Non si scrive mai
l’ultima parola. La si lascia non scritta. Io non sono adatto all’ultima
parola. Scrivo da letto. Con una rabbia malinconica. In un sottotetto di una
casa di Pietrapertosa. Una casa che conosco. Dalla quale domattina me ne andrò.
Già avverto qualcosa avvolgermi dopo questi giorni eccitati. Scrivo per un
senso di dovere. Ma perché è giusto che la festa finisca. E’ finita giovedì
scorso, ora è domenica, c’è musica nella piazza di questo nuovo paese, lo
scorso anno ballai, quest’anno non scendo, rimango nel sottotetto, con
stanchezza addosso. E le tasche piene di regali e la voglia di abbracciarvi e
ringraziarvi per questi giorni. So che devono finire e io non vorrei farli
finire. Adios.
All’angolo del vicolo del Sole, quattro donne stanno
disegnando un Sant’Antonio sulle pietre del selciato. Usano il sale impastato
con la vernice. Colori che sfavillano. Sono al lavoro dalle cinque del mattino.
Da qui, nel pomeriggio, passerà la processione. Questo è il loro dono al Santo.
La loro fatica. Oggi è il 13 giugno, giorno di Sant’Antonio. Sono attente ai
dettagli, queste donne. Le pieghe del mantello, il gesto della mano, la cornice
d’oro. Discutono fra di loro, guardano un ritratto su carta. Sono madonnare di un solo giorno. Hanno cura
nella loro arte di una mattina. Sono costruttrici inconsapevoli di un mandala. Ha impermanenza questo quadro da pietre di un vicolo: i piedi della
processione vi passeranno sopra. Un capolavoro di paese destinato a durare
poche ore. Le donne ne sono fiere. Hanno usato cinque chili di sale. Questa
mattina è per loro.
Anche gli uomini degli alberi sono già al lavoro attorno
alla pitu. Sono io in ritardo. Non ho
avuto tempo nemmeno per il Gran Caffè. La Rocca, la cima dell’albero, è stata
già trasportata dalla chiesa fino al piccolo spazio di fianco al municipio di
Rotonda. Gli edifici comunali, in questi paesi, sono quasi sempre orrendi. Questa
non è un’eccezione. Immagino che siano figli della ricostruzione dopo il
terremoto del 1981. Il palazzo pubblico del paese deve essere il più brutto. E’
una condanna questo destino. Riportate gli uffici comunali nelle vecchie case. Troverete
una comodità antica.
Gli uomini degli alberi hanno addosso stanchezza strana.
Sanno davvero che la festa sta per finire. Un ultimo sforzo. Vi è un’aria di
euforia e malinconia. Quasi rassegnazione: sì, la festa finirà. Gli emigrati
stanno per riprendere il cammino verso la Svizzera o la Germania. Carletto
tornerà alla sua gru e suo figlio sognerà di fare il fotografo. Ma ora l’albero
va innalzato. Due anni fa, mi dicono, venne giù. Per distrazione e troppa
fretta. Ora si sta attenti, ci si prende tempo. Mi ricordano ancora: per
quarant’anni, dal 1946 al 1986, l’albero non venne alzato. ‘Perdemmo la
memoria, trasportavano l’albero davanti al comune e lo lasciavamo lì. Fu un
vecchio a domandarci: ma perché non lo alzate come facevamo noi? E allora
ricominciammo’. Era una memoria ostinata.
Gli uomini dell’albero, questa mattina, hanno eleganza. E’
un giorno di festa. Michele maneggia la scure indossando giacca, gilet e
cravatta. E’ un lavoro attento, questo. C’è da fare i fori per i pioli, le
legature con il fil di ferro, bisogna innestare la Rocca nella pitu, l’abete nel faggio. Dovrà essere
un lavoro accurato: l’albero della cuccagna è destinato a rimanere in piedi, di
fianco al comune, per quasi un anno. Dovrà reggere all’inverno, ai giorni di
vento e neve. Solo nella prima settimana di maggio del prossimo anno verrà
abbattuto. Quando la festa sarà di nuovo vicina. Michele ha in mano la scure
che comprò sessanta anni fa da un fabbro abruzzese.
In molti si sono presi il fogliame della Rocca. L’abete si è
rimpicciolito. Gli uomini prendono misure e compiono l’atto finale dell’unione
dei due alberi.
Tonino ha una ruota del tronco del faggio che vorrebbe
essere abete. Mi mostra il cerchio più grande della pitu. Mi indica gli anni dell’accrescimento dell’albero. Mi dice
quali sono stati gli anni più freddi e quelli più favorevoli alla pianta. Mi fa
notare una macchia più scura, quasi un cuore: ‘Ha subito una ferita quando era
un giovane faggio. Un sasso si è incistato nella sua corteccia. L’albero ha
impiegato quaranta anni a cicatrizzare la sua lesione’.
Suona, in sottofondo, un organetto.
Gli uomini legano i tronchi delle forche. Sono geometrie a
triangolo, leve che serviranno per l’innalzamento. Ne costruiscono quattro. Con
l’abilità dei marinai. Le corde devono essere resistenti. Sono i nodi da boscaioli
del Pollino. Le forche devono sostenere il peso della pianta e ubbidire alle
spinte degli uomini.
Sul polpaccio di un ragazzo vi è tatuaggio: only God can judge me.
Carletto darà gli ordini. Ooooo….forza, ancora una
volta, ancora un incitamento, un ultima volta. Ha voce arrochita. Le forche,
diverse per altezza, sono pronte. Gli uomini dovranno spingerle sotto l’albero,
sono le leve con le quali sollevare l’albero. Un’ultima fatica di braccia, di
spalle, di testa, di cuore. Si va avanti di centimetro in centimetro. Un uomo
controlla lo scivolo dell’albero nella fossa. Là deve scendere. Altri sistemano
longarine di ferro per impedire che perda equilibrio. Vi è chi, con coraggio,
incastra un piolo sotto il suo peso. L’albero viola le leggi della fisica e si
innalza. A volte è riluttante. Gli uomini cercano di convincerlo strattone dopo
strattone. L’albero ci prende gusto. Scavalca l’orizzonte delle case, va più in
alto dei tetti, si arrampica fino a diventare panorama delle terrazze dei
condomini, cerca di abbellire le architetture dell’edificio comunale. Va verso
il cielo. Fatica dopo fatica. Le quattro forche incoraggiano l’albero e lo
spingono verso l’alto. Lo raddrizzano con gioco di manovre. Ecco, un’ultima
spinta, un’ultima fatica, un ultimo sforzo. E’ fatta. L’albero è nella fossa.
E’ dritto. Le sue fondamenta sono consolidate a colpi di mazza. Posso dire? Vi
è una sorta di smarrimento nell’aria. E….e….e…viva
Sant’Antonio. Sì, un grido ancora. Nessuno vorrebbe che fosse l’ultimo. Ma
questo è il destino. La festa è davvero finita. La soddisfazione ha un velo di
rassegnazione. C’è un bar davanti al municipio. Alle pareti le foto di altri
innalzamenti di alberi. Mi offrono caffè. Stiamo in silenzio. Normalità. Cosa è
successo? Cosa è quell’albero che è nato al lato della strada per le
autostrade?
Due ragazzi, grandi e grossi, di Mormanno, là in Calabria,
mi raccontano di aver chiesto, quattro anni fa, di poter partecipare ai lavori
dell’albero. Hanno sapere dei boschi. E’ stato il loro mestiere. Ora, anche
loro lavorano sui tralicci. Si guadagna meglio. Sanno maneggiare motoseghe
dalle lunghe lame. Sanno squadrare l’albero. Anche loro sono uomini squadrati.
Li ho visti tirare linee dritte con i denti della motosega. Li ho visti offrire
prosciutto e formaggi. Li ho visti sollevare l’albero sulla spalla e spingere
per innalzarlo. E non sono del paese. Hanno chiesto ai vecchi di Rotonda di
lavorare. Il loro sapere e la loro fatica è stata ben accolta.
Imparo molte cose sugli alberi: devono essere tagliati in
luna calante per evitare che il legno possa essere attaccato dai tarli.
Un albero deve essere tagliato in inverno, riposo della
vegetazione. Altrimenti il legno svirgola.
Tende a incurvarsi.
Un tempo, in Pollino, si vendeva legname ai falegnami dei
remi per le barche. O ai costruttori di culle. Gli alberi di queste montagne
venivano squadrati per farne traverse dei binari.
La festa si fa popolare. Sono accese le luminarie. Ci sono
le bancarelle. Sono ragazzi dell’immigrazione che vendono merci comprati agli
ingrossi cinesi. Nei magazzini fuorilegge di Napoli o Bari. Cinture e
cappellini. Chincaglierie e pistole luminose. Ci sono camion per kebab e
salsicce. Cambiano le mercanzie delle feste. Cambia perfino il cibo. Mi
sorprendo sempre a vedere come il kebab sia il nuovo cibo del popolo dei paesi.
E sospetto che la carne che gira arrivi dall’Argentina o dalla Nuova Zelanda. Gli
ambulanti oggi sono senegalesi, cingalesi, arabi. I ragazzi neri dormono per
terra, di fianco alla loro Fiat Tempra targata Salerno, carica di merci e
vecchia di decenni. Un mucchio di ruggine dalle gomme afflosciate sotto il peso
di tre uomini e scatoloni.
Ora sono le ore del sacro. Una reliquia di Sant’Antonio
arriva da Padova. Passano i preti che vengono da Potenza. Hanno valigette nere
e l’aria seria. Passa il vescovo. Occasione di solennità. Una reliquia del
Santo a Rotonda. I fedeli sono orgogliosi. La messa è lunghissima. Poi la
statua di Sant’Antonio esce in processione. Riconosco gli uomini degli alberi a
portarne il peso. Viaggia per i vicoli, ammira il lavoro delle donne in vicolo
del Sole, si ferma davanti alle cappelle e alle chiese, sale fino ai belvedere
del paese. Passa e ripassa per la piazza. Va in ogni angolo, raggiunge ogni
casa. Volteggia per i vicoli. Il paese è una fila indiana di folla. Alla fine, il
corteo santo rientra in chiesa e la gente pellegrina alla reliquia.
E poi la notte. Birra e patatine fritte. Kebab e hot-dog. Hanno
montato perfino un luna-park. Equilibrio degli spazi. Giocattoli di plastica.
Andirivieni di ragazzi, di uomini e donne sottobraccio uno all’altro. Si sono
tirati fuori gli abiti migliori. In piazza suonano Ri Briganti. Tutto il pomeriggio per montare il palco. Fatica quasi
inutile. Sono in imbarazzo per loro: ci provano con le tarantelle, ho voglia di
ballare, ma sarei solo. Nessuno balla a Rotonda. Nessuno si azzarda. Questa
musica non piace alla gente del paese. Una fila di uomini e donne, ragazzi e
ragazze se ne sta ai bordi della piazza con le mani in tasca a guardare i
poveri musicisti che si agitano da soli sul palco. Qualche timido applauso di
cortesia, ma nessuno che si faccia prendere dalla musica.
Notte. Ultima notte. Saluto con baci sulla guancia. La mia
barba sta ricrescendo. Ci salutiamo con promesse. Anche i musicisti si
rassegnano e scelgono un finale di silenzio. Vanno via in fretta. Nessun bis.
Piazza deserta nel vuoto dove si avrebbe dovuto ballare. Questa sera non
scrivo, non trovo il sonno, non ho pensieri. Niente di niente attraversa la mia
testa. La festa è stata eccessiva. Ha
preso le mie energie. Ha creato un dimenticare
il mondo. E’ questo che deve fare? Non ho voglia di tornare nel mondo. A
Rotonda potrei essere lontano? Come è l’inverno da queste parti? Potrei andare
a camminare fra i faggi e scegliere la prossima pitu? Mi accoglierebbero fra le gente degli alberi? Metto anch’io
le mani in tasca e cammino verso quella che, per una settimana, è stata la mia
casa.
Rotonda, terra di Lucania, ultimo giorno della festa, giorno di Sant'Antonio
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