venerdì 31 maggio 2013

Viaggiatrici Viaggianti/Gli occhi di Frida





Il sei luglio del 1937, Frida festeggiò, con sfarzo messicano, il suo trentasettesimo compleanno. In realtà quel giorno Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderon, figlia di un ebreo ungherese e di una donna meticcia dalle origini indie, compiva quaranta anni. Non voleva nascondere la sua età, Frida, ma mandare un messaggio: lei era figlia del Messico insurgente, del Messico della Rivoluzione del 1910. Lei considerò sempre quell’anno come il suo vero anniversario. La Revolución Mexicana fu la prima rivolta del ‘900, destinata a travolgere il vecchio mondo e ‘capeggiata da eroi romantici, – Pancho Villa, Emiliano Zapata –, votati alla sconfitta’, e, apertamente, disinteressati del potere. Frida sapeva di essere il Messico. Era il Messico. Lo è ancor oggi. Mille paesi in uno solo. Se la Rivoluzione fu un fallimento segnato da tradimenti e sangue (900mila morti in dieci anni), niente fu più uguale dopo la sua violenza: cambiò davvero il mondo del Latinoamerica, nacque una nuova società, nuove passioni, un’altra cultura. E Frida riuscì, con la sua vita e la sua arte, a esserne protagonista e a raccontarla.







Frida aveva appena diciotto anni quando avrebbe dovuto morire. Un incidente fra un bus e un tram a poca distanza dallo Zócalo, la sconfinata piazza di Ciudad de Mexico. Lei non avrebbe dovuto essere a bordo. Ne uscì ridotta in poltiglia. Cinque fratture al bacino, undici al piede destro, tre vertebre spezzate. Una sbarra di ferro, un corrimano, la stupra attraversando il suo corpo da un fianco al ventre. Glielo strappano a forza e il suo urlo fa risvegliare ‘i teschi di pietra del Templo Mayor’ dell’antiche città atzeche. Frida non muore, si ribella alla morte, passa mesi e mesi in un letto (negli anni subirà trentadue interventi chirurgici), si aggrappa alla vita. Resuscita. Può muovere solo la testa e le mani. E allora dipinge. Il padre costruisce un letto a baldacchino con un grande specchio dove potesse riflettersi. Frida ritrae sé stessa. Autoritratti del dolore. ‘La pittura è diventata l’unica ragione per aspettare l’alba’.


Frida si alza in piedi, cammina, azzittisce i medici. Prende i suoi quadri. Grida verso le impalcature sulle quali, al ministero della Pubblica Istruzione, sta lavorando Diego Rivera, il più grande muralista messicano. Vuole che veda ciò che ha dipinto e lui guarda le sopracciglia di quella ragazza: sono unite, sembrano le ali di un ‘gabbiano nero’. La bellezza di Frida è irripetibile. E’ incantato, Diego. E non riesce a staccare i suoi occhi da quei quadri e da lei. L’Elefante e la Colomba: Frida è uno scricchiolo, Diego ha vent’anni di più, è alto il doppio, è immenso, grasso, pesa tre volte di più. E’ orribile, Diego. Un rospo. Frida e Diego si amano con passione violenta, tenerissima, assoluta. Si tradiscono. Diego seduce ogni donna che incontra. Si sposano, divorziano, si risposano. La loro vita è un tumulto da scandalo. E’ un amore totale, spezzato, disperato, pieno. Sono la vita, Frida e Diego. Sono la vita di quegli anni terribili e palpitanti di sangue e cuore. Si combatte in Spagna, i comunisti si sparano alla schiena, León Tročkij (anche lui si è innamorato come un bambino di Frida) è assassinato in Messico, il mondo nuovo si sta sbriciolando nella violenza. Frida dipinge, dipinge, dipinge. Dipinge sé stessa. I suoi autoritratti scorticano l’anima. Picasso scrive a Diego: ‘Né tu, né io saremo mai capaci di dipingere una testa come quella di Frida Kahlo’. Il surrealista Andrè Breton arriva in Messico e si inchina davanti alla pittura di Frida (naturalmente se ne innamora). Cerca di catalogarla nell’universo surrealista. Battaglia persa: ‘Ho sempre dipinto la mia realtà. Non i miei sogni’. Ma nei suoi diari è annotato anche: ‘La vita non avrebbe senso senza i sogni’. Frida è davvero il Messico, incomprensibile agli occhi degli stranieri. Oggi Frida, è certo Pino Cacucci, lo scrittore italiano che ha saputo narrarci le grandi donne del Messico, dedicherebbe un suo autoritratto al subcomandante Marcos.








Breton porta il lavoro di Frida a Parigi prima che sull’Europa si abbatta l’uragano della guerra. Lei si ostina a guardare in faccia il dolore. Chiede aiuto alla morfina per il corpo, al brandy per l’anima, ma i suoi occhi sono sempre aperti. Nemmeno la morte riesce a chiuderli. Pochi giorni prima di morire, un giorno di luglio del 1954, stagione delle piogge ai duemila metri della Ciudad de Mexico, lascia una piccola frase nel suo diario: ‘Continuerò a scriverti con i miei occhi’.


(Questa piccola pagina deve quasi tutto a un libretto di Pino Cacucci. ‘Viva la Vida!’ edito da Feltrinelli. Pino ha passato buona parte della sua vita a inseguire i ‘magnifici fantasmi’ di tre donne che hanno attraversato la storia del Messico in quegli anni formidabili fra il 1920 e il 1940. Donne che cambiarono davvero un mondo. E io ho passato lunghe giornata nella Casa Azul, Londres 247, là nella Ciudad, là dove Frida nacque e morì).




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