lunedì 10 giugno 2013

Appunti quasi pubblici per i giorni di Rotonda/Che la festa cominci

Non si può scrivere e inseguire la festa. Perdonate gli appunti, scritti alle cinque e mezza del mattino. Dopo una cena di pesce fra la città di tende delle praterie di Pedraretta (se non sbaglio in nome). Ricordo: questi sono appunti. Cambieranno. E io mi spiego lo stupido desiderio di scriverne subito. Questa è la giornata di sabato, primo giorno della Festa.


Calma strana nella piazza con gli alberi di Rotonda. Una bella giornata. Il sole, finalmente, scalda gli animi. Qualche chiacchiera davanti ai negozi. Il suono leggero delle parole. Il paese cerca di far finta che sia un giorno come gli altri. Le luminarie non sono state ancora accese. Ma tutto è pronto. Il desiderio irraccontato che la festa cominci. Le ore, improvvisamente, sembrano lente. Si cerca di far passare il tempo. Fuori dalla piazza, il paese sembra deserto. Torna la gente da fuori. Macchine con targhe della Svizzera o del Nord. Cercano di spiegarmi il tempo della festa. Ci si informa sui compagni di gruppo: chi andrà con la Rocca a tagliare l’abete da innestare sulla pitu; chi, invece, è fedele al gruppo dell’albero più grande.

Salgo fra la crocchia dei vicoli di pietra della vecchia Rotonda. Una donna si riposa sulla panchina all’ombra della chiesa della Vergine Addolorata. La Madonna mostra il suo cuore trafitto nel gesso di una statua. Io vorrei che dimenticasse il suo dolore e si unisse all’attesa della festa.
E’ bella Rotonda. Sorprende con un intrico di vicoli irraggiungibili dalle auto. Gradini, pietre lisciate dai passi, scale, pertugi di strade, uno scultore che lascia le sue tracce quasi in ogni angolo, si è perfino inventato una fontana dal volto di pecora. Spazzi di terra colmi di fiori. Muretti al confine fra le case e la campagna. Rocce su cui poggiano le fondamenta degli edifici. Improvvise case nobiliari di un potere perduto e antico. Architravi di una ricchezza passata. Porte con cartelli di vendesi. Ma anche impalcature per i lavori necessari a rinnovare i luoghi della famiglia. Gatti immobili e cani che alzano la testa di fronte al passaggio di uno sconosciuto. Il saluto a due vecchie che stanno sedute davanti al portone di casa.

Nelle praterie di Pedraretta, attorno al rifugio Fasinelli, nasce la città della festa. I ragazzi dei gruppi montano tende con cerate dai riflessi blu, scheletri di tubi Innocenti, si porta la legna, si collegano rubinetti alle sorgenti, arrivano le panche, i tavoli, le sedie, le griglie, i frigoriferi, i generatori. Si scaricano camion e furgoni. Accampamento di nomadi. Si popola la montagna. Assomiglia a un luna-park improvvisato. Un paese si trasferisce alle altitudini del Pollino. Sembra un’immagine di Salgado. C’è un riflesso da Bibbia profana e popolare. Qui si cerca l’allegria. Rito che si ripete ogni anno. Qualcuno non resiste all’attesa e comincia già a grigliare la carne. Cibo e vino, come strumenti del sacro-pagano. La festa è questa. Lo stare nella montagna. Ogni tendone, un gruppo. Riunito per legami di famiglia o di amicizia. Ci sono i vecchi compagni di scuola o i compagni del lavoro. Questo devo impararlo. La festa qui si disperde nei boschi. Ognuno ha un suo compito. Il corteo dei buoi, fra due giorni, deve essere trionfale. Per devozione a Sant’Antonio, si offrono gli alberi. Mi contano i gruppi (altrettanti tendoni, quartieri che stanno nascendo della città di Pedraretta): sono almeno ventotto, mi dicono. Andranno, ognuno, a tagliare un faggio, le porfiche, da offrire al Santo. Da vendere, poi, all’asta. Ogni gruppo ha la sua coppia di buoi. Attorno alla pitu quest’anno saranno diciassette le coppie degli animali. Buoi della chianina, comprati in Toscana quando erano ancora vitelli. Buoi bellissimi, dalle gambe da giocatore di pallacanestro, dalla grande testa. Corna imperiose. Le loro zampe hanno la fragilità della bellezza. Si irrobustiscono nei boschi del Pollino. Dimenticano le piane della Toscana e si irruvidiscono. Sono di una eleganza raffaelliana. Ma con il lavoro nei boschi si trasformano nella forza di un pittore di campagna.
Dalle griglie esce il fumo con gli odori della pancetta, del pollo, del maiale. I lavori rallentano attorno all’ora del  pranzo. Poi riprendono. Si fanno turni. Bisogna andare a prendere gli animali. Sì, la festa sta per cominciare.

Incontro ragazzi che studiano da infermieri. Progettano una casa per anziani come possibile futuro al paese. Il lavoro è il pensiero di ognuno di loro. Vogliono vivere qua. ‘Si vive bene se hai un lavoro’. Non ho una risposta, non so più cosa voglia dire un altro mondo possibile. Mi appare questo un possibile mondo. Mangiamo in piedi carne di maiale arrostita. Gioia pura. I ragazzi non avvertono la fatica. L’accampamento sembra improvvisato: in realtà, è figlio di infinite riunioni al bar del paese. E’ fatica la festa. E’ denaro: in un gruppo mi dicono che si sono tassati con duecento euro a testa. C’è il cibo, il fitto dei buoi per tirare la porfica, la benzina, i materiali. C’è della follia generosa in questa città dei boschi. In questo paese in trasferta.

E’ l’ora dei buoi. La festa pagana si incrocia con la religione. E’ un affratellamento. Un patto siglato secoli fa. Il prete aspetta in piazza Sant’Antonio, ritaglio di pietra fra le case. C’è un podio di gradini sotto una grande croce. La chiesa fa da barriera al sole. Orti pensili. Terrazze che si affacciano. I buoi vengono dalle campagne. Risalgono gli stradelli. Sono maestosi e immensi. Alcuni superano i due metri al garrese. Esibizione di bellezza e orgoglio. Gli uomini devono tenere le braccia alte per comandarli. Gli zoccoli si distraggono sulle pietre lisce. Un animale scivola, si riprende. I vecchi sono seduti sulle panchine, poggiano le mani sul bastone, si lasciano sfuggire qualche frase, indicano le bestie, qualche ragazzo si stacca dal corteo e va a salutare il parente. Merda di bue ora sta arredando il paese fra l’indifferenza della gente. Fate attenzione: non state dietro i buoi. Possono scalciare. Gli animali affollano la piazza di Sant’Antonio. Schiene possenti, spuntano solo le teste dei mandriani. Il prete ha un cappello da chiesa nero e un aspersorio in mano. E’ del paese, don Stefano e sa cosa è questo incontro di animali e uomini. I buoi diventano docili, si accerchiano attorno alla croce di pietra, il sole cerca di entrare nella piazza, ombre nette. Mi arrampico, con acrobazie goffe, sul muro di un orto e mi ritrovo in un controluce perfetto. Mi godo il raduno dei buoi e le parole della benedizione. Gli animali si appoggiano l’uno all’altro. I ragazzi hanno la schiena al muro e la pazienza della montagna. I loro capelli sono scalpati da creste indiane.

La festa è cominciata e non me ne sono accorto. E’ diventata normalità. Ha un suo ritmo nella lentezza. Ma, se sei di fuori, non ne afferri i passaggi. I paesani sanno cosa devono fare, turisti (non ce ne sono) no. I buoi ruotano nuovamente attorno al paese. Tornano nelle campagne. Qualcuno già sale verso le montagne. Le donne portano i dolci fatti a casa. Li offrono dalle ceste. C’è la tredicina nella Chiesa Madre. Tredici giorni di preghiere e litanie per il Santo. Il paese prova di nuovo a scomparire. Chi seguire? L’appuntamento ora è nella notte. A casa del vicecaporale della Rocca, il gruppo che andrà lontano nella montagna a tagliare l’abete. Cento e cinquanta persone che vivranno in Pollino per tre giorni. Un piccolo esercito di uomini e donne. Con addosso l’ebbrezza della salita nella notte. Questi, mi dicono, sono quelli tosti. Mossi da devozione e orgoglio. Non saprei spiegarvi con l’intreccio delle parole cosa li spinge a questa fatica: una sensazione di fratellanza, cameratismo, fede popolare, gioia di una trasgressione da compiere tutti assieme, patto di amicizia che regge negli anni. Le cariche del gruppo sono ereditarie. Mi spiegano il legame di parentela dell’attuale caporale con chi lo ha preceduto. Nella notte, trovo la sua casa. Uomini e donne. Bambini fra le gambe. Tavole imbandite. Camion già carichie di masserizie. Dal barbiere ho incontrato il responsabile della cucina. Cinquanta chili di carne solo per i ragù. Pentoloni sul cassone del camion. Frigoriferi. Gruppi elettrogeni. I furgoni del lavoro, per tre giorni, sono dati alla festa. Questi, in una montagna di migrazione, sono i giorni dell’abbondanza. Il mondo che ho lasciato alle mie spalle saprebbe fermarsi per sei giorni di festa? Saprebbe donarsi sei giorni di libertà? Senza chiedere nulla in cambio.

Ancora una chiesa. Il Santuario della Maria Santissima della Consolazione. Come vorrei una Madonna gioiosa, così felice da dimenticare i suoi affanni e scendere in mezzo alla sua gente. A mezzanotte, litanie dei paesani di fronte all’ingresso del santuario. Voce di un uomo. Un altro uomo in ginocchio. Due buoi. Cerchio di popolo. Si recitano i nomi della Madonna. I novantanove nomi di Dio. O era Allah, ad averne novantanove. Come  grani di un rosario islamico. Come le dita che scorrono i grani di un rosario cristiano. In una casa del paese ho fotografato un ritratto di padre Pio accanto a un pupazzetto dei cartoni animati, una Vergina Addolorata vicino a un ferro di cavallo. Penso al mio sacerdote del voodoo haitiano. E se fosse possibile riunirsi qui a Rotonda di fronte ai nomi della Madonna e di Allah, di fronte ai simboli della fede e della fortuna di una Lucania profonda e una religione dei Caraibi.
Mi sono perso nella notte. Forse è merito della trance delle litanie notturne al santurio della Maria Santissima.

Ora il gruppo della Rocca si mette in cammino. I buoi davanti. Un camion li precede. Un’ape è addobbata con le immagini del Santo e i suoi fiori bianchi. Passi verso la montagna. Una ragazza sorride e saluta: ‘Ho deciso di fare queste esperienza’. Ha un cammino troppo svelto. E’ inabituata alla montagna. Imparerà questa notte. Se ne vanno. So che hanno ore di marcia davanti. Useranno qualche trucco, a volte saliranno in qualche macchina per riposare. All’alba saranno in prateria di vetta. In cerca di un abete che già sanno dov’è. L’anno prossimo camminerò con voi.





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