Non si può scrivere e inseguire la festa. Perdonate gli appunti, scritti alle cinque e mezza del mattino. Dopo una cena di pesce fra la città di tende delle praterie di Pedraretta (se non sbaglio in nome). Ricordo: questi sono appunti. Cambieranno. E io mi spiego lo stupido desiderio di scriverne subito. Questa è la giornata di sabato, primo giorno della Festa.
Calma strana nella piazza con gli alberi di Rotonda. Una
bella giornata. Il sole, finalmente, scalda gli animi. Qualche chiacchiera
davanti ai negozi. Il suono leggero delle parole. Il paese cerca di far finta
che sia un giorno come gli altri. Le luminarie non sono state ancora accese. Ma
tutto è pronto. Il desiderio irraccontato che la festa cominci. Le ore,
improvvisamente, sembrano lente. Si cerca di far passare il tempo. Fuori dalla piazza,
il paese sembra deserto. Torna la gente da fuori. Macchine con targhe della Svizzera
o del Nord. Cercano di spiegarmi il tempo della festa. Ci si informa sui
compagni di gruppo: chi andrà con la Rocca a tagliare l’abete da innestare
sulla pitu; chi, invece, è fedele al
gruppo dell’albero più grande.
Salgo fra la crocchia dei vicoli di pietra della vecchia
Rotonda. Una donna si riposa sulla panchina all’ombra della chiesa della
Vergine Addolorata. La Madonna mostra il suo cuore trafitto nel gesso di una
statua. Io vorrei che dimenticasse il suo dolore e si unisse all’attesa della
festa.
E’ bella Rotonda. Sorprende con un intrico di vicoli
irraggiungibili dalle auto. Gradini, pietre lisciate dai passi, scale, pertugi
di strade, uno scultore che lascia le sue tracce quasi in ogni angolo, si è
perfino inventato una fontana dal volto di pecora. Spazzi di terra colmi di
fiori. Muretti al confine fra le case e la campagna. Rocce su cui poggiano le
fondamenta degli edifici. Improvvise case nobiliari di un potere perduto e
antico. Architravi di una ricchezza passata. Porte con cartelli di vendesi. Ma anche impalcature per i
lavori necessari a rinnovare i luoghi della famiglia. Gatti immobili e cani che
alzano la testa di fronte al passaggio di uno sconosciuto. Il saluto a due
vecchie che stanno sedute davanti al portone di casa.
Nelle praterie di Pedraretta, attorno al rifugio Fasinelli,
nasce la città della festa. I ragazzi dei gruppi
montano tende con cerate dai riflessi blu, scheletri di tubi Innocenti, si
porta la legna, si collegano rubinetti alle sorgenti, arrivano le panche, i
tavoli, le sedie, le griglie, i frigoriferi, i generatori. Si scaricano camion
e furgoni. Accampamento di nomadi. Si popola la montagna. Assomiglia a un
luna-park improvvisato. Un paese si trasferisce alle altitudini del Pollino.
Sembra un’immagine di Salgado. C’è un riflesso da Bibbia profana e popolare.
Qui si cerca l’allegria. Rito che si ripete ogni anno. Qualcuno non resiste
all’attesa e comincia già a grigliare la carne. Cibo e vino, come strumenti del
sacro-pagano. La festa è questa. Lo stare nella montagna. Ogni tendone, un gruppo. Riunito per legami di famiglia o
di amicizia. Ci sono i vecchi compagni di scuola o i compagni del lavoro. Questo
devo impararlo. La festa qui si disperde nei boschi. Ognuno ha un suo compito.
Il corteo dei buoi, fra due giorni, deve essere trionfale. Per devozione a
Sant’Antonio, si offrono gli alberi. Mi contano i gruppi (altrettanti tendoni,
quartieri che stanno nascendo della città di Pedraretta): sono almeno ventotto,
mi dicono. Andranno, ognuno, a tagliare un faggio, le porfiche, da offrire al Santo. Da vendere, poi, all’asta. Ogni
gruppo ha la sua coppia di buoi. Attorno alla pitu quest’anno saranno diciassette le coppie degli animali. Buoi
della chianina, comprati in Toscana quando erano ancora vitelli. Buoi
bellissimi, dalle gambe da giocatore di pallacanestro, dalla grande testa. Corna
imperiose. Le loro zampe hanno la fragilità della bellezza. Si irrobustiscono
nei boschi del Pollino. Dimenticano le piane della Toscana e si irruvidiscono.
Sono di una eleganza raffaelliana. Ma con il lavoro nei boschi si trasformano
nella forza di un pittore di campagna.
Dalle griglie esce il fumo con gli odori della pancetta, del
pollo, del maiale. I lavori rallentano attorno all’ora del pranzo. Poi riprendono. Si fanno turni.
Bisogna andare a prendere gli animali. Sì, la festa sta per cominciare.
Incontro ragazzi che studiano da infermieri. Progettano una
casa per anziani come possibile futuro al paese. Il lavoro è il pensiero di
ognuno di loro. Vogliono vivere qua. ‘Si vive bene se hai un lavoro’. Non ho
una risposta, non so più cosa voglia dire un
altro mondo possibile. Mi appare questo un possibile mondo. Mangiamo in
piedi carne di maiale arrostita. Gioia pura. I ragazzi non avvertono la fatica.
L’accampamento sembra improvvisato: in realtà, è figlio di infinite riunioni al
bar del paese. E’ fatica la festa. E’ denaro: in un gruppo mi dicono che si
sono tassati con duecento euro a testa. C’è il cibo, il fitto dei buoi per
tirare la porfica, la benzina, i
materiali. C’è della follia generosa in questa città dei boschi. In questo
paese in trasferta.
E’ l’ora dei buoi. La festa pagana si incrocia con la
religione. E’ un affratellamento. Un patto siglato secoli fa. Il prete aspetta
in piazza Sant’Antonio, ritaglio di pietra fra le case. C’è un podio di gradini
sotto una grande croce. La chiesa fa da barriera al sole. Orti pensili.
Terrazze che si affacciano. I buoi vengono dalle campagne. Risalgono gli
stradelli. Sono maestosi e immensi. Alcuni superano i due metri al garrese.
Esibizione di bellezza e orgoglio. Gli uomini devono tenere le braccia alte per
comandarli. Gli zoccoli si distraggono sulle pietre lisce. Un animale scivola,
si riprende. I vecchi sono seduti sulle panchine, poggiano le mani sul bastone,
si lasciano sfuggire qualche frase, indicano le bestie, qualche ragazzo si
stacca dal corteo e va a salutare il parente. Merda di bue ora sta arredando il
paese fra l’indifferenza della gente. Fate attenzione: non state dietro i buoi.
Possono scalciare. Gli animali affollano la piazza di Sant’Antonio. Schiene
possenti, spuntano solo le teste dei mandriani. Il prete ha un cappello da
chiesa nero e un aspersorio in mano. E’ del paese, don Stefano e sa cosa è questo
incontro di animali e uomini. I buoi diventano docili, si accerchiano attorno
alla croce di pietra, il sole cerca di entrare nella piazza, ombre nette. Mi
arrampico, con acrobazie goffe, sul muro di un orto e mi ritrovo in un
controluce perfetto. Mi godo il raduno dei buoi e le parole della benedizione. Gli
animali si appoggiano l’uno all’altro. I ragazzi hanno la schiena al muro e la
pazienza della montagna. I loro capelli sono scalpati da creste indiane.
La festa è cominciata e non me ne sono accorto. E’ diventata
normalità. Ha un suo ritmo nella
lentezza. Ma, se sei di fuori, non ne afferri i passaggi. I paesani sanno cosa
devono fare, turisti (non ce ne sono) no. I buoi ruotano nuovamente attorno al
paese. Tornano nelle campagne. Qualcuno già sale verso le montagne. Le donne portano
i dolci fatti a casa. Li offrono dalle ceste. C’è la tredicina nella Chiesa Madre. Tredici giorni di preghiere e litanie
per il Santo. Il paese prova di nuovo a scomparire. Chi seguire? L’appuntamento
ora è nella notte. A casa del vicecaporale della Rocca, il gruppo che andrà
lontano nella montagna a tagliare l’abete. Cento e cinquanta persone che
vivranno in Pollino per tre giorni. Un piccolo esercito di uomini e donne. Con
addosso l’ebbrezza della salita nella notte. Questi, mi dicono, sono quelli tosti. Mossi da devozione e orgoglio.
Non saprei spiegarvi con l’intreccio delle parole cosa li spinge a questa
fatica: una sensazione di fratellanza, cameratismo, fede popolare, gioia di una
trasgressione da compiere tutti assieme, patto di amicizia che regge negli
anni. Le cariche del gruppo sono
ereditarie. Mi spiegano il legame di parentela dell’attuale caporale con chi lo ha preceduto. Nella
notte, trovo la sua casa. Uomini e donne. Bambini fra le gambe. Tavole
imbandite. Camion già carichie di masserizie. Dal barbiere ho incontrato il
responsabile della cucina. Cinquanta chili di carne solo per i ragù. Pentoloni
sul cassone del camion. Frigoriferi. Gruppi elettrogeni. I furgoni del lavoro,
per tre giorni, sono dati alla festa. Questi, in una montagna di migrazione,
sono i giorni dell’abbondanza. Il mondo che ho lasciato alle mie spalle
saprebbe fermarsi per sei giorni di festa? Saprebbe donarsi sei giorni di
libertà? Senza chiedere nulla in cambio.
Ancora una chiesa. Il Santuario della Maria Santissima della
Consolazione. Come vorrei una Madonna gioiosa, così felice da dimenticare i
suoi affanni e scendere in mezzo alla sua gente. A mezzanotte, litanie dei
paesani di fronte all’ingresso del santuario. Voce di un uomo. Un altro uomo in
ginocchio. Due buoi. Cerchio di popolo. Si recitano i nomi della Madonna. I
novantanove nomi di Dio. O era Allah, ad averne novantanove. Come grani di un rosario islamico. Come le dita
che scorrono i grani di un rosario cristiano. In una casa del paese ho
fotografato un ritratto di padre Pio accanto a un pupazzetto dei cartoni
animati, una Vergina Addolorata vicino a un ferro di cavallo. Penso al mio
sacerdote del voodoo haitiano. E se fosse possibile riunirsi qui a Rotonda di
fronte ai nomi della Madonna e di Allah, di fronte ai simboli della fede e
della fortuna di una Lucania profonda e una religione dei Caraibi.
Mi sono perso nella notte. Forse è merito della trance delle
litanie notturne al santurio della Maria Santissima.
Ora il gruppo della Rocca si mette in cammino. I buoi
davanti. Un camion li precede. Un’ape è addobbata con le immagini del Santo e i
suoi fiori bianchi. Passi verso la montagna. Una ragazza sorride e saluta: ‘Ho
deciso di fare queste esperienza’. Ha un cammino troppo svelto. E’ inabituata
alla montagna. Imparerà questa notte. Se ne vanno. So che hanno ore di marcia davanti.
Useranno qualche trucco, a volte saliranno in qualche macchina per riposare.
All’alba saranno in prateria di vetta. In cerca di un abete che già sanno
dov’è. L’anno prossimo camminerò con voi.
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