mercoledì 27 luglio 2011

Già, cos'è Dallol?


Già, cosa è Dallol?
Non lo so. Non l’ho capito. ‘Interazione fra vulcanismo e idrologia’, mi disse un francese. E tanto mi bastò. Suonava bene. Isolotto geyseriano: questo fa molto Islanda. Sta sopra la coltre salina della Piana. E’ salgemma, strati di argilla, gesso. E’ nato nell’olocene, mi spiegano. Ultima epoca del Quaternario. E’ recente, Dallol. Poco più di undicimila anni di vita. E’ vivo, Dallol. Forze tettoniche lo hanno sopraelevato, spinto verso l’alto. Lui si è rifiutato di trasformarsi in vulcano, ma lo è. Uno strano vulcano. Acque acide, sale, sole, vento, impossibili e violentissime piogge hanno trovato un deserto fertile per la loro arte. Il magma, un passo sottoterra, ha fatto bollire l’impasto vulcanico. Una polenta tettonica, ecco cos’è Dallol. E ancora non ha conosciuto quiete: il paesaggio qui è mutevole, non si mostra mai uguale, i Ginn si divertono a modificarne colori, sculture, anfratti. Dallol, facile a dirlo, è un altro pianeta.
Non ho nemmeno capito l’estensione di questo isolotto. I soldati non mi hanno mai consentito di far il periplo delle sue sponde. Non sono mai andato da una parte all’altra. Niente da fare. Con i militari non discuti, le guide oramai sono abituate a itinerari certi e non amano chi cerca qualche novità. Non capiscono. Incomunicabilità. Insomma, a seconda di chi leggi, Dallol è appena uno scoglio: poco più di un chilometro e mezzo da Est a Ovest. Appena seicento metri da Nord a Sud. Può essere che abbia una superficie di otto chilometri quadrati, come sostengono altri viaggiatori? Oppure è un ovale con un diametro di quasi sei chilometri? Non ne ho idea, giuro. Mi piace che Dallol rimanga un mistero, che inganni perfino chi pretende di misurarlo. Ci sono venuti a decine qui (ingegneri, vulcanologi, prospector, geologi), ma io non ho ancora letto qualcuno che mi dica con chiarezza cosa è Dallol, che mi faccia capire con parole semplici. I Ginn sono abili a confondere le idee.

I piedi sui fiori di Dallol

Dovrete rassegnarvi. Non ci sono dialoghi. Non ci sono personaggi e interpreti a Dallol. La natura prevale, azzittisce, forse intimorisce. Il vento toglie le parole. Gli occhi sono irritati da vapori acri. Non mi decido ad andare avanti. Il capitolo si preannuncia noioso. E’ il contrappasso della bellezza di questo luogo. Non vuole farsi raccontare, e c’è poco da fare: se qualcosa non accetta che le parole lo descrivano, bisogna ripiegare la propria superbia. Ammettere l’impossibilità.
Ci sgraniamo nella piccola salita. Un soldato in testa. Hussein è dietro a noi, la futà gli imprigiona le gambe e, allora, la solleva con le mani. Noi muoviamo passi incerti. Le pietre sono taglienti, aguzze, seghettate. Non si riesce mai a posare una suola in maniera orizzontale. Si cammina sbilenchi. Quasi zoppicando. Attenti a non cadere. Un’ascensione quasi ridicola. Si può andare in paradiso (o in un bellissimo inferno) grazie a una salitella facile facile? Dallol è così: non promette, ma poi mantiene una promessa non fatta.
Vediamo la lista della collezione: geysers gassosi, microvulcani, bastioni, pinnacoli, fumarole, concrezioni di evaporiti, muraglie, guglie attorcigliate, stalagmiti bianchissime, laghi salmastri, pozze di acque surreali, photoshop da deserto di sale, orgasmi di fotografi, maschere antigas per i più prudenti (i vapori di zolfo sono nuvole che tolgono il fiato e raspano gola e polmoni) o per i più sfacciati, la terra si spezza e si ricompone, schizzi di acqua bollente. E ancora: zolfo purissimo, magnesio, salamoia, soda solidificata (qualunque cosa voglia dire). Tavolozza di colori: verde giada, sfumature di cobalto, rosso granata, giallo-zolfo, porpora rugginosa, ocra spinto, arancio sulfureo, bianco perfetto. Arlecchino geologico. Ogni tinta è fuori gamma. Le praterie sono di sale rosso, il vento ha fatto da tagliaerba. Niente è normale a Dallol. E’ così splendente l’inferno? La geotermia è creativa e inquieta in questa Piana. Questo luogo è inaccessibile, ma noi ci stiamo camminando come in un outlet della meraviglia. Dallol, lo ripetiamo, non può esistere, eppure io, con sprezzo di ogni cautela, tocco con le dita uno schizzo di acqua rovente. E’ potente, Dallol. E’ fragilissimo. Con un passo sgretolo un dente di sale cristallizzato. Ne sono desolato. Ho staccato un’unghia a un capolavoro. Ma l’uomo può far parte di questo posto? Al solito, nei miei taccuini, non c’è nemmeno una traccia, non una sola parola su Dallol. Devo anche dirvi che cerco di resistere alla tentazione di guardare le foto che mi renderebbero visiva la memoria. Non sono qui per scrivere didascalie.

I colori di Dallol


Dovrei dirvi del primo geyser. Un pilastro vulcanico disseccato. Ha perso il suo colore. E’ sbiadito. Indifferente. Solitario. Un maggiordomo pallido che dice, controvoglia:‘Entrate’. Non annuncia nemmeno i fiori.

Il tappeto dei fiori di Dallol

I fiori sono sul tappeto. Anzi, sotto il tappeto. Qualcuno si è dimenticato di sistemarlo là per terra. E allora il sottosuolo è ben visibile. E i fiori sono a mazzi, hanno steli appuntiti, si divaricano in corone, non fanno crescere erba sotto la loro ombra. Rendono sorprendente l’ingresso a Dallol. Sono distesi in un campo. Sotto il sale è un gorgoglio pietrificato. I fotografi cominciano a sgranarsi.
Gli isolotti aspettano l’acqua.  A volte arriva e allora le loro sponde si erodono in una soluzione acida. Altrimenti stanno lì: arcipelago senza mare. Forme sferiche, potrebbero essere torte nuziali e, invece, sono funghi di soda e zolfo. Ci si diverte a saltare da uno all’altro. Parco giochi, sorrisi un po’ forzati. Felicità con qualche inafferrabile punta di disagio.
I ciambelloni sono pochi metri più. ‘Ambasha’, mi dice Khadir. Si vede che ha frequentato gente tigrina. E’ il pane dell’altopiano, il pane rotondo e piatto (farina di grano o di orzo), leggermente dolce, appena lievitato, della gente delle campagne del Nord. Qualcuno ha steso per terra questi pani. A seccare, immagino. Oramai sono duri come la pietra. Accerchiano un geyser spento. E’ il forno, mi viene da pensare: quasi li avesse sputati lui, questi ciambelloni. Sì, a ben vedere sembrano tanti splat di melassa magmatica gettati verso il cielo e ricaduti al suolo. Il sole li ha pietrificati.

Germogli di pietra

Poi basta girarsi attorno. I geysers reagiscono ai nostri passi con sbuffi di acqua calda. Ce ne accorgiamo e cerchiamo di ingannarli: ma loro non ci cascano, zampillano solo quando muoviamo veramente i piedi. I colori dei microvulcani sfumano. Dal bianco candido al verde-smeraldo. In mezzo, il giallo dello zolfo. Loro borbottano. Ci arrendiamo subito: sono decine e decine, centinaia e centinaia i geysers, i microgeysers, i finti geysers, i geysers nascosti, i geysers che fingono di essere spenti e che invece aspettano solo che ci si metta il naso sopra. Sono cresciuti in maniera tormentata. Vulcanismo secondario, se ho letto bene. Mi suggeriscono un nome bellissimo: hornitos. Sta per camini. Camini da forno. Foresta di hornitos, ecco. L’acqua sale e scende in qualche camera infuocata, prende la rincorsa ed esce verso il cielo. Qui sono spruzzi e bollicine. Attorno cominciano a correre nuvole di vapore. Fazzoletti bagnati sulla bocca, inutili mascherine sollevate sul viso, arretramenti di fronte alla folata. Si corre qualche rischio, a Dallol.

Il lago di Dallol

Acquitrino giallo. Non c’era la prima volta che sono stato qui. E’ il centro della collina, forse un antico cratere. Non sarei mai capace di ritrovare le orme dei miei passaggi precedenti. Avevo anch’io visto delle foto (scusate, non ho resistito), ma ero convinto che questa palude gialla fosse scomparsa in qualche sconvolgimento recente. Ho sempre pensato che qui, in estate, quando nessuno si avvicina alla fornace dancala, qualcuno ordini immensi lavori per cambiare scenografia. L’acquitrino va e viene, ha fondali instabili, traballanti, scheggiati. Dalla melma salmastra, affiorano rughe di sale cristallizzato. Il giallo, a tratti, diventa arancione maturo. Color albicocca. Si potrebbe camminare sui passaggi fragili, ma si corre il pericolo di pietrose sabbie mobili. Non si può stacca re lo sguardo dal lago giallo. Detriti salini sull’altra sponda. Come se qualcuno vi avesse costruito una banchina sconnessa.
L’acqua si fa verde-giada (come diavolo è il verde giada?), niente photoshop sul serio, non c’è nella gamma di un software questo colore. Ora il paesaggio è di vasche. Piscine tropicali. Bordature di sale, facendo qualche attenzione, si può camminare su queste cornici, sale bianchissimo, a cristalli grandi che giocano con i cromatismi. Se la vasca ha qualche profondità, il verde si incupisce, altrimenti è leggerezza. Viene voglia di tirarci dentro un sasso che non c’è. Hussein non si lascia sfuggire il momento: sa che un nero in mezzo a quel verde splendente e a quelle striature bianche è perfetto. Tira su la futà e cammina sui bordi fino a mettersi al centro della scena. Fa scivolare l’acqua acida da una mano all’altro. Attaccherò la foto nell’ingresso della mia casa, già lo so. 

I passi di Hussein


Hussein adesso ha voglia di giocare e di guadagnarsi la mancia. Ancora un po’ e si stancherà di un gioco sempre simile a sé stesso. Ma ora si diverte. Mi conosce. A suo modo mi vuole bene. Mi mostra una pozza e mi dice: ‘Africa….’. E ha ragione, in mezzo a Dallol, una pozzanghera scintillante di acque verdi ha la forma del continente. Hussein si mette in posa. Scattano in tanti. Cosa ce ne faremo di tutta questa ripetitiva fantasia digitale?
Alien è un calpestio di uova. Deve saltar fuori qualcosa da questi gusci traforati. Camminiamo su terreni crocchianti, come se calpestassimo fragilissime punte di vetro. Sono quadrati di sale bucherellati. La crosta terrestre è aperta. Qualcuno ha succhiato il contenuto delle uova. Qualcosa ne è davvero uscito. Non si vede niente dentro i gusci. Nero assoluto, vuoto. Per quel che posso immaginare, vi sono canalette che arrivano fino al centro della terra. Ricordano le uova che hanno incubato Alien. Per questo stiamo lì. In attesa. Fino a quando il vento non trasporta gas irrespirabili. Ci spostiamo di lato.

Portarsi via Dallol

Dallol è questa. Sono passate ore da quando siamo entrati in un altro pianeta. Alice in wonderland. Viaggio al centro della Terra. Jules Verne sorride di nascosto. La Dancalia ha mostrato un’altra faccia. Solo tirando il fiato ci accorgiamo che il caldo è feroce, le nostre gole sono graffiate e gli occhi arrossati. I soldati vogliono tornare indietro. Hussein si è seduto. I fotografi sono allo stremo. Perché nessuno degli scrivitori di esplorazioni è mai riuscito a raccontarci Dallol?

Un diario che riprende. Quando è troppo tardi, ma un blog è un lavoro illusorio e solitario. Quindi non ha regole. Ancora una volta riscrivo a luglio, di cose accadute a febbraio. Perdonatemi.

San Casciano, 27 luglio 

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