sabato 30 luglio 2011

Ecco perché un vulcano della Dancalia è stato chiamato Catherine

Queste è la storia di una donna e di un luogo bello e terribile. Spesso, di fronte alla meraviglia di Dallol, dimentichiamo la sua pericolosità. 
Questo è il racconto di una donna che è scomparsa a Dallol il 27 dicembre del 2003. Si chiamava Catherine Cohen. 

La collina di Dallol



Sono andato in cerca di un uomo. Un uomo invecchiato nei deserti. Avevo un racconto da ascoltare.Un tributo che desideravo di pagare. Il destino, avvertono da queste parti, è già scritto, le storie devono compiersi. A volte si può essere solo testimoni.
So dov’è il vecchio. Poi, potrò ricominciare il viaggio, muovermi da qui. Ho smarrito il ritmo ma, forse, ce l’ho fatta a non fermarmi. Faccio pochi passi nella notte. Cammino con calma, senza indecisioni. Ripenso alla lava del vulcano.
L’uomo che sto cercando non è africano, ha la pelle bianca. E’ seduto davanti all’ultima casa di Ahmed Ela. E’ un profilo scuro, attorno a lui le pietre hanno una strana luminosità. Ha rughe ovunque. I suoi capelli quasi splendono nella luce della notte. Deve compiere la sua recita. Aspettava questo incontro. Si passa una mano sul viso, la trattiene davanti alla bocca. E’ stanco anche lui. Le braccia si abbassano fino a trovare appoggio sulle ginocchia. Ha voglia di raccontare. E’ un peso che grava sulla sua anima. Se ne vuole liberare.

La luna ha quasi compiuto il suo percorso. C’è davvero una strana luminosità nell’aria di Ahmed Ela. Una fosforescenza leggera. Come se il deserto fosse il riflesso del volo di un tappeto di lucciole. Ho fatto tardi con il vecchio. Il racconto è stato lungo. Le parole sono rimaste sospese nell’aria per alcune ore. Molte se ne sono andate. Qualcuna mi è stata riportata indietro. Io non l’ho mai interrotto. Alla fine ha fatto un gesto: ‘Va via’. Lo ha detto con una tristezza che non conosceva fine. Ora c’è pace. La pace dopo un tornado. Sono tornato alla mia capanna. Devo provare a ricordare. La luce di questa strana notte mi aiuta, riesco perfino a scrivere. La luna ha quasi finito il suo viaggio quotidiano, sta per tramontare, ma esita ancora. Aspetta che io abbia finito. Adesso, in una casa di campagna, in un paesaggio talmente diverso da credere che niente sia mai successo, non mi rimane che ricopiare quanto ho scritto quella notte. Molte parole sono rimaste laggiù. A Dallol.

Dallol


‘Catherine è scomparsa dopo Natale. Da giorni era inquieta. Era una donna solitaria. Cercava. So che cercava qualcosa. O qualcuno. Credo che sia venuta in Dancalia per cercare. Le devono aver detto che qua poteva essere possibile. E lei è venuta. E’ stata tentata dal vulcano.
Si accodò alla nostra fila. Volevamo festeggiare il Natale lassù, sulla sponda del lago di fuoco. Io mi ero raccomandato: nessuna imprudenza, nessuno rimanga indietro. Lei rallentava, si nascondeva, si smarriva. Vacillava. La rimproverai. Mi disse che aveva dimenticato a valle il suo talismano. Che temeva di averlo perduto. Non poteva salire senza quell’oggetto. Voleva tornare indietro. Gli altri non capivano. Erano arrabbiati. Lei resisteva. Io ero incerto. Ma insistevo, doveva salire con noi. Non poteva rimanere sola. A un certo punto, i suoi occhi mi apparvero così stanchi che avrei acconsentito a rimanere lì tutta la notte. Lei ebbe un sussulto. Fu un lampo: le sue gambe scattarono di colpo, non disse niente, ma si mise in cammino. I suoi passi divennero svelti, inafferrabili. Stava volando nella notte. Nessuno di noi riusciva a starle dietro. Se avesse voluto sarebbe scomparsa verso il vulcano. Ma rallentò, si voltò, i suoi occhi scintillavano. Era eccitata. Arrivò sui bordi della caldera, non si fermò, proseguì. Scavalcò la cresta, spiccò un salto. Stava correndo. La vidi dall’alto. Gridai. Lei agitò le braccia. Si arrestò solo sull’orlo dell’abisso. Il vulcano sembrò esplodere, il lago di lava lanciò le sue fiamme nella notte, un pulviscolo rosso avvolse il cielo. Lei si dondolò. Gridai ancora. Trovò un equilibrio. Rimase lì tutta la notte. Accucciata su una pietra. Stanchissima. Non osai toccarla. Non la persi di vista. Sapevo che non l’avrei potuta fermare. All’alba fu la prima a mettersi in cammino. Sulla strada del ritorno, ritrovò il suo talismano. Era in una cavità di una bolla di lava antica. Alcune frasche lo nascondevano e lo proteggevano.

Il viaggio verso Nord fu difficile. Fummo avvolti da una tempesta di sabbia. La nostra guida si smarrì nella piana di polvere ai piedi del vulcano. Fu lei, allora, a condurci sulla pista giusta. Guardava avanti, non si voltò mai verso di me. Gli autisti le ubbidirono senza dire una sola parola. Ci condusse fino a Dallol. Decidemmo di dormire sulla sponda della collina. A quel tempo era permesso. Per un secondo, mentre scendevo dalla macchina, la persi di vista. Non c’era più. Mi guardai attorno, non volli allarmare nessuno, mandai due ragazzi a perlustrare i dintorni. La videro, le parlarono. Non tornò al campo quella sera. Ma promise. Al mattino la sua ombra era seduta su una pietra della collina. Come se avesse vegliato su di noi. Si alzò con il primo raggio del sole. Si incamminò. Scomparve ai nostri occhi. Riapparve. Divenne nuovamente invisibile. Sembrava seguire qualcuno, non si curava di noi. Cercai di avvicinarmi. La vidi raccogliere nel palmo di una mano l’acqua che zampillava da un geyser. La vidi immergere un piede in una vasca di liquido acido. La vidi portarsi del sale alle labbra. Si alzò una nuvola di vapori e lei si spostò perché le entrasse in bocca. Aveva uno sguardo lucido di felicità. Sapeva che la sua attesa era finita. Io volevo che non si perdesse, non sapevo più cos’era giusto. Forse, non volevo sapere. I miei occhi erano velati. Avevo bisogno di riposare. Sentivo il terreno cedere sotto di me. Dissi a un ragazzo e a un soldato di non perderla di vista. Dopo alcune ore i due uomini mi risvegliarono dal torpore e mi dissero che la donna era scomparsa. Io sapevo che questa volta non sarebbe riapparsa.  
Lo sapevo, ma feci di tutto per ritrovarla. Mandai una macchina al villaggio. Arrivarono i soldati, arrivarono i giovani. Accerchiammo la collina di Dallol. Cercammo, cercammo, cercammo. Di giorno, di notte. Per giorni. Metro dopo metro, buco dopo buco. Ci scorticammo gli occhi e le braccia. Ci arrendemmo.  Lei camminava sempre scalza. I suoi bracciali dove erano finiti? Il suo talismano? Non si può scomparire in un metro quadrato. Il suo autista piangeva. Mi diceva che l’aveva vista. Era sicuro che fosse dietro di lui. Si era incamminato verso le macchine, sentiva i suoi passi, si voltò e lei non era più lì. Mi disse che, poco dopo, era riapparsa solo per mandargli un saluto. Un addio.
Sono venuti con gli elicotteri per cercarla. Hanno fatto sfoggio di potenza per trovarla. Volevano impressionare l’ambasciatore. Vado anch’io, salgo con un pilota giovane. Siamo soli. Guardo Dallol dall’alto. E’ bellissimo. Questo militare che maneggia altimetri e cloche mi spiega che molti si perdono in Dancalia. A vedere la Piana dal cielo, mi sembra impossibile. Il deserto appare piccolo, piatto, senza nascondigli. Lui insiste: scompaiono, a volte riappaiono, qualcuno è tornato indietro. La gente del villaggio li vede ricomparire all’improvviso in mezzo al sale: hanno occhi sereni e abiti eleganti. Quel pilota usò proprio queste parole: ‘Vesti colorate ed eleganti’. Nessuno ha mai chiesto nulla alle persone che tornavano. Qui, in Dancalia, si cerca di dimenticare quello che non può essere detto, mi disse il pilota. Sembrava che volesse rassicurarmi. Io non chiesi nulla. Lui fece ancora un giro sopra Dallol, poi disse: rientriamo, e lei è meglio che torni a casa.
Non ascoltai il suo consiglio. Non me ne andai, non potevo. Ripresi ancora una volta il cammino di Dallol. Rifeci gli stessi passi per la millesima volta. Con me, un soldato magrissimo. Non lo avevo mai visto prima. 
Feci pochi passi, la macchina era ancora in vista. Tutto accade all’improvviso. Senza un rumore, senza un odore, senza un allarme. Un refolo di vento, forse. Caddi a terra, capii di cadere a terra, ma non lo avvertii. Era come se il mio corpo non mi appartenesse più. Cercai di afferrare qualcosa, ma non c’era niente che potesse sostenermi. Ebbi freddo. Poi caldo. Sapevo di essere disteso a terra. Vedevo il soldato ondeggiare davanti a me. Mi stava guardando. Ma non faceva niente per aiutarmi. Volevo gridare, ma nessuna voce uscì dalle mie labbra. Non riuscivo a muovere nessun muscolo. Non avevo più un corpo. Era come se mi guardassi in uno specchio. Non mi dibattevo, non mi agitavo, non stavo soffrendo. Solo le palpebre avevano delle contrazioni. Non sentivo più nulla. Eppure sapevo che vi erano voci attorno a me. Stavano discutendo. Il soldato era ancora immobile. Anzi, si era allontanato di un passo. Non riuscivo nemmeno a pensare che quella potesse essere la fine. Ci fu come un tocco, ritrovai sensibilità, sentii scorrere sulla mia pelle un altro soffio d’aria, qualcosa mi sfiorò la fronte, sapevo che stavo per addormentarmi, lottai per tenermi sveglio. Gli occhi si chiudevano da soli, non so quanto tempo sia passato. Ma il torace, almeno credetti che fosse il mio torace, stava di nuovo alzandosi e abbassandosi. Lo sentivo, sentivo il respiro che usciva. Il corpo riacquistò calore, una goccia di acqua scivolò sulla mia gamba. Tornavo nel mondo. Ero salvo, lo sapevo. Qualcuno mi aveva salvato. Il soldato era ancora lì. Non cambiò espressione. Non mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi.  Aspettava. Chiese: era questo che volevi, vecchio? Avevi scelto. Ma non eri pronto. Allora ti hanno dato una seconda possibilità. Va via. Ora va via. Lo guardai e vidi una grande tristezza nei suoi occhi. Adesso sì, mi offrì il braccio e mi sostenne nel cammino del ritorno Non lo avrei mai più rivisto.

I geycers di Dallol


Ma io sono un uomo bianco. Vedi il colore della mia pelle? Puoi capire i miei pensieri? Sono tornato. Più volte. Anche adesso, in fondo, sono qui per lei. Ho cercato con i metal-detector. Volevo trovare almeno i suoi anelli. I suoi bracciali. Dal giorno della sua scomparsa, il vulcano ha smesso di agitarsi. Là dove sono caduto io, si è richiusa una frattura, non c’è più la crepa che io ricordavo. Non saprei più ritrovare il posto. Mi sono segnato il punto, ma quando vado là è sempre diverso. Non sono più sicuro di niente.
Mi sobbalzò il cuore, quando, molto tempo dopo, un afar lasciò davanti alla mia tenda un paio di sandali calcificati dal sale. Erano i suoi. Ma lei andava a piedi scalzi. Mi dissero che erano stati lasciati, uno accanto all’altro, ai bordi dell’isolotto di Dallol. Come se lei fosse entrata nella casa di qualcuno. Ogni volta che torno spero di incontrarla. Vorrei che venisse verso di me con abiti eleganti e colorati. Vorrei che mi accogliesse nel luogo dove è adesso’.

Questa è Dallol


Il vecchio è stremato. Continua a tormentarsi il viso con le mani. Nessuno si è avvicinato a noi. Nessun rumore. Ahmed Ela ha ascoltato una storia che conosce bene. Catherine è da qualche parte. Qui attorno. Chiudo il piccolo quaderno. Dovrebbe esserci chi scrive la sua storia. Penso sempre che debba esserci qualcuno che scriva le storie. Non si può scomparire senza lasciare tracce.
Asfaw non sta dormendo. Si avvicina. Parla senza che io chieda niente: ‘Ha avuto un figlio, quella donna. Questo è quello che si dice. Una volta interrogai un matto. Ibrahim. Si chiama Ibrahim, il matto. Forse lo conoscerai se rimani ancora qualche giorno. Appare dal deserto. Oppure scende dal canyon. Dicono che viva a Dallol. Fu lui a dirmi di lasciare in pace Catherine. Ha scelto la sua vita, mi spiegò’. Gli occhi mi si chiudevano dal sonno. Asfaw si allontanò nella notte.
Ecco perché un vulcano imperioso, compagno dell’Erta Ale, è stato chiamato Catherine.

Questo racconto fu scritto una notte di luna quasi piena a Dallol. Il vecchio aveva parlato per ore. Adesso confondo i tempi. Sono in partenza per un altro viaggio. Ma volevo che questa storia di staccasse da me. 
San Casciano, 30 luglio

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