martedì 19 luglio 2011

Genova/Venti luglio

Qualcosa accadde. In me, intendo. Fuori di me, era già accaduto moltissimo. C’era davvero un popolo per le strade di Genova, dieci anni fa. L’emozione forte di quei giorni si è ficcata nel mio cuore, nella mia memoria, nella mia storia. E' viva ancor oggi, mi fermo e la sento palpitare. Smuovere cuore e corpo. Pensieri. Quei giorni, davvero, non possono essere dimenticati. Ogni tanto, flash-back improvvisi, e riappaiono immagini. La sensazione di stanchezza estrema alla fine di quel venti luglio. Il sole stava tramontando, quando, sfinito, mi distesi sul lungomare di Boccadasse, segnato dai rottami e dal sangue di una giornata di guerra. Appoggiai la testa sulla borsa fotografica. So che mi addormentai. Fu un momento. Mi rialzai perché niente finiva quella sera. C'erano mille cose ancora da fare.

Ale Santoro, prete delle periferie fiorentina, che camminava disorientato alla fine della battaglia di via Tolemaide. Ecco, questo è un ricordo nitido. Era solo in mezzo a un viale alberato. Un sopravvissuto. Credo che nemmeno lui capisse fino in fondo cosa era accaduto.

I ragazzi rifugiati in un portone, i ragazzi in fuga, i ragazzi che si stringono, le mani bianche, le tute bianche, i lividi dei manganelli, un uomo a torso nudo, seduto davanti alla polizia, due comboniani (io sapevo che erano preti), grandi e grossi, che si guardavano sgomenti, ma che non tralasciarono di mangiarsi un’ultima frittella sul lungomare prima di unirsi alla gente che fuggiva da una violenza insensata. 

Frammenti. Non della guerra. Di quella ho ricordi lucidi, freddi, precisi, ma non di questo mi va oggi di parlare. Forse mi andrebbe di dire delle amicizie nate in quei giorni. Delle complicità. Della sensazione, nonostante questi dieci anni passati, che qualcosa sia davvero accaduto nell’animo di molta gente. La sensazione di una possibilità. E che quella volta non fu sufficiente la violenza per cancellare ‘la possibilità’. Sono convinto che Genova abbia dato dei buoni frutti.

Qualche settimana dopo quei giorni di luglio Miriam Giovanzana, direttrice di Altreconomia, mi chiese di tornare a Genova. Per raccontare di Carlo Giuliani. Per andare a camminare nei suoi vicoli. Per ripercorrere, lontano dai clamori dell’immediatezza, la storia di quei ragazzi che come Carlo si ritrovarono nelle strade di Genova. Non rispettai alcuna regola giornalistica. Camminai a lungo, a caso, credo. Senza indirizzi, né numeri di telefono. Non incontrai i protagonisti, ma gli attori di strada. Ne è uscito un lungo racconto. Troppo lungo per una rivista (e, ora, per un blog). Ma Miriam decise di pubblicarlo per intero. Non so bene perché lo fece. Il rapporto con lei è una di quelle storie nate a Genova, che vivono di quanto avvenne attorno a noi e dentro di noi. Fu lei a chiedermi di andare anche con le Tute Bianche in quel venti luglio di dieci anni fa. So che quei giorni hanno costruito i dieci anni che sono appena passati. Mi hanno costretto a guardare ancora il mondo.

Fu sempre Miriam, devo ricordarlo, che durante la folle conferenza stampa della polizia, dopo l'assalto alla scuola Diaz, gridò subito che era un'indecenza quello che stavano dicendo. Ricordo la sua voce. E il portavoce della polizia smarrito e imbarazzato. Sapeva di stare mentendo. 

Qui di seguito troverete, illeggibile su un blog, perdonatemi (se pensate che possa interessare, copiatelo e leggetelo in un formato diverso), quel racconto apparso su Altreconomia. Nessuna foto. Non le trovo più. Non so dove siano finite. 

Il libro da leggere per chi vuole capire cosa è accaduto a Genova è Eclissi della democrazia. Lo hanno scritto Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, è edito da Feltrinelli. Un libro pericoloso. Bello, intenso, sincero. Tenace. Pericoloso davvero per chi non ama la democrazia. Da leggere. 

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Chourmo, in provenzale, significa la ciurma, i rematori della galera. A Marsiglia le galere le conoscevamo bene. Per finirci dentro non c’era bisogno, come due secoli fa, di aver ucciso il padre o la madre. No, oggi bastava essere giovane, immigrato o non.  Chourmo è diventato un gruppo di incontro. Lo scopo era che la gente si incontrasse. Si ‘immischiasse’, come si dice a Marsiglia. Degli affari degli altri e viceversa. Esisteva uno spirito chourmo. Non eri di un quartiere o di una cité. Eri chourmo. Nella stessa galera, a remare! Per uscirne fuori. Insieme.

Jean-Claude Izzo Chourmo, il cuore di Marsiglia.


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Vicoli


Perché nessuno ha scritto una cosa semplice? Che Carlo Giuliani era bello. Bello, con i capelli lunghi, in quella foto di classe scattata ai tempi del liceo scientifico Leonardo Da Vinci. Bello, nella foto più diffusa dai giornali: era già più vecchio di una manciata di anni, con i capelli quasi rasati. Bello, piccolo, magrissimo, gentile, con occhi sorridenti. Davvero: il passamontagna non rendeva giustizia alla bellezza dei suoi 23 anni.
Anche Sara, ‘Saretta’, 21 anni, è bella, gioiosa, ‘vera’ come un rosa. E ricorda: ‘Era così simpatico, amorevole. Non litigava mai con nessuno. Ti salutava sempre con un bacino. Una cosa che qui a Genova, nei vicoli, nessuno fa mai. Carlo ti voleva bene’. Ho cercato di riportare, parola dopo parola, il ricordo di Sara. Perché mi è sembrato il più sincero, il più immediato. E’ uscito così dal suo sorriso, dal velo di malinconia che ha attraversato il suo sguardo, dopo un lungo parlare all’ombra di un albero nel giardino della facoltà di architettura, università sorta nel cuore dei vicoli genovesi. ‘Saretta’ è davvero una ragazza del ‘movimento’: fa studi di politica internazionale, gira l’Italia come giocoliera (nel giorno felice del corteo dei migranti, il giovedì di quella settimana del G8, faceva volare le clave davanti ai cordoni dei poliziotti),  ora andrà a studiare a Madrid (se supera l’esame di economia, andato male anche per colpa di quegli elicotteri che, per mesi, hanno reso impossibile la vita ai genovesi) e là, in Spagna, farà anche la ‘scuola del circo’. E’ lei, ci potrei giurare, ad avere scritto parole di tenerezza e dolore lasciate sull’altare laico nato, in queste settimane, in piazza Alimonda: ‘Mi ha sempre fatto piacere incontrarti nei vicoli. Sotto casa vedo ancora la tua sagoma, un cappellino in testa’. Quasi una lettera a Carlo, a Carletto, come era conosciuto dai suoi amici. Più in alto, oltre il foglio scritto a penna da Saretta, altre parole lasciate, con il pennarello, su un drappo bianco da Roberto: ‘Solo chi ti ha conosciuto può capire ciò che il mondo ha perso’. Questo è davvero quello che passa nella testa dei ragazzi di Genova. ‘Sono stati tramortiti da questa morte’, avverte don Andrea Gallo, 73 anni, prete dei vicoli e del porto. E ha ragione, una ragione insopportabile per quanto è dolorosa, chi ha detto, piangendo, ai funerali: ‘Non me ne faccio nulla di un eroe dell’antiglobalizzazione, a me manca un amico vivo’.
Sbaglia, invece, (per imbarazzo, per vigliaccheria, per timori incomprensibili, perché non ha ‘sapere’ e crede che la politica non sia stare con ‘la gente’) chi ha scritto che Carlo non è un ragazzo che appartiene al ‘movimento’, quel ‘movimento’ che ha portato 300mila persone in piazza. Vi apparteneva, eccome. Spiega Alessandro Dal Lago, 54 anni, sociologo, preside di Scienza della Formazione a Genova: ‘Hanno ucciso un ragazzo. Un ragazzo, forse vagamente, ma certamente di sinistra. Un ragazzo che era venuto ai cortei e che aveva valori etici autentici. E nessuno ha il coraggio di dire che faceva parte di questo movimento? Che ne era davvero rappresentativo? Posso dire che questo silenzio è quantomeno sconcertante’.

Com’è bella Genova. Come sono belli i suoi vicoli che l’arroganza e la paura degli Otto Grandi avevano ridotto a deserto, a solitudine, a prigione. Essere a Genova vuol dire essere a Dakar, a Barcellona, a Tangeri, a Marsiglia, a Napoli. ‘E’ una città che senti tua’, dice un’altra ragazza. Ci vorrebbero le parole di Jean-Claude Izzo, scrittore del porto di  Marsiglia, per raccontarla. Città rovesciata, come quasi tutte le città di mare: i quartieri del degrado e della bellezza, della povertà e dell’antica ricchezza, degli immigrati e della genovesità, della prostituzione e delle suore di Teresa di Calcutta, della droga e delle osterie felici sono nel centro storico. I ‘senzastoria’, qui, attorno al porto, sono mischiati con l’avanzata di una borghesia ‘illuminata’, di ricercatori universitari, di famiglie di intellettuali che, lentamente, ma inesorabilmente, vengono a vivere fra i vicoli. Qui, ‘dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi’. E quindi, ecco spuntare bar e locali di lustro e ‘tendenza’ (Le Corbusier, il Caffè degli Specchi), ristoranti di buona cucina e prezzi inaccessibili alla vera gente dei vicoli (Schooner), gallerie d’arte raffinate e snob. Direbbe Enrico Ratto, giovanissimo scrittore di un romanzo sui vicoli: ‘Qui viene gente con una grande materia alternativa al posto della normale materia grigia’. E qui vivono, spendono le loro giornate, passano nottate di birra e fumo, i ragazzi, i ragazzi di Genova. Quelli che nei vicoli ci abitano (pochissimi gli ‘indigeni’ veri) e quelli che, ogni giorno, ci vengono da fuori. Inutile chiedere quanti sono? Ti rispondono: ‘Ha un senso se ti dico duecento e poi diecimila?’. Il paesone dei vicoli, luogo dove tutti si conoscono e si salutano, è una città viva e incasinata, slabbrata ed eccitata: qui ci stanno, fra genovesi e turbini di immigrati (in questi mesi è atterrata l’ondata dei latinoamericani) più di centomila persone.  

Venite in Salita Pollaiuoli, davanti alle facciate, restaurate e gelide, del Palazzo Ducale: è l’epicentro della nuova geografia ‘elegante’ dei vicoli. Ma questi sono anche gli stradelli del fumo, delle canne, dei giovani e dei bar di piazza delle Erbe, del vicolo de ‘Il Canneto il Lungo’ e della sua osteria degli Azenetti, gli Asinelli (è una bevanda ‘trucida’ e mozzarespiro di vino, martini e qualcos’altro di forte): questi erano i territori di Carlo Giuliani, questi sono i territori dei suoi amici, della sua cumpa dove, tra l’altro, si scrivono e si recitano poesie, della gente che, con lui, ha condiviso sogni e schifezze, nottate felici a suonare chitarre e canne su canne, allegrie sopra le righe e disperazioni, birra a fiumi e cazzate una dopo l’altra. E, soprattutto, amicizia, amicizia di quella vera, profonda, assoluta. ‘Sacra’, direbbe don Gallo. Autentica solidarietà. Vissuta come valore etico che niente può scalfire. Questo scopre chi prova a fermarsi fra questi vicoli a guardare questi ragazzi che, quando scende la notte, si siedono sui gradini, e bevono, si sballano oltre molti limiti, fumano una Diana dopo l’altra e rollano, senza tregua, spinelli di qualità. Accanto a marocchini che si fanno di tetrapack di Tavernello e a giovani dalle belle camicie che sorseggiano caibirinha seduti ai tavolinetti di plastica dei ‘barrini’.

Sono passati due mesi dalla morte di Carlo Giuliani. E’ passata un’estate torrida e irreale per chi ha vissuto, subìto, attraversato i giorni di Genova. Tornare in via Tolemaide, in corso Italia, in corso Torino, in piazza Alimonda, nei vicoli del porto vuol dire trovare le prove che quelle giornate di luglio hanno davvero segnato la vita e gli anni di una straordinaria generazione di giovani. Una generazione della quale Carlo faceva parte. E non solo per diritto anagrafico. In Piazza Alimonda, piazza della morte di Carlo, il pellegrinaggio è senza soste. In meno di un’ora avrò visto cento persone fermarsi: un ragazzo con addosso gli spruzzi sbavati di vernice da muratore arriva con il motorino, scende e con la mano sfiora la foto di Carlo; un ambulanza accosta al marciapiede: ne escono fuori due infermieri e mettono un fiore. Grandi fiori di carta portano anche due ragazzi che arrivano di corsa e se ne vanno subito dopo. Un uomo con la barba brizzolata parcheggia la sua macchina, si accende una sigaretta e si mette a leggere, con calma, i messaggi che ogni giorno qui si moltiplicano. Una donna porta acqua per i fiori. Un vecchio siede sui gradini della chiesa di Nostra Signora del Rimedio e guarda, con occhi di tristezza, la cancellata sulla quale è sorto questo monumento spontaneo in memoria di Carletto. E’ perfino arrivata una cartolina: viene dalla mia Toscana, raffigura un celebre paesaggio delle Crete Senesi. L’ha scritta Margherita: ‘La libertà è morta, tu no’. L’ha imbucata in Val d’Orcia e un postino genovese l’ha portata fin qui: ‘Carlo Giuliani, Piazza Alimonda, Genova’. Due ragazzi giovanissimi e minuti (lui ha capelli lunghi, lei ha un anellino al naso) vengono da Pisa: sono qui da due giorni. Non sanno perché sono venuti: erano con il corteo delle Tute Bianche quel giorno di luglio e sono tornati ora che l’estate sta finendo. ‘Per capire cose che non capiremo’, dicono. Si stringono quasi in lacrime: sistemano i fiori, spazzano il marciapiede, poi restano lì, seduti sui gradini, mano nella mano. Senza parole. Ma con occhi che raccontano la loro forza e il loro smarrimento. Al mattino, i ragazzi che si ostinano a dormire qui, in piazza Alimonda (‘Lo faremo a lungo. Per sempre’), hanno la faccia stanca e seria, segnata da un dormire impossibile: stanno assolvendo un dovere, un dovere che avvertono come impegno morale, sociale nei confronti di Carlo. E questa sarebbe la generazione senza ideali e identità?

Carlo, in questa Genova dei ragazzi, era amico di tutti. “Questa è la prima cosa che devi capire – spiega Pino, responsabile dell’Anlaids genovese, un uomo di quarant’anni, piccolo e magro come Carlo – Non puoi collocarlo o identificarlo. Veniva da Piazza Manin, dai quartieri borghesi di Genova. E, allo stesso tempo, frequentava i vicoli. Ci viveva. Stava bene con gli amici ricchi e con i ragazzi con i cani del Campetto. Salutava tutti. Non chiamarlo comunista, anarchico, di sinistra: le parole non servono. Carlo voleva conoscere la vita. Voleva sbatterci le corna contro. Voleva provare. Non solo sentir raccontare”. In piazza Alimonda qualcuno ha scritto: ‘Non siamo comunisti e non abbiamo ancora un nome. Siamo in tanti. Forse abbastanza’. Più tardi, in piazza delle Erbe, Pier Ugo, un altro amico più anziano (36 anni) di Carletto, si farà scappare: ‘Noi potremmo essere le nuove ideologie che magari riusciranno a nascere’. E Mara, 21 anni, ragazza dai sorrisi splendenti e dall’impegno politico serio e quotidiano (è del centro sociale Zapata e ha partecipato, nonostante l’età, fin dall’inizio alla storia delle Tute Bianche), mi avverte: ‘Non riesco a definirmi comunista. E lo spiego ai compagni più adulti per i quali questa parola ha ancora un senso. Carlo non era un militante, non era catalogabile, ma questa è la sua forza ed è la forza del movimento: questa è la vera moltitudine, la società civile. Se facessimo i cortei con i soli militanti, non riusciremmo a cambiare niente. E’ quando ragazzi come Carlo si sentono coinvolti in prima persone, è quando vi è mescolanza di persone che non fanno parte di niente che qualcosa può davvero cambiare’. 

Carlo che, ai tempi del liceo, va al coordinamento studentesco e passa di classe in classe per avvertire che il preside ha concesso l’assemblea. Carletto che va ai centri sociali (allo Zapata, al Terra di Nessuno) a sentire concerti e musica. Carlo che va alla parrocchia di San Bernardino a giocare a calcetto. Carlo che va al circolo Mascherona, un ‘centro sociale’ dell’Arci, in mezzo ai vicoli, e, alla sera, chiede ‘le sue due medie’ e si addormenta sul tavolo. Lo svegliano: ‘Dai, dobbiamo chiudere’. Sorride assonnato: ‘Sì, sì, scusami’. E se ne va, di notte, per i vicoli. Massimo ha diretto quel circolo, esperienza preziosa dei mesi invernali nel centro storico genovese: ‘Questi ragazzi non sono impolitici. Sbaglia parola chi te lo dice: sono pre-politici. La politica è la loro vita: rifiutano, consapevolmente, le dinamiche ‘normali’ della vita. E pretendono una vita diversa. Non hanno secondi fini. Hanno cultura. I ragazzi che si ritrovano agli azenetti sono poeti. E sono bravi. E sono sopra le righe. Sono radicalmente pre-politici. Sono oltre la politica. Ti dicono: ‘Meno menate, facciamo le cose’’. Massimo non lo dice e me ne assumo io la responsabilità: sono anche nichilisti (questa parola ricorre spesso nei vicoli quando si parla dei ragazzi, di certi ragazzi), hanno addosso energie e bellezze incredibili. Ma non sanno incanalarle. E nessuno sa offrire opportunità vere per incanalarle. Sbaglia di brutto chi li descrive come apatici. Pino, mentre parliamo, si alza in piedi e ricorda: ‘Hai presente le foto scattate in piazza Alimonda? Prima di avere l’estintore in mano, Carlo appare, per un attimo, com’era davvero: ha le braccia come se fossero molli, allungate sui fianchi, stese lungo il corpo. Guarda in basso. E’ come se attorno a sé non ci fosse l’inferno. Ecco, questo era Carlo. Stava spesso così. Come a pensare a chissà cosa’. Già, questi ragazzi possono apparire senza forze e senza scopi. Stanno sui gradini per ore e ore, per giornate intere e noi, passanti affrettati, crediamo che non abbiano niente in testa. E invece, come dice Enrico Deaglio, hanno ‘sale in zucca’. Scattano all’improvviso e rivelano energie impreviste, immense, creative. E anche devastanti. Non c’entra nulla, ma un’operatrice di strada di Roma, dopo Geonva, mi ha detto della sua sorpresa (e sono parole, in qualche modo, rivelatrici): ‘I ragazzi della strada, quelli con i quali è più difficile avere rapporti, quelli che pensi che siano irrecuperabili, sono andati tutti a Genova. E’ stato un richiamo irresistibile. Si sono mossi e io non l’avrei mai immaginato’. 

Lo scorso inverno i ragazzi della cumpa degli azenetti (non solo loro) si ritrovavano in un’aula occupata dell’Università (a Genova è la celebre auletta, occupazione che risale ai tempi della Pantera): per qualche giorno sopra la porta aveva campeggiato uno striscione: ‘Il segno di una resa invincibile’. Questa è roba di culto, da esperti: è il titolo di una storia di Andrea Pazienza, disegnatore grandissimo, morto, anni fa, di eroina. Ed è la storia di un gruppo di amici che ruota attorno a una figura carismatica. Alla fine quest’uomo muore. Ma la sua morte è un suicidio non detto, non annunciato. Muore perché semplicemente il suo cuore si ferma. ‘E’ una resa invincibile – dice Massimo – Capisci chi sono questi ragazzi? Cos’è la loro vita?’. Non so, non so se capisco. Forse sì. E mi spaventa. Sempre a piazza Alimonda, un altro ragazzo ha scritto a Carlo: ‘Io non ti conosco, ma ti invidio una cifra’. Nessuno ha il coraggio di vivere come loro, solo per ascoltarli e non per dettare regole o comportamenti. Per questo adorano don Andrea Gallo (fino a farne un mito): perché lui, nei vicoli c’è; i ragazzi lo vedono, sanno di poterci contare la notte che andrà proprio storta.

Racconta Pino: ‘Sai cosa avrebbe voluto fare Carlo? Montare e smontare i palchi, metter su le luci e le strutture dei rave in giro per l’Italia e l’Europa’. E invece, come molti (quasi tutti?), qui nei vicoli, si arrangiava. Lavori saltuari, precari. Mi spiegano: ‘Qui i ragazzi fanno i muratori, gli elettricisti, lavano i piatti in qualche ristorante, fanno i camerieri nei bar. Spesso le famiglie aiutano. I ragazzi prendono quel possono e quel che li danno. E, alla fine, si arrangiano. Il limite fin dove arrivare lo stabiliscono di volta in volta. Qui nel porto è sempre stato così: io ricordo gli strassè che scendevano dalle colline per vendere e comprare gli stracci’. E per la casa è lo stesso: i ragazzi vogliono venire a vivere nei vicoli. Ma come pagare l’affitto? E allora ecco gli amici e le amiche che, qui, due, tre stanze ce l’hanno già: ti ospitano. Per giorni. Poi per mesi. La tua roba sta tutta in scatole di cartone, valige che cambiano spesso armadio o sgabuzzino. Il futuro non esiste (o quasi) per questi ragazzi. Mi dice Pino: ‘La precarietà è assoluta’. Mi svela Pier Ugo: “Il ‘qui e ora’ è fondamentale. I sogni non li realizziamo, ci resta il presente. Però, attento, i ragazzi hanno un ottimismo di fondo. Se scivolano nel pessimismo è l’apocalisse”. Il futuro è indefinito, è una nuvola scura, ma, a volte, non riesci a fare a meno di pensarci. Dice Pier Ugo: ‘Mio figlio, e poi il figlio di mio figlio, dovranno star bene. Io sarò un padre di merda, ma voglio un mondo diverso loro. Non posso accettare che ci abbiano rovinato l’aria e l’acqua. Mio figlio non deve vivere in questo schifo, in questo mondo senza giustizia’.

Già, la giustizia. Parola facile e abusata? No, sicuramente è parola vaga, forse non sono capaci di definirla, ma questi  ragazzi ne intuiscono a pelle il significato: hanno etica, valori, sensibilità. Hanno creatività (ma senza possibilità di verifiche – che forse temono) e un ego spropositato: quando ne hanno l’occasione (visto che sono poeti e la storia dei poeti-maledetti li affascina come bambini) afferrano i microfoni e non li mollano quando recitano le poesie. E’ accaduto anche al funerale di Carlo: ed erano poesie belle, con pensieri dentro, non erano semplici parole messe in fila. Dice don Gallo: ‘Sono ragazzi vivi. Vogliono cambiare il mondo, sanno cos’è il bene comune. Hanno una fortissima ‘singolarità’: per questo vanno ai cortei. Perché è una sfida, perché hanno avvertito l’arroganza dei potenti sulla loro pelle. E vogliono essere in prima fila, vogliono smascherare la menzogna”. E ancora: “Non vogliono maestri, non vogliono il potere. Ma pretendono rispetto dal potere, pretendono, con forza, rispetto per le loro intelligenze, chiedono pari dignità”. Non vogliono regole: Carlo attraversa per pochi mesi Rifondazione Comunista. Ma ne esce in fretta. Credete davvero che Rifondazione sappia ascoltare un ragazzo come Carletto? Non è compito di un partito ed è un’identità che non può farcela a restituire la complessità della vita. Pone troppi vincoli. No, questi ragazzi non vogliono davvero lacci alle loro esistenze: i ragazzi di strada dei vicoli (quelli che proprio ci vivono) non si fanno certo vedere ai dormitori della comunità di San Marcellino. Spiega Luca Corona, 33 anni, gesuita  che coordina i servizi di questa storica associazione genovese di aiuto ai senza fissa dimora: ‘Le nostre regole sono davvero troppo strette. I ragazzi di strada non verranno mai a chiederci aiuto. Non vengono nemmeno ai centri di ascolto. Forse qualcuno viene a chiederci, qualche volta, un buono doccia. Sono incostanti. Ma sono generosi, sfrontati, autentici. Vogliono vivere la vita che si sono scelti. Sono coraggiosi perché sanno che questa scelta la pagheranno. E cara. Ma non vogliono essere calpestati. E Genova, nei giorni del G8, si è sentita umiliata, offesa. Alla fine ha avuto anche una vittima. E questo ha aggiunto dolore. Perché, e in città si avverte, Carlo è un ragazzo di Genova”. E’ vero: fra i vicoli, molti ragazzi mi dicono che non vogliono parlare di Carlo. Non se la sentono. Non ce la fanno nemmeno a partecipare ai presidi in sua memoria. Troppo grave, troppo dolorosa è la ferita che non vuole richiudersi.

Scrive un’amica di Carlo, una ragazza che aveva lavorato (fatto volontariato) con lui ad Amnesty International (Carlo, in questa organizzazione, ha fatto tutti e dieci i mesi dell’obiezione di coscienza. Con qualche difficoltà, con qualche fatica, ma li ha fatti fino al dicembre del 2000): ‘Era un ragazzo molto generoso e idealista, spontaneo, ma anche fragile e ingenuo. Forse prigioniero del mito del padre: ne condivideva gli ideali, ma per differenziarsi da lui li esprimeva in modo molto diverso. Per questo si era allontanato dai giovani comunisti per spostarsi ‘un po’ più a sinistra’, verso un comunismo vero e radicale’. E ancora, quasi a non separare i lati ‘buoni’ e i lati ‘cattivi’ di ognuno di noi (ma cos’è questo buono e questo cattivo?), appaiono, anche nelle parole di questa ragazza, le ‘brutte abitudini’ di Carlo: le sigarette, la birra a fiumi, le derapate in motorino a fari spenti, la droga. La ragazza colpisce con durezza: ‘Per il 90% della gente Carlo è un delinquente, il 10% lo considerà un eroe o un martire. Ma nessuno, tantomeno i giornalisti, potranno capire mai chi era Carlo, con il suo entusiasmo, la sua repulsione per le ingiustizie e la sua voglia di cambiare il mondo, ma anche i suoi momenti-no e le sue tante contraddizioni’. E poi le domande senza risposte apparenti: ‘Come può un obiettore di coscienza lanciare sassi ed estintori con il volto coperto? Come può? Perché l’ha fatto’. Nessuno ha risposte certe e allo stesso tempo tutti le intuiscono.  Com’è simile la ‘fotografia’ di Carlo a quella di Massimiliano, un altro ragazzo (più vecchio: ha 30 anni) di piazza Alimonda. Purtroppo per lui (‘Un gesto stupido e irreflessivo’) è conosciuto oramai come ‘l’uomo con la trave’: è lui che, nei terribili fotogrammi dell’assalto alla jeep dei carabinieri, in quel maledetto venerdì di luglio, sbatte quell’asse di legno contro i finestrini della camionetta. Mi raccontano: ‘E’ mitissimo, perfino timido, sempre sorridente. Impolitico. Ma presente, a modo suo, nelle cose. Fa parte del giro allargato dei ‘barrini’’. E il suo locale, fra i vicoli, non è così ‘duro’ come l’osteria degli azenetti, anzi è vagamente di ‘tendenza’, con serate musicali a tema. E anche lui adora il calcio. E tifa Genoa. E fuma qualche spinello. Ma sono sempre così simili le storie dei ragazzi dei vicoli? Se chiedo ad amici di Amnesty a Genova di descrivermi Carlo, le parole che usano sono ‘fragilissimo, gentile, sveglio. Con i suoi alti e bassi. E, soprattutto, mai violento’.

Carlo leggeva Dylan Dog e si perdeva, con passione, fra i rebus e le parole incrociate della Settimana Enigmistica (‘Ma faceva quelle cose difficili, il Bartezzaghi’). Aveva sempre con sé la Gazzetta o il Corriere dello Sport, quasi giornali status-symbol. Già, il calcio. Il calcio è tutto per questi ragazzi. All’osteria degli Azenetti ci si accapiglia per il calcio, se ne parla per ore, ci si infuria con chi osa far trapelare simpatie per la Sampdoria: queste sono frontiere genoane. ‘Ma Carlo era onesto: tifava per la Roma, la squadra della città in cui era nato – dice Pino – Non mi va chi tifa per una squadra di una città diversa da quella di origine’. La lealtà, il senso di una lealtà ai colori di una maglia, è un valore vero per i ragazzi del tifo. Il mondo degli ultras ha le sue fedeltà, i suoi patti, le sue leggi non scritte. Durissime, magari violente e scorticanti, forse incomprensibili e inaccettabili a chi è fuori dai gironi del mondo degli ultras. In piazza Alimonda  i ragazzi hanno lasciato maglie e sciarpe della Roma. Ma anche adesivi del Genoa (e un biglietto della partita Genoa-Treviso) e degli ultras del Pisa (Ultras against racism). Spiega Matteo, del centro sociale Zapata: ‘Il tifo è un senso di appartenenza forte. Di trovarsi assieme in modo diverso’. Aggiunge Mara: ‘E’ un modo come un altro per stare assieme, è voglia di socializzazione’. A Genova, città con due squadre divise da rivalità che sono nel sangue e nella testa, il tifo è storia. Anche tragica: anni fa, davanti a Marassi, morì Vincenzo Spagna, tifoso della Fossa dei Grifoni, ex-portuale, ultras del Genoa. Ancor oggi, la sua morte è ricordata dalla gente dei vicoli. E nel 1987, furono gli sharp, duri genoani, a darsi da fare, più di altri, a mettere su il primo centro sociale occupato a Genova, una chiesa sconsacrata persa fra i vicoli del centro storico. ‘E’ un ambiente difficile – avverte una ragazza del Genoa Social Forum – E’ gente che fa la voce grossa. Sono machi, sessisti. Si infiammano per un nonnulla. Credono nell’antifascismo tosto e militante’. ‘Hai presente il film Il gladiatore? – chiede Pier Ugo – E’ la stessa cosa: si va allo stadio come i romani andavano all’arena. A veder le squadre scannarsi. Per un passione, per la sfida, per l’adrenalina che ti regala’. E poi aggiunge senza riprendere fiato: ‘Io odio la violenza. E il calcio è bello. Mi piace la gioia dopo la vittoria. Mi piacciono i nervi dopo la sconfitta. Mi piace il prima e il dopo di una partita’. E come si concilia la timidezza di Carlo, la gentilezza dei ragazzi come Carlo, la loro mitezza e la loro fragilità con la violenza che ruota attorno alle tifoserie più estremiste? Serve a qualcosa se dico che il calcio di oggi (con i suoi miliardi, i giocatori che cambiano maglia ogni giorno, mai una giornata senza una partita) fa schifo? ‘No – mi dice Pino – Io ho quarant’anni e posso essere d’accordo con te, ma i ragazzi come Carlo hanno conosciuto solo questo calcio. E non quello dei tuoi tempi’. Carlo, quando poteva, se ne andava in giro per l’Italia, a seguire la Roma. Passione vera, energia vera. ‘Il giorno dello scudetto giallorosso è stato il suo ultimo giorno felice’, ricorda Pino. Tornò contento dall’Olimpico, tornò con una bandiera presa in quello stadio di vittoria, in quell’invasione confusa e ribelle a fine partita. Quella bandiera è stata poi stesa sulla bara di Carlo. Assieme a una coperta che era stata preparata da Pino (pittore bravissimo) per ricordare, nel giorno dei G8, i caduti sulla frontiera dell’Aids: avrebbe dovuto essere messa per terra, sul lungomare di Boccadasse, là dove i cattolici digiunavano per protestare contro il vertice dei Grandi della Terra. La coperta raffigura un uomo dietro le sbarre e ha impresso due parole: ‘Disagio e Speranza’.

C’è una fine a questo viaggio fra i vicoli di Genova? No, non può esserci. Ci sono ancora tante, troppe immagini, troppe contraddizioni che lacerano. Forse anche reticenze. Cose non dette, non scritte, non indagate o appena accennate: come i guai di Carlo con la cocaina di strada, i suoi viaggi all’ospedale San Martino a prendersi lo sciroppo, il metadone (ma anche qui, anzi soprattutto qui, fra compagni di sventura e di volontà di uscirne, nascono amicizie, solidarietà, storie). C’è anche questo nella vita di Carlo. Pino mi assicura: ‘Ne stava uscendo. Io lo so quando un ragazzo vuole uscirne: è la mia storia e quindi conosco ogni passaggio. Carlo voleva venire a lavorare qui all’Anlaids e doveva fare tutto il percorso per venire fuori dalla droga. Era pronto’.

Nei miei giorni di Genova ho scelto di non incontrare la famiglia, di non parlare con il padre. Avrei voluto parlare con la madre. I colloqui frettolosi con i giornalisti hanno sempre qualcosa che non assomigliano alla realtà e, tantomeno, alla verità: si recita entrambi, io che faccio domande e l’intervistato che deve inventarsi una risposta. Ma ho visto i genitori di Carlo: seduti sui gradini della chiesa di piazza Alimonda. Parlavano, con serietà ed affetto, con i ragazzi che lì dormono. Mi sono apparsi stremati. Ho visto la madre (anche lei piccola, dall’aria fragile e minuta), l’ho vista sistemare per bene i fiori, raccomandare a una ragazza di non accendere i lumini perché c’era il rischio, che, con il vento, tutto andasse a fuoco. Ho visto i suoi occhi trattenere, senza riuscirci, le lacrime. Ho ‘capito’ di un dolore irreparabile. E sono rimasto in silenzio. Ci siamo scambiati un sorriso: sorriso che lei regala a chiunque incontri davanti all’altare eretto per suo figlio.
Nei giorni di Genova, ho fatto, comunque, molte domande, ma, in realtà, volevo solo guardarmi attorno, vedere questi ragazzi, afferrarne frammenti di storia, subirne il nichilismo distruttivo e godere della loro energia vitale. Avrei voluto essere invisibile. Così non è stato: agli Azenetti mi hanno identificato subito. Cinque minuti dopo che mi ero seduto a un tavolo con un bicchiere di vino davanti, un ragazzo sopra le righe si avvicina e mi dice con agitazione: ‘Giornalista?’. Imbarazzo. ‘Sai, qui, con questo ragazzo che è morto, ne abbiamo visti troppi. Tu hai la faccia per bene, ma non ci fidiamo’. A Genova il ‘controllo sociale’, nei vicoli, è alto: se non sei conosciuto, ti notano. O poliziotto o, di questi tempi, giornalista. In quella serata, agli Azenetti, scavalcato l’imbarazzo (avevo in borsa un libro su don Gallo e questo ha aiutato. E molto), abbiamo parlato, per ore, di fumo, di calcio e di birra. E del mondo che fa schifo. E, sempre, come un ossessione, anche se io non facevo domande, di Carletto.

Mentre camminavo per i vicoli di Genova, correvano per la testa le parole del padre di Carlo. Dette al suo funerale: ‘Mi hai insegnato molte cose. A non giudicare un ragazzo dalla maglietta sdrucinata, dai pantaloni bucati, dai piercing, dalle treccioline. Dietro questi pantaloni bucati si sono cuori pieni e teste che pensano e un’impagabile sete di giustizia. Questi giovani vogliono un mondo meno schifoso. Anche noi lo vogliamo. Ma loro lo vogliono subito. Invece noi della vecchia scuola sappiamo che occorre pazienza. Il vostro passo è troppo veloce. Il nostro è troppo lento. Ma non si può aspettare cento anni. Noi dobbiamo accorciare i tempi’. Già, abbreviare i tempi per un mondo ‘meno schifoso’.

A Genova, migliaia e migliaia di ragazzi, nei giorni di luglio, hanno perso verginità politiche, sociali, morali. Ne avevano già poca, ma hanno perso del tutto fiducia nello Stato: questa è la vera colpa, gravissima, irreparabile, delle forze dell’ordine e di chi le comandava in quei giorni. I ragazzi dovranno ritrovare questa fiducia. Faticheranno a ritrovarla nei rischi di quest’autunno.  Alex Langer, il vero protagonista dei primi passi di questo movimento, un altro uomo caduto sulla frontiera del desiderio e dell’impossibilità di giustizia, suggerì nelle sue ultime parole: ‘Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto’. Siamo tristi, Alex ci manca da morirne, ci mancano le sue parole, il suo aiuto, la sua amicizia. Carlo ci mancherà come un fratello con il quale stavamo provando a camminare assieme.

P.s. Dimenticavo: Carlo Giuliani riposa a Staglieno, nello stesso cimitero in cui ha trovato rifugio Fabrizio De Andrè. Che, almeno, si possano cantare l’un l’altro belle canzoni. Per dimenticare, senza dimenticare, le ore della follia.



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