martedì 11 giugno 2013

Appunti quasi pubblici (per di più in ritardo) dei giorni di Rotonda/La caduta dell’abete che, in realtà, è un faggio



Diario della domenica, primo, vero giorno della festa. Diario scritto in fretta. A sera che è quasi notte. Con due giorni di ritardo. La scrittura non tiene il ritmo di questi giorni. ‘La scrittura è un chiodo di pane, non scalfisce nulla, si sbriciola fra le mani’. Io ho l’ossessione del ricordo. Scarico le foto, sono già oltre duemila e cinquecento. Alluvione di immagini che non può tenere il passo di quanto scrivo con la voglia di stendermi sul letto e dormire. Mi piace questa stanchezza. Ha il segno della fatica buona.


La nebbia, al mattino della domenica, copre la valle del Mercure. Umidità nell’aria. Giornata dai colori trasparenti. Salgo verso il Pollino, massiccio selvatico. Rotonda è deserta. La festa si è stremata nella notte in montagna. Alle otto dormono ancora tutti negli accampamenti di Pedarreto, prateria attorno al rifugio Fasenelli. Notte ubriaca, notte di quasi veglia e chiacchiere attorno al fuoco. Si esce dalle tende controvoglia. Il gruppo della Rocca, la cima dell’innesto fra i due alberi, è già perduto in alta quota. Loro, oltre cento persone, vanno sulla montagna più lontana a rubare l’abete. Sono in cammino dalla notte. Non riappariranno fino a domani sera. Io ho deciso di seguire il gruppo della chioppa, la gente che lavora alla pitu.

Salgo a piedi fino alla faggeta di Pizzalonga a cercare la pitu che oggi dovrà cadere. Alla fine mi rivelano: la pitu è un nome di nostalgia, sta per abete, ma l’ultimo abete di questa festa fu abbattuto nel 1947. Allora, mi dice il vecchio Michele, si innestava davvero abete su abete e, quella volta, salirono in montagna, per scarpate senza strade, ben trentadue coppie di buoi.
Fu presa allora la decisione di rendersi la vita più facile. Non c’erano più grandi abeti, si scelse di scendere di quota, di andare a prendere l’albero nelle faggete. Si decise che si poteva tagliare un faggio. Ma si è continuato a chiamarlo pitu, abete, perché questa è la sua festa.
L’abete vero è la Rocca, cima festosa dell’albero che, alla fine, sarà innalzato davanti al municipio di Rotonda.

A frammenti ricostruisco storie della festa. Nei tempi dell’antichità, un boscaiolo solitario tagliò, con sbadatezza, un grande abete. Gli cadde addosso. Ne rimase prigioniero. Invocò l’aiuto di Sant’Antonio. Riuscì a liberarsi. E per devozione, da allora, ogni anno, portò in dono al Santo un abete. La festa, ad ascoltare un uomo che sta salendo nel bosco, è nata in questa sacra leggenda. Nessun antropologo sembra aver azzardato altre origini. I ragazzi non sanno di questo mito. A loro la festa piace.
Restiamo a tempi vicini: fino al 1977 una coppia di buoi si inginocchiava davanti all’altare della chiesa di Sant’Antonio. Abitudine che non piacque al parroco di allora: proibì che si portassero i buoi nella navata della chiesa. Nel 1985, invece, ci fu un referendum di paese a decidere che i buoi dovevano tornare a tirare l’albero. La stagione dei trattori e della pigrizia finì per scelta del popolo di Rotonda. Sulla scheda avevano messo un trattore e un bue. L’animale vinse, mi dicono, per cinquecento voti contro duecento. ‘Gli abbiamo stracciati’, si vanta ancor oggi un mandriano. Chissà chi difendeva i trattori in un paese che, allora, aveva ricchezza di allevamenti. La festa è l'anima profonda di questa gente.

Biagio e i suoi grandi baffi mi indicano il sentiero per salire fino alla pitu da tagliare. Nessuno sul sentiero. Mi perdo. Vago a caso. Tento la fortuna ai bivi. Trovo il cammino giusto.

La pitu, il grande faggio, ha un’aria imponente. Le vecchie si arrampicano scivolando sulle foglie. Si appoggiano al bastone e al braccio di un parente giovane. L’albero va visto, avvicinato, toccato, sfiorato, venerato. Lo identifica il segno di una croce nella sua corteccia. Si alza per venticinque metri. Ha 190 anni, saprò poi da Tonino, contabile del tempo degli alberi. ‘Potrei essere più esatto se avessi tempo: dovrei levigare il suo legno e ungerlo con olio per fare un conto attento. Ma anche così posso sbagliarmi solo di tre o quattro anni’. Si sacrifica un albero di due secoli per una festa. Vale la pena? Sì, vale la pena. La caduta di questo albero è un grido di vita per la montagna.

Di colpo arrivano gli uomini con il peso delle motoseghe. Hanno un’aria selvatica ed esperta. Hanno passi sicuri. Corpi massicci. Gambe solide. Mani che afferrano. E scarpe che non perdono equilibri. C’è un lavoro da fare. Facciamolo, dunque. Cadono rami vecchi. Il pericolo è inavvertito. I capi mettono in guardia, allontano a grida i disattenti. Ma un uomo non fa in tempo a scansarsi e si prende un legno in testa. Io evito con uno scarto un ramo che precipita in maniera obliqua.
La battaglia fra uomo e albero è ineguale. Non ha scampo il legno. Non prova nemmeno a resistere. Cade in fretta, senza un avvertimento e senza un gemito. Un rinoceronte abbattuto. Era come rassegnato. O, forse, sapeva che il suo sacrificio era un pegno per gli uomini. Il tronco si ferma su un fosso. Il vicecaporale chiama la gente: ora possono avvicinarsi. Si sfrega la corteccia di muschi con le mani. Si accarezza il legno. Zi’Maria ha i foglietti in mano, ma sa di latino senza aiuto. E’ lei che, da dieci anni, intona canti, litanie, preghiere in lingua antica per ingraziarsi Sant’Antonio. E’ la prima benedizione della festa. Si invoca il Santo. Si ricordano i morti. Strano e, ai miei occhi stranieri, quasi contradditorio che, in un giorno di festa, si voglia rammentare malinconie. O, forse, questa è la maniera di far partecipare chi non è arrivato fino a questo giorno. Ognuno ha un suo caro da ricordare. Una donna chiede parole per i ragazzi che se ne sono andati in un anno di lutti. Esiste un anno che non sia di lutti? E di gioie. Gli occhi si arrossano di lacrime che provano a scendere dagli occhi. Il dolore qua ha sensazioni fisiche. E' fremito di occhi, labbra che si piegano in una assenza. Ora capisco questo ricordo di malinconie e giorni neri. Zi’ Maria narra le sue litanie e si guarda attorno. La donna delle preghiere è un ruolo che si eredita negli anni. Lei vorrebbe insegnare a delle giovani. Il popolo di Rotonda appoggia le mani sul grande albero. Quasi un talismano. Un tocco sacro. A me piacerebbe che le preghiere sapessero raccontare anche una felicità e non solo una tristezza. Questi giorni sono di festa. Davvero: che partecipi anche chi non c’è più.

Parlano tutti un dialetto stretto. Anche i ragazzi. Mi piace questo riconoscersi fra loro. Questa lingua ha il ritmo del cupa-cupa, singolare tamburo lucani dai bassi come contraccolpi. Mi piace che una ragazza che studia a Roma qua parli con il suo ragazzo in puro rotondese.

La gente dei boschi lavora con sapienza. Taglia i rami con velocità. Sfronda. Le motoseghe si rincorrono. Nessuna esitazione. Lavorano in tanti. I ragazzi raccolgono le legna e le ammucchiano. C’è un giovane rasta che dà mano con serietà. I ragazzi scrutano per imparare, ascoltano i comandi degli esperti. ‘C’è rispetto’, mi dice un ragazzo con una cresta svettante sopra la sua testa. Ci si muove con abilità. Gli uomini indossano tute da operaio. C’è un ragazzo con gli occhiali scuri che si muove con la sicurezza di un anziano. Maestro dell’arte di tagliar rami. Scena grandiosa di un lavoro collettivo.

Bisogna far scendere l’albero fino a un terreno piano. Gioco e intreccio di carrucole e di forza. Corde di ferro che tirano. Gli uomini conoscono il mestiere dei boschi. L’albero striscia nella terra, si trascina dietro onde di foglie. Scavalca un dosso. E arriva al piano con un tonfo attutito. Ora è il tempo di altri esperti. L’albero deve essere squadrato. Ci vogliono occhi che sanno vedere. Si tira una corda gessata. I capi discutono, guardano e misurano, chiudono un occhio e sembrano prendere la mira di un bersaglio. Cosa vedono? Devono fare una riga diritta. Capire come imbrogliare nodi e curve dell’albero. Passano una spugna intinta di rosso sulla corda. Perché poi lasci tracce sul legno. Mi piace il clip con le dita con le quali fanno vibrare il filo. Così si lascia la riga rossa che dovrà guidare i denti delle motoseghe. Bisogna correggere i difetti della pitu. Deve diventare perfetta. Un lungo parallelepipedo. Bisogna ‘raddrizzare’ le sue curve. Non bisogna tagliarlo: non si può arrivare in paese con un albero troppo corto. La lunghezza massina è di 22 metri. Altrimenti non può girare per la piazza di Rotonda. Si può accorciare di mezzo metro. Non di più. Ne va l’orgoglio della gente dell’abete.

Michele ha 83 anni. E l’aria assorta e un po’ dubbiosa. I suoi occhi vedono. Giudicano. Tutti ascoltano i suoi consigli. Ha lavorato nei boschi fin da ragazzo. E’ salito alla sua prima pitu nel 1946. Sessantasette anni fa. In tutto questo tempo, ha saltato solo una volta la festa. Non gli dettero la licenza dal militare. Si capisce che avrebbe voglia di tenere in mano la scure. Non può. Ma i suoi suggerimenti sono preziosi per chi sta modellando la pitu. E’ ascoltato con orecchi di attenzione.
Il faggio che tutti chiamano abete deve diventare bello. Ci tengono gli uomini delle motoseghe.  Dibattono sulle caratteristiche dei loro strumenti. Qui si ama la motosega Husqvarma. Io  credevo che fosse la marca di una birra. Passano le donne con i cesti del prosciutto, dei salami, del pane, dei dolci. Passano con il vino e il bicchiere. Mi toccano una spalla: mi offrono limoncello. Bevo con piacere. Gli uomini, dritti sul tronco e guidati da chi osserva il lavoro delle loro lame, squadrano l’albero. Mutano la sua forma. Perderà la sua rotondità. Per diventare un lungo rettangolo.

Le festa si disperde nei boschi. I gruppi (si chiamano i facoceri, i benedetti di Sant’Antonio, la terribbila) accampati a Pedarreto vanno a tagliare altri alberi. Devozione arborea a Sant’Antonio. Quest’anno si taglieranno ventotto alberi. Altrettante coppi di buoi dovranno trasportarli. Alla fine saranno venduti all'asta. 
Vado in cerca del piccolo gruppo che ha il compito di prepare la ualanedda. Come faccio a spiegarvi che cos’è? La pitu è trainata da un corteo di diciassette pariglie di buoi. Gli animali sono aggiogati a una serie di stanghe. La prima è la ualanedda. E’ un giovane faggio che dovrà funzionare come il tirante più importante di un complesso ingranaggio. I ragazzi girano per il bosco alla ricerca di quest’ albero. Deve essere lungo fino a quattro metri e mezzo. Deve essere fresco, in vegetazione, avere un ramo in alto. Deve essere dummolo, flessibile. Questo faggio è destinato a essere sfibrato, deve cedere senza rompersi, bisognerà piegarlo a novanta gradi senza che si spezzi. Dovrà sostenere il peso della pitu e la forza dei buoi: i due animali più alti saranno aggiogati alla ualanedda. Per convincere il giovane faggio a piegarsi bisogna focarlo, accendere un fuoco alla sua base. L’albero non brucia, ma si cuoce.  Gli uomini appendono corde alla sommità del tronco. Fanno oscillare il faggio. Si colpisce il tronco con il dorso della scure. E’ un lavoro lento e di cura. Ci vuole pazienza. Alla fine, il legno cede, gli uomini incoraggiano il legno e, nel fumo, riescono a piegare l’albero senza spezzarlo.

Risalgo il bosco con Antonio. 80 anni. Mi offre vino e cammina piano. Riprende fiato. Ha festeggiato i cinquanta anni di matrimonio e i venti della pensione. Oramai conta anche i mesi. Come sarò fra venti anni? Guardo i suoi passi, ascolto il suo respiro. Mi mostra un albero che si è diviso in tre: ‘Ho visto le metamorfosi di questo albero’. Mi annoto mentalmente il luogo. Vorrei vedere anch’io i suoi cambiamenti.

La pitu, perfettamente squadrata, ora giace nella radura. Gli uomini tirano su la cinta dei pantaloni. Strizzano le pance forti. Non mostrano stanchezza. Hanno fatto un buon lavoro. L’albero passerà qui la sua ultima notte nel bosco. Dovrà prendere commiato dalla foresta dove ha vissuto quasi due secoli.

Ceno all’accampamento. Ospite della gente di Viggianello, il paese che ho conosciuto lo scorso anno. Hanno acceso un grande fuoco. Arrostiscono carne e donano la sorpresa di un assaggio di calamari. Bevo vino aglianico e ascolto in silenzio le parole della gente dei boschi. Questa è stata la domenica della festa.
Dalla domenica, 9 di giugno, Rotonda, paese del Pollino, Lucania.






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