Diario della domenica,
primo, vero giorno della festa. Diario scritto in fretta. A sera che è quasi notte. Con due giorni di
ritardo. La scrittura non tiene il ritmo di questi giorni. ‘La scrittura è un
chiodo di pane, non scalfisce nulla, si sbriciola fra le mani’. Io ho l’ossessione
del ricordo. Scarico le foto, sono già oltre duemila e cinquecento. Alluvione
di immagini che non può tenere il passo di quanto scrivo con la voglia di
stendermi sul letto e dormire. Mi piace questa stanchezza. Ha il segno della
fatica buona.
La nebbia, al mattino della domenica, copre la valle del
Mercure. Umidità nell’aria. Giornata dai colori trasparenti. Salgo verso il Pollino, massiccio selvatico. Rotonda è deserta. La festa si è stremata nella notte in
montagna. Alle otto dormono ancora tutti negli accampamenti di Pedarreto, prateria attorno al rifugio Fasenelli. Notte
ubriaca, notte di quasi veglia e chiacchiere attorno al fuoco. Si esce dalle
tende controvoglia. Il gruppo della Rocca, la cima dell’innesto fra i due
alberi, è già perduto in alta quota. Loro, oltre cento persone, vanno sulla
montagna più lontana a rubare l’abete.
Sono in cammino dalla notte. Non riappariranno fino a domani sera. Io ho deciso di seguire il gruppo della chioppa, la gente che lavora alla pitu.
Salgo a piedi fino alla faggeta di Pizzalonga a cercare la pitu che oggi dovrà cadere. Alla fine mi
rivelano: la pitu è un nome di
nostalgia, sta per abete, ma l’ultimo abete di questa festa fu abbattuto nel
1947. Allora, mi dice il vecchio Michele, si innestava davvero abete su abete e, quella
volta, salirono in montagna, per scarpate senza strade, ben trentadue coppie di
buoi.
Fu presa allora la decisione di rendersi la vita più facile.
Non c’erano più grandi abeti, si scelse di scendere di quota, di andare a
prendere l’albero nelle faggete. Si decise che si poteva tagliare un faggio. Ma
si è continuato a chiamarlo pitu,
abete, perché questa è la sua festa.
L’abete vero è la Rocca, cima festosa dell’albero che, alla
fine, sarà innalzato davanti al municipio di Rotonda.
A frammenti ricostruisco storie della festa. Nei tempi
dell’antichità, un boscaiolo solitario tagliò, con sbadatezza, un grande abete.
Gli cadde addosso. Ne rimase prigioniero. Invocò l’aiuto di Sant’Antonio.
Riuscì a liberarsi. E per devozione, da allora, ogni anno, portò in dono al Santo un
abete. La festa, ad ascoltare un uomo che sta salendo nel bosco, è nata in
questa sacra leggenda. Nessun antropologo sembra aver azzardato altre origini. I ragazzi non sanno di questo mito. A loro la festa piace.
Restiamo a tempi vicini: fino al 1977 una coppia di buoi si
inginocchiava davanti all’altare della chiesa di Sant’Antonio. Abitudine che non
piacque al parroco di allora: proibì che si portassero i buoi nella navata
della chiesa. Nel 1985, invece, ci fu un referendum di paese a decidere che i
buoi dovevano tornare a tirare l’albero. La stagione dei trattori e della
pigrizia finì per scelta del popolo di Rotonda. Sulla scheda avevano messo
un trattore e un bue. L’animale vinse, mi dicono, per cinquecento voti contro
duecento. ‘Gli abbiamo stracciati’, si vanta ancor oggi un mandriano. Chissà chi
difendeva i trattori in un paese che, allora, aveva ricchezza di allevamenti. La festa è l'anima profonda di questa gente.
Biagio e i suoi grandi baffi mi indicano il sentiero per
salire fino alla pitu da tagliare.
Nessuno sul sentiero. Mi perdo. Vago a caso. Tento la fortuna ai bivi. Trovo il
cammino giusto.
La pitu, il grande
faggio, ha un’aria imponente. Le vecchie si arrampicano scivolando sulle
foglie. Si appoggiano al bastone e al braccio di un parente giovane. L’albero
va visto, avvicinato, toccato, sfiorato, venerato. Lo identifica il segno di una croce nella sua corteccia. Si alza per
venticinque metri. Ha 190 anni, saprò poi da Tonino, contabile del tempo degli
alberi. ‘Potrei essere più esatto se avessi tempo: dovrei levigare il suo legno
e ungerlo con olio per fare un conto attento. Ma anche così posso sbagliarmi solo di
tre o quattro anni’. Si sacrifica un albero di due secoli per una festa. Vale
la pena? Sì, vale la pena. La caduta di questo albero è un grido di vita per la
montagna.
Di colpo arrivano gli uomini con il peso delle motoseghe.
Hanno un’aria selvatica ed esperta. Hanno passi sicuri. Corpi massicci. Gambe solide. Mani che afferrano. E scarpe che non
perdono equilibri. C’è un lavoro da fare. Facciamolo, dunque. Cadono rami
vecchi. Il pericolo è inavvertito. I capi mettono in guardia, allontano a grida
i disattenti. Ma un uomo non fa in tempo a scansarsi e si prende un legno in
testa. Io evito con uno scarto un ramo che precipita in maniera obliqua.
La battaglia fra uomo e albero è ineguale. Non ha scampo il
legno. Non prova nemmeno a resistere. Cade in fretta, senza un avvertimento e
senza un gemito. Un rinoceronte abbattuto. Era come rassegnato. O, forse,
sapeva che il suo sacrificio era un pegno per gli uomini. Il tronco si ferma su
un fosso. Il vicecaporale chiama la gente: ora possono avvicinarsi. Si sfrega
la corteccia di muschi con le mani. Si accarezza il legno. Zi’Maria ha i foglietti in mano, ma sa di latino senza aiuto. E’
lei che, da dieci anni, intona canti, litanie, preghiere in lingua antica per
ingraziarsi Sant’Antonio. E’ la prima benedizione della festa. Si invoca il
Santo. Si ricordano i morti. Strano e, ai miei occhi stranieri, quasi
contradditorio che, in un giorno di festa, si voglia rammentare malinconie. O,
forse, questa è la maniera di far partecipare chi non è arrivato fino a questo
giorno. Ognuno ha un suo caro da ricordare. Una donna chiede parole per i
ragazzi che se ne sono andati in un anno di lutti. Esiste un anno che non sia
di lutti? E di gioie. Gli occhi si arrossano di lacrime che provano a scendere
dagli occhi. Il dolore qua ha sensazioni fisiche. E' fremito di occhi, labbra che si piegano in una assenza. Ora capisco questo ricordo di
malinconie e giorni neri. Zi’ Maria
narra le sue litanie e si guarda attorno. La donna delle preghiere è un ruolo
che si eredita negli anni. Lei vorrebbe insegnare a delle giovani. Il popolo di
Rotonda appoggia le mani sul grande albero. Quasi un talismano. Un tocco sacro.
A me piacerebbe che le preghiere sapessero raccontare anche una felicità e non solo
una tristezza. Questi giorni sono di festa. Davvero: che partecipi anche chi
non c’è più.
Parlano tutti un dialetto stretto. Anche i ragazzi. Mi piace
questo riconoscersi fra loro. Questa lingua ha il ritmo del cupa-cupa, singolare tamburo lucani dai
bassi come contraccolpi. Mi piace che una ragazza che studia a Roma qua parli con il suo ragazzo in puro rotondese.
La gente dei boschi lavora con sapienza. Taglia i rami con
velocità. Sfronda. Le motoseghe si rincorrono. Nessuna esitazione. Lavorano in
tanti. I ragazzi raccolgono le legna e le ammucchiano. C’è un giovane rasta che
dà mano con serietà. I ragazzi scrutano per imparare, ascoltano i comandi degli
esperti. ‘C’è rispetto’, mi dice un ragazzo con una cresta svettante sopra la
sua testa. Ci si muove con abilità. Gli uomini indossano tute da operaio. C’è un
ragazzo con gli occhiali scuri che si muove con la sicurezza di un anziano. Maestro
dell’arte di tagliar rami. Scena grandiosa di un lavoro collettivo.
Bisogna far scendere l’albero fino a un terreno piano. Gioco
e intreccio di carrucole e di forza. Corde di ferro che tirano. Gli uomini
conoscono il mestiere dei boschi. L’albero striscia nella terra, si trascina
dietro onde di foglie. Scavalca un dosso. E arriva al piano con un tonfo attutito. Ora è il tempo di
altri esperti. L’albero deve essere squadrato. Ci vogliono occhi che sanno
vedere. Si tira una corda gessata. I capi discutono, guardano e misurano,
chiudono un occhio e sembrano prendere la mira di un bersaglio. Cosa vedono?
Devono fare una riga diritta. Capire come imbrogliare nodi e curve dell’albero.
Passano una spugna intinta di rosso sulla corda. Perché poi lasci tracce sul
legno. Mi piace il clip con le dita
con le quali fanno vibrare il filo. Così si lascia la riga rossa che dovrà guidare
i denti delle motoseghe. Bisogna correggere i difetti della pitu. Deve diventare perfetta. Un lungo
parallelepipedo. Bisogna ‘raddrizzare’ le sue curve. Non bisogna tagliarlo: non
si può arrivare in paese con un albero troppo corto. La lunghezza massina è di
22 metri. Altrimenti non può girare per la piazza di Rotonda. Si può accorciare
di mezzo metro. Non di più. Ne va l’orgoglio della gente dell’abete.
Michele ha 83 anni. E l’aria assorta e un po’ dubbiosa. I suoi occhi vedono. Giudicano. Tutti ascoltano i suoi consigli. Ha lavorato nei boschi fin da ragazzo. E’
salito alla sua prima pitu nel 1946.
Sessantasette anni fa. In tutto questo tempo, ha saltato solo una volta la
festa. Non gli dettero la licenza dal militare. Si capisce che avrebbe voglia
di tenere in mano la scure. Non può. Ma i suoi suggerimenti sono preziosi per
chi sta modellando la pitu. E’
ascoltato con orecchi di attenzione.
Il faggio che tutti chiamano abete deve diventare bello. Ci tengono gli uomini delle
motoseghe. Dibattono sulle caratteristiche
dei loro strumenti. Qui si ama la motosega Husqvarma.
Io credevo che fosse la marca di una
birra. Passano le donne con i cesti del prosciutto, dei salami, del pane, dei
dolci. Passano con il vino e il bicchiere. Mi toccano una spalla: mi offrono limoncello.
Bevo con piacere. Gli uomini, dritti sul tronco e guidati da chi osserva il
lavoro delle loro lame, squadrano l’albero. Mutano la sua forma. Perderà la sua
rotondità. Per diventare un lungo rettangolo.
Le festa si disperde nei boschi. I gruppi (si chiamano i facoceri, i benedetti di Sant’Antonio, la terribbila…) accampati a Pedarreto vanno a tagliare
altri alberi. Devozione arborea a Sant’Antonio. Quest’anno si taglieranno
ventotto alberi. Altrettante coppi di buoi dovranno trasportarli. Alla fine saranno venduti all'asta.
Vado in cerca
del piccolo gruppo che ha il compito di prepare la ualanedda. Come
faccio a spiegarvi che cos’è? La pitu è
trainata da un corteo di diciassette pariglie di buoi. Gli animali sono
aggiogati a una serie di stanghe. La prima è la ualanedda. E’ un giovane faggio che dovrà funzionare come il tirante più importante di un complesso ingranaggio. I ragazzi girano per il bosco alla ricerca
di quest’ albero. Deve essere lungo fino a quattro metri e mezzo. Deve essere
fresco, in vegetazione, avere un ramo in alto. Deve essere dummolo, flessibile. Questo faggio è destinato a essere sfibrato,
deve cedere senza rompersi, bisognerà piegarlo a novanta gradi senza che si
spezzi. Dovrà sostenere il peso della pitu
e la forza dei buoi: i due animali più alti saranno aggiogati alla ualanedda. Per convincere il giovane
faggio a piegarsi bisogna focarlo,
accendere un fuoco alla sua base. L’albero non brucia, ma si cuoce. Gli uomini appendono corde alla sommità del
tronco. Fanno oscillare il faggio. Si colpisce il tronco con il dorso della
scure. E’ un lavoro lento e di cura. Ci vuole pazienza. Alla fine, il legno
cede, gli uomini incoraggiano il legno e, nel fumo, riescono a piegare l’albero
senza spezzarlo.
Risalgo il bosco con Antonio. 80 anni. Mi offre vino e
cammina piano. Riprende fiato. Ha festeggiato i cinquanta anni di matrimonio e
i venti della pensione. Oramai conta anche i mesi. Come sarò fra venti
anni? Guardo i suoi passi, ascolto il suo respiro. Mi mostra un albero che si è
diviso in tre: ‘Ho visto le metamorfosi di questo albero’. Mi annoto
mentalmente il luogo. Vorrei vedere anch’io i suoi cambiamenti.
La pitu,
perfettamente squadrata, ora giace nella radura. Gli uomini tirano su la cinta
dei pantaloni. Strizzano le pance forti. Non mostrano stanchezza. Hanno fatto
un buon lavoro. L’albero passerà qui la sua ultima notte nel bosco. Dovrà
prendere commiato dalla foresta dove ha vissuto quasi due secoli.
Ceno all’accampamento. Ospite della gente di Viggianello, il
paese che ho conosciuto lo scorso anno. Hanno acceso un grande fuoco.
Arrostiscono carne e donano la sorpresa di un assaggio di calamari. Bevo vino aglianico
e ascolto in silenzio le parole della gente dei boschi. Questa è stata la
domenica della festa.
Dalla domenica, 9 di giugno, Rotonda, paese del Pollino, Lucania.
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