giugno, la festa che
conta’.
Parlo con uomini che hanno la figlia infermiera a Cairo
Montenotte, con operai che vengono dalla Svizzera, con gente che è scesa da
Milano. Le grandi aziende dell’elettricità sanno che a Rotonda si ha sapienza di
tralicci e sanno anche che le ferie questi operai le prendono in questi giorni
di giugno.
Alla cena del gruppo dell’abete ci si saluta come uomini e
donne che si rivedono dopo un anno di assenza. Ci si bacia sulle guance. Ci si
tocca. ‘Tutto a posto?’. Tutto a posto.
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