lunedì 31 ottobre 2011

Libia/La guerra è finita

(da Frontierenews.it)




A mezzanotte del 31 ottobre finirà la guerra di Libia. Annuncio di Anders Rasmussen, 58 anni, segretario generale della Nato. Annuncio orgoglioso: è stata ‘una delle migliori operazioni’ dell’Organizzazione Atlantica. ‘Abbiamo assolto lo storico compito di proteggere il popolo della Libia’, dichiara Rasmussen. La front-page del sito web della Nato si apre con le fotografie del ritorno a scuola di alcuni ragazzi di Tripoli.

Le guerre finiscono a mezzanotte, dunque. Non un minuto dopo, né uno prima. Ma, rivela la Washigton Post, la Francia di Sarkozy la cominciò almeno tre ore prima del via libera delle Nazioni Uniti: i suoi aerei bombardarono le truppe di Gheddafi prima della risoluzione Onu che autorizzava la guerra. 215 giorni di bombardamenti, oltre 26mila missioni, 9mila e seicento di attacco. Quante vittime? Nessuno lo saprà mai. Saranno dimenticate, come capita in ogni guerra.

Ma, in terra di Libia, rimarrà una forza multinazionale. A guidarla sarà, raccontano, il Qatar. Il paese di al-Jazeera. Emirati del Golfo e Sauditi stanno entrando in forze sulla sponda sud del Mediterraneo.  

Gli ex-ribelli di Bengasi rivelano (e poi rettificano, sminuiscono, non si sa, insomma) di aver trovato armi chimiche e nucleari. Destino da paradosso: in Iraq non ve ne era traccia; la Libia, invece, era rientrato a pieno titolo nella comunità internazionale annunciando proprio lo smantellamento di ogni arsenale nucleare…

Omar al Mukhtar, capo della resistenza libica contro gli italiani. Catturato e impiccato nel 1931 (da  www.romalive.org)


Un secolo fa (anniversario il 5 novembre) l’Italia dichiarò la sovranità su Tripolitania e Cirenaica. Era passato un mese dallo sbarco di centomila soldati italiani sulle coste libiche.
La guerra, invece, era destinata a durare altri venti anni. Per vincerla, alla fine, il fascismo dovette deportare quasi tutta la popolazione cirenaica, compiere un genocidio e impiccare Omar al Mukthar, un piccolo uomo di 70 anni. Catturato mentre si recava a pregare. 

Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, sta, probabilmente, trattando la sua resa al Tribunale Internazionale dell'Aja.  O, forse, no. Il procuratore del Tribunale è stato sibillino: 'Ci ha chiesto informazioni'. 

Nel profondo Sud della Libia, raccontano, la vita scorre normale. Passano armi che svaniscono nel deserto. Cominciano a riapparire i petrolieri. Per i turisti ci vorrà tempo, ma già qualcuno si muove. Ognuno, tranne i capi più compromessi, è rimasto al suo posto.
San Casciano in Val di Pesa, 31 ottobre

sabato 29 ottobre 2011

Torturatori

I volti...


Ho visitato il D2, il Departamento de Informaciones della polizia di Cordoba. Era una prigione, un luogo di tortura, era a fianco della Cattedrale della città. Dalle sue celle si ascoltavano le campane della chiesa. Qui sparirono migliaia e migliaia di uomini e donne. Qui, oltre trent’anni fa, furono torturati e uccisi dalla ferocia dei militari argentini. Qui sono conservati la Vespa rossa e la chitarra di chi scomparve per sempre.  

I nomi...


L’Argentina impaurita dei primi anni dopo la fine della dittatura sembrò voler dimenticare l’orrore del massacro di un’intera generazione di giovani. Leggi dello stato, promulgate da un governo democratico, protessero i colpevoli dei peggiori crimini. Così è stato fino al 2003. Sarà Nestor Kirchner, presidente da appena quattro mesi, ad abrogare quelle leggi e a togliere l’impunità ai torturatori. Un giudice spagnolo, Baltasar Garzòn, aveva chiesto l’estradizione di quarantacinque ufficiali argentini, considerati colpevoli dell’assassinio di cittadini spagnoli. Kirchner, allora, decise che l’Argentina avrebbe guardato con coraggio il suo passato e avrebbe processato i suoi criminali.

I luoghi. Il centro di tortura del D2


E così è stato. E i luoghi della tortura sono diventati memoria. Sono diventati visibili. L’Argentina non ha dimenticato. E, oggi, oltre trent’anni dopo, parla di quel passato. Cerca di capire. Non nasconde. Vuole ricordare.

Il 'rubio' Astiz (da www.arcitinamerlin.it)


Pochi giorni fa il Tribunale di Comodoro Py ha condannato dodici militari argentini all’ergastolo. Fra di loro Alfredo Ignacio Rubio Astiz, 60 anni, e Jorge Tigre Acosta, 70 anni, i più crudeli fra gli assassini dell’Esma, la Escuela de Mecanica de la Armada di Buenos Aires. Là dentro entrarono da prigionieri cinquemila persone, solo poco più di duecento sono sopravvissuti.

Raccontano che alla lettura della sentenza, Astiz abbia intonato l’inno nazionale.

‘Noi non mangiamo i cannibali’, ha detto il figlio di una delle vittime dell’Esma. L’Argentina non ha ucciso gli assassini e i torturatori. E’ stata capace di giustizia. Di guardare negli occhi la sua storia.
San Casciano in Val di Pesa, 29 ottobre

venerdì 28 ottobre 2011

Consumatori




I numeri sono fantastici. La Trony di Ponte Milvio a Roma, nel giorno della sua apertura, è stata assalita da venticinquemila persona (in gran parte maschi, in buona parte immigrati – spiccavano i filippini, gente del bangladesh, i maghrebini). Novemilacinquecento scontrini emessi. Due e milioni e mezzo di incassi. Otto ore di fila per entrare (alle quattro del mattino, in coda vi erano mille e cinquecento persone). E due per pagare alla cassa. Vietato l’accesso a bambini e disabili (per sicurezza!). Ventotto line di bus rallentate. Chiusi persino alcuni lungotevere. Tangenziale in tilt, traffico accartocciato su sé stesso. Duecento cinquanta vigili urbani mobilitati. Decine di body guard. Gli Iphone 4, venduti a 400 euro (399, per l’esattezza) invece che a 600 svaniti in meno di mezz’ora. Alla fine sono arrivati i blindati della polizia.
Dobbiamo stupirci? Stracciarci le vesti? Scuotere la testa pensando alla nostre ‘idee giuste’? Un altro mondo è davvero possibile? Dobbiamo condannare una generazione di migranti, quelli per i quali vorremmo accoglienza, quelli che sono arrivati fino a qui a prezzo di fatiche inenarrabili, solo perchè hanno come ragione immediata di vita un computer, un Iphone da mandare in Tunisia, un televisore da spedire alle Filippine o da rivendere su E-bay?

Scrive Michele Serra: ‘E’ difficile immaginare qualcosa di più rattristante di una folla che fa a botte per entrare in un megastore’. Non è troppo facile, Michele?  

A Londra, mesi fa, durante una delle ricorrenti ribellioni urbane, le bande delle periferie, degli esclusi dal benessere, hanno saccheggiato, per prima cosa, i grandi magazzini dell’elettronica. I migranti del Ponte Milvio (ma anche i romani, la gente che è venuta da Napoli per non perdere l’occasione) hanno comprato due televisori per rivenderne subito uno su internet.
A Santo Domingo, terra povera, mesi fa è stato aperto il primo centro Ikea del Latinoamericana. Una folla immensa lo ha preso d’assalto e ne ha sfondato le vetrate pur di accaparrarsi un comodino, una lampada, una poltrona. I cooperanti occidentali che là vivono vi sono andati con più calma, e adesso hanno case identiche a quelle che avrebbero a Milano.

I cittadini sono diventati consumatori. Devo andare a rileggere No Logo. Forse dovrei leggerlo per davvero. Servirebbe a qualcosa? 



All’Ikea, dice un mio amico, non vai per comprare qualcosa di cui hai bisogno, passeggi e gli oggetti si aggrappano alle tue mani. Fuori dell’Ikea di Firenze, migranti neri ti portano i pacchi fino alla macchina e aspettano un compenso.



Io sto per entrare nel ‘magico mondo di Mac’. Credo di farlo perché un Mac è bello. Come alibi, credo, senza interrogarmi, che sia meglio di un Pc e più semplice di un open source. Che cosa sto facendo? Mi dicono che Mac ha cambiato la vita di milioni di persone.


Cercate su interne www.groupon.it. E’ un siti di occasioni. Di sconti. Puoi comprare un voucher che ti dà diritto a un pranzo in pizzeria o in ristorante di tartufi al 40% del suo prezzo. Giorni fa, nella pagina fiorentina, venivano offerte sette ecografie a diverse parti del corpo a poche decine di euro. Quasi trecento persone si sono comprate la possibilità di farsi ecografie dalla testa all’addome.
San Casciano in Val di Pesa, 28 ottobre

Contraddico troppo spesso la mia regola che mi imporrebbe di scrivere solo di storie alle quali assisto di persona. Scusatemi. 

   

giovedì 27 ottobre 2011

Dittatori

Menghistu Hailè Mariam (da Aimnwes)

Dicono che Hailè Mariam Menghistu, il ‘negus rosso’, tiranno dell’Etiopia per diciassette interminabili anni, viva la sua vecchiaia in una fattoria in Zimbabwe. Ospite di un altro dittatore ottuagenario, Robert Mugabe. I tiranni non lasciano il potere. Tradiscono la loro rivoluzione giovanile. Alcuni sfuggono alla vendetta. Francisco Franco che visse oltre la sua morte avvenuta in un letto troppo grande. François ‘Papà Doc’ Duvalier despota sanguinario di Haiti fece in tempo a lasciare il suo potere osceno al figlio ‘Baby Doc’. Zine el-Abidi Ben Alì è scomparso in Arabia Saudita. Avrebbero meritato di morire da condannati Francisco Franco e Papa Doc Duvalier? Oggi Menghistu ha 74 anni, meriterebbe la morte a cui è stato condannato nel 2008? Le ossa di Duvalier furono disperse fra i rifiuti dopo l’insurrezione che, nel 1986, cacciò il figlio.

Due dei generali di Menghistu, per quel che ne sappiamo, sono ancora 'ospiti' malvoluti dell’ambasciata italiana di Addis Abeba. Vi si rifugiarono mentre, nel 1991, cadeva il regno del loro padrone. Non fecero in tempo a salire sull’aereo che, complici gli israeliani, fece fuggire Menghistu. Da venti anni vivono in una prigione dorata e, presumo, insopportabile. Sono invecchiati in cattività. Un loro collega non resistette e si uccise in quel meraviglioso parco dove si trova l’ambasciata. E se Gheddafi avesse trovato nascondiglio in una sede diplomatica, i ribelli di Bengasi si sarebbe fermati di fronte ai suoi cancelli?

Gheddafi e Gordon Brown

Gheddafi ha scelto un altro destino. O, forse, nella sua follia, dopo essere sfuggito alle bombe di Ronald Reagan, credeva nella immortalità del suo potere. Non riusciva nemmeno a immaginare che avrebbe potuto perdere il suo trono. Ma conosceva bene le regole del gioco. Le aveva dettate lui. E le conoscevano anche la Nato e i leader della coalizione: non ci sarebbe stato né perdono, né processo per gli sconfitti. ‘L’assassinio del nemico – ha scritto saggiamente Rossanda Rossanda – è una nuova norma delle Nazioni Unite. Terroristi e dittatori vanno uccisi da prigionieri e senza processo’. E’ una nuova regola del diritto internazionale. Che, ora come mai, non è nemmeno carta straccia. 
Fra il 2009 e il 2010 Gheddafi è stato presidente dell'Unione Africana

La guerra di Libia ha azzittito l’Africa, incapace di frapporsi fra i due schieramenti. L’Unione Africana si è rivelata inutile e impotente. Forse solo il Sudafrica, per un antico debito di gratitudine verso Gheddafi, ha cercato qualche soluzione. Ma nessuno stava cercando una via di uscita: Gheddafi e i ribelli volevano solo annientarsi a vicenda. 
I pacifisti non sono riusciti a balbettare una sola frase, hanno preferito il silenzio e si voltati da un’altra parte. Le Nazioni Unite hanno rivelato la loro ipocrisia: l’assedio a Misurata non era uguale a quello a Sirte, i civili di Tripoli non erano i civili di Bengasi. E davvero è stata ratificata una nuova (vecchissima) regola non scritta: i ‘cattivi’ non possono essere fatti prigionieri, devono essere uccisi.
San Casciano in Val di Pesa, 27 settembre

lunedì 24 ottobre 2011

Enzo Mazzi/C'è solo la strada su cui puoi contare

Ancora una volta in via degli Aceri. Al numero Uno. Nella grande stanza de 'Le baracche'. Quartiere dell'Isolotto a Firenze, il quartiere della sua ribellione del 1968. Enzo Mazzi se è appena andato per sempre sabato scorso. Un addio a 84 anni. La sua comunità ha celebrato la domenica come se lui fosse ancora fra loro. Il pane distribuito fra la sua gente. Le sue parole lette mentre tutti si tenevano per mano. I ricordi. Io mi tengo stretto la memoria dei tanti Natali passati al freddo allegro della piazza dell'Isolotto sotto la pensilina del mercato. E' un bel ricordo.

Molti anni (ora scopro che ne sono passati ben otto) scrissi un articolo attorno a lui. Doveva essere una cammino fra i preti italiani, preti 'ai margini' della Chiesa, ma così dentro al mondo. L'articolo apparve su Linus. Peccato che quel viaggio si interruppe troppo presto. Forse varrebbe la pena riprenderlo. Qui sotto il racconto di allora. Un abbraccio, Enzo.



Enzo Mazzi (da www.altracitta.org)



Da 32 anni dice ‘messa’ in piazza, in riva all’Arno. Ha fatto l’elettricista e il maestro. Non sa se è ancora un prete oppure  no. Enzo Mazzi vive sempre all’Isolotto, quartiere di Firenze. Attorno a lui si formò la prima comunità di base:  è stato un frammento del ’68 italiano. C’è ancora. E’ invecchiata, ma cammina, sogna, cerca, va al Social Forum  e non vuole fare proseliti per rimanere ‘inafferrabile’.     

Il sedici luglio del 1969 doveva essere una domenica.  Dieci mesi prima, Enzo Mazzi era stato cacciato dalla chiesa dell’Isolotto. Non era più il parroco di quella periferia fiorentina che aveva visto nascere casa dopo casa. Fu allora che la comunità, quella strana comunità di cristiani e laici, comunisti e cattolici, gente normale e ribelle, che si era raggruppata attorno a quel prete così diverso, si mise a guardare la piazza dell’Isolotto: era bella, affacciata com’era verso l’Arno e verso il parco delle Cascine. No, il quartiere non era più il Bronx o la Corea: così i fiorentini avevano subito ribattezzato quella nuova  geografia urbanistica sorta, negli anni ’50, sulle sponde del fiume. Erano territori un tempo desolati: vere discariche di rifiuti, malamente bonificate; abitate da cernitori di spazzatura e disoccupati male in arnese. Adesso, invece, fine anni ’60, la piazza aveva i suoi  portici, c’erano negozi, la farmacia, l’ambulatorio. Perfino la fermata dell’autobus – una bella lotta per avere un collegamento con il centro della città - e vi si teneva il mercato. Era una piazza vera. ‘Ci avevano sbattuti fuori dalla chiesa – ricorda Sergio Gomiti, per anni vicario di Enzo Mazzi, oggi ancora assieme a lui – E allora pensammo: stai a vedere che ‘fuori’ è davvero il posto giusto’. In quel giorno di estate, forse ingannati dal sole e dal caldo, la gente dell’Isolotto decise che ogni domenica, qualsiasi tempo facesse, la comunità avrebbe celebrato la sua ‘messa’ in piazza. Sotto le pensiline del mercato. Dicono che fu un’operaia, avvezza alle occupazioni della sua fabbrica, a suggerire l’idea folle. Che, in fondo, tanto folle non era: per più di due anni, preti di ogni parte del mondo vennero all’Isolotto a dire messa in piazza. E, da allora, mai è stata saltata una sola domenica. Anche quando la tramontana dell’Appennino spazzava le rive dell’Arno.

Credete alle storie lunghe e testarde? Fate i conti allora. Così a occhio fanno mille e settecentosedici domeniche. Almeno fino a quest’ultimo dicembre. Fanno 33 anni di ribellione, ‘di dissenso creativo’, direbbe Mazzi. Fanno mille e settecentosedici  ‘messe’ che non sono messe. La gente della comunità, alle undici di ogni domenica, dice solo: ‘Andiamo in piazza’.  Qualcuno ha fatto il pane in casa, altri portano il tavolo. Una bibbia molto usata è poggiata sulla tovaglia. C’è il vino. Un gruppo di poche persone ha preparato ‘la discussione’: in queste ultime settimane, al centro della ‘messa’ (ma Mazzi lo chiama ‘incontro eucaristico’. Per altri è ‘l’assemblea’. Diciamo, allora, che non si sa che cos’è ed è bene che sia così), vi è stato più volte il problema del lavoro. Capirete: sono i tempi della Fiat. Per quasi due ore, la comunità, fra una breve lettura del vangelo e il rito del pane, ne discute animatamente. Con partecipazione, con passione. Si parla di Jeremy Rifkin, di Einstein, e perfino, Dio ci perdoni, di Colaninno. Altre volte si è discusso di ingerenza umanitaria, di carceri, di Emergency, dei maestri di strada, dell’immigrazione, del Chiapas. Sono ‘i laici’ a dire questa ‘messa’. Sono loro a spezzare il pane. Eresia per la chiesa delle gerarchie. Ma questa è l’eucarestia dell’Isolotto. Nessuno confessa, nessuno assolve dai peccati. Dice Mazzi: ‘Ne abbiamo fatte di confessioni. Fin troppe. Collettive. Le più faticose. Sono le nostre discussioni’. Gomiti si sorprende per la domanda: ‘Se qualcuno viene a chiedermi di confessarsi, penso che sia fuori di testa’. La ‘messa’ conserva i suoi pilastri, non è una liturgia casuale: la lettura, la discussione, l’eucarestia come memoria. Dice ancora Gomiti: ‘Abbiamo tolto solo le magie, le genuflessioni, i baci all’altare, gli incensi, i fronzoli. La messa deve essere una cena normale. Fra amici che si sentono solidali’.

Natale 1976. Il pane e la sciarpa di Enzo


Ultimo Natale. Lo scorso dicembre. Una notte di pioggia e gelo. La pensilina del mercato non protegge la piccola folla della veglia. Trentaquattro veglie natalizie da quel lontano 1969. Quest’anno sono venuti anche i ragazzi del Social Forum: ben si capisce, questa è Firenze e, a novembre, Enzo Mazzi era sul palco di piazza Santa Croce a dare il benvenuto a chi stava arrivando in città. Fa davvero freddo, le persone si stringono una contro l’altra. Molti, la maggioranza, sono anziani. Hanno portato le sedie. Mazzi parla. Di lavoro. Ricordo un altro Natale di trent’anni fa: allora la veglia natalizia fu dedicata alle operaie della Confi, piccola fabbrica fiorentina, rimaste senza lavoro. Mazzi è come un folletto. Sorride con curiosità. Ha sempre una coppola in testa, i capelli sono diventati bianchi. Ha 76 anni. ‘No, 75’, sobbalza piccato. La sciarpa attorno al collo è sempre troppo lunga. Sempre fuori moda. Come nelle vecchie foto di altri Natali. Marco, geologo dell’Università di Firenze,  prende la chitarra: ‘C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza…perché il giudizio universale non passa per le case’. Già, Giorgio Gaber nella liturgia di questo Natale. Già, le strade, le piazze. Il ‘fuori’.

Natale 1976 in piazza dell'Isolotto


Mi aggiro per l’Isolotto. Qui le strade non hanno memoria. Si chiamano: via delle Mimose, via dei Melograni, via dei Frassini, delle Camelie, dell’Agrifoglio, dei Mandorli, dei Corbezzoli, viale dei Pioppi, via del Biancospino. All’edicola della piazza hanno perfino le locandine preistoriche del giornale Il Bolscevico e una copia di Umanità Nova, militante giornale anarchico. Gli hackers dei centri sociali - sono quelli di Inventati - hanno scritto sul bandone del fioraio: ‘Boicotta i giornali, leggi sui muri’.Il nuovo ‘vero’ parroco ha appeso uno striscione alla facciata della chiesa: ‘Pace’. La vecchia comunità di base, quando non è in piazza, sta in via degli Aceri. Nelle vecchie ‘baracche verdi’. Luogo storico delle loro riunioni. Oggi non sono più baracche: sono casette in muratura. Color crema. Il quartiere è cambiato: merito della sua storia, merito di amministrazioni sapienti. Bei giardini, palestre, ludoteche, centri per anziani, scuole. Si vive bene all’Isolotto. Le periferie raspate sono già altrove. Ma, nel piccolo benessere, è come scomparsa l’antica solidarietà. Non ci si conosce più come un tempo. A malapena ci si saluta fra vicini. Ci sono sbarre alle finestre. Anche nelle vecchie case popolari.
Chiedo di Mazzi ai ragazzi che studiano in biblioteca, a qualche passante anziano, a una coppia di giovani, a un vecchio barista: nessuno sa dirmi dove posso trovare il prete. I ragazzi non lo conoscono. Eppure lui è dietro l’angolo. A un passo. Immerso in una riunione: poche persone attorno a un tavolo. Sotto una bandiera arcobaleno della pace. E la memoria del quartiere dov’è finita? Io penso a Stefania che, quando le ho parlato di Enzo Mazzi, mi ha risposto: ‘E perché vuoi scrivere di quello che va a Domenica In?’.

Flash back di storia minuta e importante. Il cardinale Elia Della Costa, l’uomo che chiuse le porte dell’arcivescovado quando Hitler venne a Firenze, ebbe fiducia in quel prete giovane e inquieto. Fu lui a nominare Enzo Mazzi parroco dell’Isolotto, il nuovo quartiere, la prima ‘città satellite’ di Firenze. Era il 1954. Il 6 novembre di quell’anno, il sindaco La Pira consegnò mille buste con le chiavi delle prime case popolari dell’Isolotto. Qui atterrarono i poveri di allora: gli sfrattati del centro storico fiorentino, i contadini fuggiti alle mezzadrie, i profughi istriani e greci. Qui non c’era niente: fogne da schifo, intonaci che cominciarono subito a staccarsi, infiltrazioni d’acqua ovunque. Niente strade, autobus decrepiti nell’unico collegamento verso il centro. Era davvero il Bronx fiorentino. Enzo Mazzi cominciò a fare il parroco in una cappella che sorgeva in un vicolo sterrato, via del Palazzo dei Diavoli. Ottimo auspicio per un prete. E strane alleanze (ma anche sfide, discussioni accese, qualche rivalità, gelosie) nacquero quando dalla Casa del Popolo andarono a svegliare il prete (alle tre del mattino) per cercare solidarietà nella protesta contro il degrado dell’Isolotto. I compagni furono sorpresi: il prete non stava con la Dc. Laura ricorda: ‘Diceva cose di sinistra. Eravamo senza parole’. E del resto Mazzi era un tipo particolare: non faceva pagare per funzioni, non pretendeva gabelle per matrimoni e funerali. Viveva di quanto la gente dava alla domenica. 

Anni più tardi, il Corriere della Sera, avrebbe intitolato: ‘Firenze, si sa, è la città dei preti rossi’. La parrocchia dell’Isolotto stava davvero in mezzo alle inquietudini del mondo: si schierò con gli operai delle fabbriche in crisi, scrisse un nuovo catechismo, manifestò per il Viet-nam, fu centro di soccorso nei giorni dell’alluvione dell’Arno, pianse, con gli spirituals di Ivan Della Mea, la morte di Martin Luther King. Infine solidarizzò con gli studenti dell’Università Cattolica di Milano che avevano occupato la cattedrale di Parma. Era l’autunno del 1968. Era la protesta radicale di giovani cristiani contro ‘il connubio della Chiesa con la zizzania del capitalismo, del razzismo e del fascismo’. Ce n’era abbastanza: il nuovo cardinale di Firenze, Ermenegildo Florit, non aveva le utopie di Della Costa. Diffidò il prete ribelle, lo minacciò, alla fine lo cacciò. Liquidò, con veleno, la storia dell’Isolotto: ‘Non siete una comunità cristiana, siete un pericoloso gruppo politico’. Sbarrò le porte della chiesa. La procura di Firenze mise sotto processo mille parrocchiani (molti si autodenunciarono) per ‘turbamento di funzione religiosa’. Alcuni, fra cui cinque preti, vennero incriminati per ‘istigazione a delinquere’. Avvocati di prestigio li difesero con passione. Tutti assolti nel 1971. Ma nel frattempo, all’Isolotto, nella grande chiesa, il Vaticano spedì tre preti vicentini, tre ‘volponi’, a ristabilire l’ordine religioso. Per anni, i tre si metteranno a suonare assordanti campane durante le ‘messe’ della comunità in piazza. Sapete? I tre vicentini sono rimasti qui fino a quattro anni fa. Inossidabili. Sapete? In più di trent’anni, nessuno delle gerarchie ecclesiastiche è andato a spiegare a Enzo Mazzi e a Sergio Gomiti cosa diavolo fossero. Nessuno li ha sospesi a divinis. Nessuno ha detto loro se erano o meno ancora preti. ‘I preti devono sparire. Gesù era un laico e lottò contro la casta dei sacerdoti. Una casta che non vuole che i laici parlino nelle chiese’, dice, con calore, Sergio. Che oggi ha 71 anni: si dimise da parroco quando Mazzi fu cacciato. Da allora ha lavorato alla Biblioteca Nazionale. Mazzi, senza nessun titolo di studio, ha fatto per due anni l’elettricista. Poi, a quarant’anni, si è preso un diploma magistrale e ha fatto il maestro. Ci sono anche le collaborazioni con Repubblica, il Manifesto, l’Unità. E i bei libri scritti. Ora i due amici sono entrambi in pensione. Tempo in più per la comunità. Non si sono mai sentiti ‘preti-lavoratori’. Solo lavoratori. Non hanno mai cercato di fare ‘apostolato’ sul luogo di lavoro. Hanno lavorato per vivere e ‘per riconquistare valori della vita che nelle condizioni del clero si sono perduti’.

La matrigna di Enzo Mazzi aveva un fratello monsignore. Il destino di prete per il ragazzo di famiglia povera era quasi segnato nell’Italia degli anni vicini alla guerra. ‘Ne provavo attrazione e repulsione allo stesso tempo’, ricorda. Prete lo diventa, non lo cacciano dal seminario (‘Merito del monsignore’). Lo mandano in una parrocchia di un quartiere piccolo-borghese. Ci sta male: ‘Troppi interessi, troppa omertà, troppi privilegi, troppe compromissioni della casta sacerdotale’. Per questo approda all’Isolotto.
Il padre di Sergio Gomiti era un socialista. I suoi zii giravano con la camicia rossa negli anni ’20. Mai andato a messa da ragazzo. I preti quasi non si fermavano a benedire la casa: ‘Da noi non accettavano il vermuttino,né il biscottino’. Erano queste le campagne fiorentine. Ma la famiglia materna di Sergio era di ‘baciapile’: tre rosari prima di ogni pranzo e cena. Lui fece due anni di avviamento professionale, poi, quasi per reazione, spiegò al padre che voleva entrare in seminario. L’uomo rispose: ‘D’accordo. Ognuno fa le sue scelte’.  Quando Sergio arrivò all’Isolotto, era il 1957, si ritrovò fra la sue gente: ‘Mi sentii nell’acqua. Per me si ricompose la frattura fra la chiesa dei preti e la gente normale. Ritrovai il mondo della mia adolescenza’.

Claudia, 38 anni, è arrivata all’Isolotto dal Veneto dieci anni fa. Per amore di un uomo. ‘Dalle mie parti il prete ci aveva proibito la lettura dei libri di Balducci. E qui, invece, nessuno mi ha mai chiesto se ero credente o meno. Vidi la gente della comunità in piazza. Mi incuriosii. Cominciai  frequentarla e scoprii persone libere. Erano senza l’ossessione della religione’. Claudia è una delle poche persone che, senza far parte del gruppo originario, si è agganciata alla comunità dell’Isolotto. Sta fotocopiando documenti contro la privatizzazione della Centrale del Latte di Firenze: verranno distribuiti durante ‘la messa’.

Storie di preti d’Italia. Vado anch’io alla ‘messa’ della comunità. Dal cielo piove ghiaccio: da un paio di anni, quando fa troppo freddo, la comunità rinuncia alla piazza (‘è stata una decisione sofferta, ma stiamo invecchiando’) e si ritrova in un sala delle ‘baracche verdi’. Conto trenta persone, più tre bambini che giocano e gridano senza che nessuno ne sia infastidito. Nessun ragazzo. Spiega Luciana e non so se capisco fino in fondo: ‘Non abbiamo voluto fare proselitismo. Non vogliamo i giovani. C’è intesa con loro. Ma facciano la loro strada. Noi siamo felici di invecchiare’. Dice Luisella: ‘Non abbiamo offerto appigli ai giovani. Non abbiamo fatto nessuna forzatura. A volte temo che ci sia stata troppa autorefenzialità’. Aggiunge Danilo: ‘Siamo una goccia d’acqua e vogliamo stare nel mare’. Mi dicono ancora: ‘Ci piacerebbe, per vanità forse, essere tanti. Meglio essere pochi. Siamo come il sale nella pasta: un poco va bene, ma se è troppo la pasta è cattiva’. Mazzi mi complica le cose: ‘Noi non sappiamo chi siamo. E’ la nostra debolezza. E’ la nostra forza: siamo inafferrabili’. Non sapranno chi sono, ma sicuramente sanno chi ‘non sono’: ‘Non siamo un ghetto, non siamo un’istituzione. Non abbiamo nemmeno un elenco di chi fa parte della comunità. Per rintracciare qualcuno spesso dobbiamo fare giri di telefonate. Non siamo una setta: la nostra comunione non si basa sull’appartenenza, sui codici rigidi dell’identità, sulle bandiere. Non abbiamo nemmeno obiettivi comuni e non mettiamo in comune i nostri problemi personali: non stiamo a guardare il nostro ombelico come se fosse il centro del mondo. Non siamo un centro di benessere. Andiamo in piazza e ci riuniamo in quella che era una baracca: sono luoghi-non luoghi. Stiamo assieme, ma per dissolverci. La nostra messa della domenica e la nostra stessa comunità finiranno con noi’. Ma avrà lasciato tracce sulla terra: questo lo dico io.  Non so se Mazzi o Gomiti lo direbbero. Forse sì. Dicono: ‘Trent’anni non sono passati invano’.

In un giorno di gennaio del 1969, le baracche erano asfissiate dal fumo. Troppi fumavano. C’era nevosismo: erano appena scattate le incriminazioni del perfido procuratore Calamari contro la comunità. Qualcuno dal fondo della sale disse: ‘La procura ha buon gioco con noi: siamo e siamo stati dei sognatori’. Il tono era quasi di rimprovero contro le utopie. Ma quelle parole erano realtà: all’Isolotto si è sempre sognato. Mazzi diventa un teologo pratico: ‘Non mi basta la salvezza nei cieli. Il Vangelo è un libro di liberazione. La salvezza deve essere, almeno, una prospettiva storica. Qui, sulla terra. Che almeno ci sia una possibilità. Non ci riusciremo, ma proviamoci. Camminiamo’. Ho una folgorazione romantica – ne chiedo scusa - mentre saluto il prete-non prete (come lo definisco? Lui che detesta le definizioni): mi viene il dubbio piacevole che Marcos, il subcomandante, abbia letto di Mazzi e della comunità dell’Isolotto. ‘Camminare domandando’, ‘il popolo di sognatori’: sono le parole rinate, pochi anni fa, nella selva Lacandona. Magari è vero che, in riva all’Arno, selva italiana, trent’anni non sono passati invano. 

domenica 23 ottobre 2011

Libia/Telefonini, maschi, giovani predatori, Gheddafi, papa Wojityla, un concerto di Elisa

Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi 


Ha ragione Adriano Sofri: la morte e lo scempio del corpo di Gheddafi è una tragedia arcaica e ipermoderna.

I giovani eccitati di Sirte, i combattenti della Brigata Misurata, sono tutti maschi (e non solo per i dettami di una società che, ai nostri occhi occidentali, relega le donne in luoghi sottomessi). Questa è una feroce storia maschile. I ragazzi hanno in mano fucili perfetti e antichi (i kalashnikov) e smartphone a banda larga. In fondo questo ci chiedevano i migranti nigerini incontrati in mezzo al deserto libico: ‘La prossima volta portateci un cellulare. Di ultima generazione’. Tutti in Africa vogliono un telefonino. Ancor prima del cibo. E sul display dei nostri amici del deserto alla fine appariva l’impiccagione di Saddam Hussein e, in momenti nascosti, qualche video porno. Ma i cellulari hanno anche rotto l’isolamento dal mondo e dalla famiglia lontana. Lungo le loro frequenze correva l’arcaicità e la modernità, il vincolo di sangue e la fuga (a volte è libertà, spesso è esilio).

Non c’entra niente, ma a un concerto di Elisa, i ragazzi non sollevavano le fiammelle di un accendino (anche questa modernità rispetto ad anni precedenti), ma un cellulare con il display acceso (luci violette e fredde, ma si registra anche e si manda 'l'emozione' a chi è rimasto a casa). Ricordate le immense processioni davanti al corpo (ancora una volta un corpo) di papa Woijtyla? Si aspettava ore e ore, si viaggiava da migliaia di chilometri  solo (solo?) per scattare un click di telefonini (e allora non c’erano gli smartphone).

Oggi si vede, si deve vedere tutto. Una eccezione è quasi sorprendente: nessuna foto del cavallo morente alle prove del Palio di Siena di quest’anno. Il rito arcaico  e appassionato della gente dei senesi sorveglia, meglio di un servizio segreto, chi vi assiste e riesce a tenere perfino i cellulari lontani dalla morte di un cavallo.

I morti sono sempre stati esposti: le teste tagliate degli shogun giapponesi erano esibite davanti ai vincitori. Nella Francia rivoluzionaria la ghigliottina era pubblica e affollata di spettatori. Piazza Loreto, anche per noi che non abbiamo vissuto quegli anni, è nella nostra storia. In fondo, che mi sia perdonato, anche il corpo morente di Cristo è esibito. In America Latina più un crocifisso è sanguinante e sofferente più è venerato. Fanno discutere a bassa voce le statue del Cristo quando il suo viso appare sereno.

Penso che se fosse stato uno dei leader dei ribelli di Bengasi ad essere stato massacrato dai ghedaffiani (e questo sarebbe avvenuto se Jalil o Jibril fossero caduti nella loro mani) il mondo occidentale avrebbe urlato il proprio disprezzo per i barbari e si sarebbe vendicato. Di fronte al corpo di Gheddafi, ho avvertito qualche osceno e mal represso moto di giubilo e, vivadio, qualche imbarazzo e distinguo. Va bene così? In fondo il qaid era un tiranno.

Adriano Sofri dice che, nelle ore del massacro, ‘gli dei e gli eroi se ne sono andati coprendosi il viso’. Restano gli umani. Che dalle pieghe di un burnus o dalle tasche di una mimetica nuova di zecca (chi gliela ha fornita assieme al kalashnikov?) tirano fuori un cellulare per fotografare l’agonia della belva ferita e morente. Per quanti anni terranno nella fragile memoria di un telefonino questa scena? A chi i diciottenni di Misurata faranno rivedere le foto di gruppo con un cadavere?
San Casciano in Val di Pesa, 23 ottobre






venerdì 21 ottobre 2011

Gheddafi

2007, Eliseo. (da www.lastampalibera.it )


Reazioni a istinto, a emozione alla morte di Gheddafi. Chiedo ad amici.

'E' giusto così. I dittatori non possono fare che questa fine'

'Perchè ogni storia deve finire sempre a questa maniera?Si gioisce, si spara in aria, si festeggia se muore Gheddafi o Bin Landen o Saddam. Gente orribile. Ma davvero non vi è altra maniera per mettere fine a una dittatura o a un terrorismo? Davvero questo mondo contemporaneo ha le stesse logiche di un mondo feudale? Sono passati invano mille anni?'

'Non vi era altro modo. Non poteva che finire così. E, a prescindere dall'intervento della Nato, il regime di Gheddafi era da combattere'.

C'entra poco, ma a me viene da pensare ad Angelo Del Boca, il primo che ha raccontato, anni fa, il colonialismo italiano, lo storico che ha scritto la migliore biografia di Gheddafi. Del Boca si è battuto, con la parole, perchè l'Italia riconoscesse le sue colpe coloniali. Ha incontrato più volte il Colonnello, ne ha avvertito il fascino, ha narrato del suo nazionalismo panarabo, non ne ha mai nascosto i crimini. E' stato fra i pochi che, qualche anno fa, rifiutò una onorificenza libica perchè non poteva perdonare a Gheddafi i campi di concentramento per i migranti. Disse allora che mai sarebbe tornato in Libia.

Non so: in questi mesi di guerra, abbiamo assistito ai più scandalosi voltafaccia dei leader politici ed economici del mondo. Appena un anno fa, Gheddafi era 'l'amico stravagante'. Era l'uomo con il quale l'Eni, al pari di ogni altra compagnia petrolifera, faceva affari. Era l'uomo davanti al quale si inchinava il presidente di Unicredit. I suoi rappresentanti sedeva nel consiglio di amministrazione della Juventus. Nessuna vergogna, nessuna ammissione di colpa o errore. Non fa parte della politica.

E' probabile che non potesse che finire così. A Sirte. Là dove Gheddafi, secondo la sua mitologia, era nato. L'uomo si esaltava solo quando era in guerra contro il mondo. E il mondo, forse, non avrebbe avuto la capacità di assistere a un processo contro Gheddafi. Perchè sarebbe stato un processo contro la follia cinica della politica internazionale. Sul banco dei testimoni sarebbero dovuti salire i protagonisti della storia degli ultimi quaranta anni. Il mondo della politica internazionale e della guerra sarà mai capace di confrontarsi con sè stesso? Sarà mai 'migliore' questo mondo?
San Casciano in Val di Pesa, 21 settembre

mercoledì 19 ottobre 2011

Etiopia/Kadiga

Hakaisse Abdalla fa parte del lignaggio Shekka del clan Shekek-Hassob. Hakaisse è un Afar. Non è un nomade. Ha le capre al villaggio. Vende chat in città. Ha sposato Esegala: la figlia della sorella di suo padre. Sua cugina. Ma Esegala non vuole vivere nelle campagne, non vuole pascolare le capre, non vuole andare a prendere l’acqua al pozzo. Hakaisse vuole avere capre per lasciare un bene in eredità al figlio. Hakaisse ha la soluzione: Esegala sarà la moglie di città, bisognerà trovare un’altra cugina come moglie di campagna. 

Hakaisse non ha nessuna intenzione di sposare una donna di un altro clan e non vuole rompere le tradizioni. Hakaisse tratta la faccenda con i suoi fratelli, con i compagni di lignaggio, con i vecchi della famiglia. La nuova moglie sarà Kadiga, figlia di un fratello del padre. La negoziazione del nuovo matrimonio è andata avanti per quattro settimane. Hakaisse ha speso ben 1500 birr in chat, tabacco, camicie, pantaloni e proiettili. Le nozze sono durate otto giorni. E’ stato un giubilo. Dopo la luna di miele Hakaisse ha lasciato le capre a Kadiga ed è tornato con Esegala in città.

L'offerta del chat
Kadiga non è rimasta al villaggio. Non si è ribellata. A tutti è apparsa tranquilla. 
Un giorno la sua famiglia ha trovato le capre ancora chiuse nel recinto. Belavano con versi da corvi. Mancava un animale. Kadiga non c’era più.

Io l’ho incontrata a Gibuti. Aveva preso il treno verso il mare. Era la prima volta che lasciava la sua capanna. A Gibuti, ora Kadiga vende chat al mercato. Un uomo glielo fornisce ogni mattina. Nessuno ancora l’ha seguita per ricondurla al villaggio. Nessun Afar sposerebbe Kadiga. Ma lei alza le spalle. Ci sono uomini Issa. Ci sono altri uomini, tanti uomini. Kadiga abbassa il volto e spruzza acqua sulle foglie di chat prima di infagottarle in un sacchetto di plastica.
Gondar, 30 settembre

sabato 15 ottobre 2011

Etiopia/La leonessa di Godebera


Melise e la leonessa di Godebera



E ora che ti ho scolpito, leonessa? E ora che ti ho bloccata per sempre mentre stavi per spiccare il volo? Non puoi nemmeno maledirmi o imprecare: io ti ho dato la vita, io ti ho creata. Ricordi la prima notte? Non  so cosa mi prese. La fatica di cavare pietre per i loro monumenti funebri era stata intollerabile. Anche gli uomini più forti erano crollati. Non ce la facevamo a tagliar via quella roccia così immensa. I sacerdoti, corrotti e avidi, erano impazziti: ogni anno volevano un monumento più grande, avevano deciso di sfidare i loro dei. Io mi ero nascosto dietro il tuo masso, leonessa, ed era come se ti avessi sentito ruggire, come se avessi sentito il tuo respiro. Eri lì. Il freddo della paura cominciò a scorrere sulla mia pelle, sentii il sudore scendere sul mio corpo, vidi le mie mani tremare. Poi la luna si mostrò dietro la montagna della cava e il masso si illuminò. Divenne pietra lucente. Vidi il tuo profilo, vidi la tua sagoma, vidi il tuo riflesso. 


I paesaggi di Godebera alla fine della stagione delle piogge


Mi voltai di scatto, non c’eri. Ma sapevo che mi stavi guardando. Presi un sasso appuntito come per difendermi, alzai il braccio pronto a colpirti. Poi mi girai ancora e ogni racconto è vano. Accarezzai il masso, era morbido come la pelle della schiava nubana che avevo amato molti anni fa, era teso come il tamburo che risuona durante le processioni. 


L'apparizione della leonessa

Fu allora che cominciai, con paura, con indecisione, a incidere quella pietra. Ogni tanto mi voltavo e ti vedevo fra gli arbusti: guardavo i tuoi occhi bianchi, intravedevo la tua zampa alzata, scrutavo la coda che non smetteva di agitarsi. Ci misi lune e lune: per molto tempo l’astro non tramontò mai, i sacerdoti ne erano impauriti. Sospesero la costruzione del loro ultimo idolo. Gli schiavi furono lasciati nella cava. Non fuggirono. Io, ogni notte salivo a Godebera, e trasformavo il profilo della leonessa.

Vicino alla leonessa

Eccoti, ora ti vedo, ti vedo, ti vedo. Mi volto ancora un’ultima volta. Ma so che non ci sei più. Sei andata via, ho sentito il fruscio contro le foglie, eri soddisfatta e disattenta: per la prima volta ho avvertito il rumore di un sasso che rotolava. Non ti avrei più rivista. La luna quella notte tramontò. Gli schiavi erano fuggiti. Solo tu sei rimasta a Godebera. Solo tu. Ho preso la pietra con la quale ti ho catturato e ho mosso i primi passi verso la libertà. Ti ho lasciato lì e non me lo so perdonare. Ma, ora, molte e molte lune dopo, in riva a questo mare, ti ho sentito di nuovo. Mi sei arrivata alle spalle. Sono diventato bravo: ho avvertito il tuo odore, il tuo respiro, i tuoi passi silenziosi. So che hai spiccato il balzo verso il cielo. Sul masso a Godebera è rimasta la tua ombra. Di me solo la polvere.
Addis Abeba, 28 settembre


mercoledì 12 ottobre 2011

Etiopia/Un giorno normale a Gondar

L'ufficio postale di Gondar



Cerco tracce. Di molti anni fa. L’ufficio postale dal quale, nella tarda primavera del 1996, spedii un telegramma a casa. Ha nuovi intonaci, ma ha conservato i suoi colori. Azzurro e avorio. I vecchi guardiani sono rimasti sospettosi, vigilano sulle architetture italiane e sui nostri movimenti. Gli italiani, negli anni dell’occupazione, doveva sentirsi orfani della loro terra e, allora, qui a Gondar costruirono una perfetta replica di una città del Sud. L’ufficio postale, la pancia razionalista dell’hotel Ethiopia (da qualche parte ho scritto come si chiamava nel 1938), le due torri del cinema. Già, il cinema c’è ancora. Ancora con la macchina a carboni e la sua sala da duemila persone. Non c’è più il bar al piano terra. Vi si è installata una banca. I banchiera sono impietosi anche in Etiopia. 

Il cinema di Gondar


E ancora: le case nascoste nella collina, le abitazione popolari, i palazzi cadenti, l’albergo nel quale vi erano i ‘camerieri di antica cortesia’. Qualche turista mi ha preso sul serio andando a cercarli fra polvere e velluti mangiati dalle tarme.

Castello di Fasilladas

Il castello di Fasilladas

Mi piace stare a Gondar. Il sole illumina i suoi castelli, luogo di pace. Studenti dell’università si offrono come guide competenti. Un’umanità dalle mille facce si muove nel corso della città: i vecchi con la cravatta a e la camicia consunta sul collo, le ragazze con i capelli arricciati, i mendicanti che chiedono senza insistere, la Pepsi- cola che sponsorizza perfino i gabbiotti della polizia stradale.

La Pepsi-Cola


I Bagni di Re Fasilladas


Non so come è passato il tempo oggi. Mi scopro senza storie. Perché forse mi sono perso nella nostalgia di un viaggio di troppi anni fa e nella pace del grande parco dei castelli di Gondar. Il bacino di re Fasilladas era privo di acqua e così ho potuto camminare sul fondo della ‘piscina’ reale. I grandi alberi aggrovigliano ancora le mura dei Bagni del Re.


Gli alberi aggrovigliano le mura dei Bagni di Re Fasilladas


Alla fine, al tramonto, torno al castello e mi siedo di fronte alle sue pietre. Guardo il sole disegnare ombre. E penso che mio padre passò di qua quasi ottanta anni fa.
Strane storie. Da non interpretare. Un giorno normale a Gondar.
Gondar, 29 settembre

martedì 11 ottobre 2011

Etiopia/Ritorno a Tana Kirkos

L'isola di Tana Kirkos

Questo è il viaggio dei ritorni. Tana Kirkos, l’isola irraggiungibile sempre raggiunta. L’attracco difficile, la brusca e scivolosa salita dei primi passi, il paesaggio bellissimo, il monaco dalla veste gialla. Isola sacra. Incrocio di leggende. Pilastro del potere in Etiopia. Fondamenta della religione. I monaci sono pignoli: l’Arca dell’Alleanza, lo scrigno che ha custodito i Dieci Comandamenti, è arrivata a Tana Kirkos, portata da Menelik I, il figlio della regina di Saba e re Salomone, novecento e ottantaquattro anni prima di Cristo. E’ stata deposta su un masso e lì, per otto secoli, si sono compiuti sacrifici in suo onore. L’Arca ha atteso. Anche la Madonna ha raggiunto queste solitudine dell’estremo oriente del lago Tana: vi ha soggiornato tre mesi e dieci giorni, precisa il monaco Woldemariam.

La pietra dove fu custodita l'Arca dell'Alleanza


Hanno costruito un brutto rifugio di metallo per la pietra dei sacrifici, ma Woldemariam difende con orgoglio la decisione di proteggere questo luogo dalla pioggia e dal sole.

Daga Estefanos. La pietra che ricorda l'arrivo dell'abuna Amlak


Si raccontano storie sul lago Tana. La chiesa di Daga Estafanos, il monastero più importante, fra quelli del lago, fu fondato dall’abuna Amlak arrivato fino a qui su una barca di pietra sollevata in volo dagli angeli. L’abuna assieme a suo fratello, Yekuno Amlak, rifondò la dinastia salomonide, il potere dei Negus sull’altopiano. Era quasi la fine del 1200. Sul lago Tana venne siglato il patto fra stato e chiesa capace di garantire il potere ai salominidi fino agli anni di Hailé Selassiè.

La pesca solitaria del monaco


Passeggio fra il caffè dei monaci di Daga Estefanos, guardo i diaconi pescare a Tana Kirkos. Un monaco di Daga Estefanos mi  chiede se posseggo un Samsug. Lo guardo con occhi incerti. Lui tira fuori, da una scatola di fiammiferi, una microscopica flash card da 16 giga. Contiene tutti i canti religiosi dell’Etiopia, ma lui non ha il palmare per poterla leggere. Rimango in silenzio. Lui, dopo un po', nasconde questo piccolo e inutilizzabile tesoro fra le tasche nascoste della sua tunica. Rientra in chiesa, si avvicina a un pesante libro. Legge, su fogli di pergamena, i passaggi della Bibbia. Salmi di una religione potente e conservatrice. Un monaco macina il teff per l’njera di stasera. Il giovane prete sfiora con le dita la sua card. Qualcuno, prima o poi, arriverà in questa isola, inaccessibile alle donne, con un microcomputer e nella chiesa si canteranno le trance di un Dio testardo. 
Gondar, 27 settembre

lunedì 10 ottobre 2011

Etiopia/La notte di Narga

L'attesa del prete di Narga


Molti anni fa, il mio primo pensiero, sbarcando sul pontile scivoloso della isola-penisola di Narga, fu: ‘Qui voglio dormire una notte’. Allora c’era un prete dagli occhi rotondi appoggiato al portale che conduceva ai recinti sacri della chiesa. Era vestito di bianco, appariva ogni volta che sentiva avvicinarsi il rumore di una barca. Narga Selassie, una chiesa rotonda, di pietre e mattoni, lontana, smarrita al centro del lago Tana. Una penisola che, nella stagione delle piogge, si trasforma in un’isola. Quest’anno le piogge sono state abbondanti. Le onde del lago sono irrequiete. Si frangono con schiume untuose sulle pietre e sui grandi alberi che affondano le loro radici nell’acqua e lasciano penzolare una foresta di liane.

La regina Mentwab

Narga venne costruita su ordine della regina Mentwab. Un prete mi racconterà una storia: Narga potrebbe significare ‘Facciamola là’. Consiglio dei preti di Dega Estefanos, altra isola del lago Tana, all’ultima regina di Gondar che stava cercando un’isola dove edificare un suo romitorio.

Il porticato della chiesa di Narga


Il prete è ancora lì. Quanti anni sono passati? Due pescatori pagaiano sulle loro piroghe di papiro. Indifferenti alle onde. Il tempo si è fermato a Narga. Tre guardiani a piedi scalzi, armati di fucili assomigliano a burattini di un presepe. Solo due preti, oggi, a Narga: pregano, aprono le porte della chiesa, mostrano gli affreschi, indossano guanti bianchi per far vedere croci e messali. Tre vecchi fanno compagnia ai preti con la loro decrepitezza. I piedi di un prete sono malati, ma il suo sorriso è luminoso. E’ un luogo perfetto e lontano, Narga.

La notte di Narga


Notte di Meskal. Non riusciamo a raggiungere il villaggio dell’isola. Troppa acqua nel canale. Sono stanco. La notte del Meskal si accendono i falò. Per celebrare la Croce di Cristo e per avere auspici sui raccolti e sulle nuove semine. Finisce la stagione delle piogge nella notte di Meskal. Cominciano i raccolti, si preparano terreni per semine ancora lontane. Brucia il falò, brucia la Croce, bruciano i fiori gialli. Cade verso Nord la Croce. Le fiamme l’hanno spinta, con qualche aiuto dei preti, verso Nord. E’ augurio di abbondanza, presagio di una buona stagione. Non avrebbe potuto essere altrimenti.

Il pescatore di Narga


Stanotte dormirò a Narga. Ho realizzato un desiderio antico. Ascolto i rumori del lago. Le rane. Gli uccelli notturni. Suoni che non riconosco.
Narga Selassie, 27 settembre 

Back stage. Ma è davvero andata così? Narga, in quella notte, mi è apparsa il luogo più bello della terra. Ma, nella notte, è piovuto sulle nostre tende. Apprensione, il campo era montato in discesa. I preti, giustamente, non avevano voluto che alzassimo il campo nel recinto sacro. I viaggiatori che avevamo condotto fino a qua non erano poi molto felici di trovarsi su questa isola per la notte. I due preti e i due guardiani hanno fatto, per noi (dietro pagamento), un piccolo falò. Loro erano contenti di un Meskal così personale.
Alle quattro del mattino, giorno della festa, un gracchìo metallico improvviso: i preti hanno azionato, in un’isola senza elettricità, un generatore e dato corrente a un microfono (chi porta la benzina fino a qui? Quasi quattro ore dalla terraferma). Hanno recitato la loro messa, gridando in un altoparlante. Due preti e un microfono graffiante. Messa urlata per le rane e gli uccelli. Che si svegliano. Mi arrendo, esco dalla tenda e vado alla messa. Almeno siamo in sei (due preti e quattro turisti). Othodox? domanda il prete giovane e bello. Sfioro con la fronte e le labbra i libri che i due preti leggi al microfono. Fuori il cielo si schiarisce. Al mattino le acque del lago sono tranquille, soddisfatte della loro notte agitata.  

domenica 9 ottobre 2011

Israele e Palestina/Il viaggio possibile

Il piacere di un falafel
Una storia lunga oramai quattro anni. Un libro-guida che raccontava un viaggio che cercava di farsi beffe del grigio del Muro. Andavamo, io e Mario Boccia, da una parte all'altra di quella barriera oscena. Per scrivere e fotografare. Per una guida turistica che volevamo più forte della follia degli uomini che vivono in questa terra. Era un lavoro che facemmo per un progetto di cooperazione (MedCoperation) e per la Regione Toscana.

Preghiera ad Haifa

Ci innamorammo, se mai ve ne fosse stato bisogno, di questa 'terra stretta'. 162 chilometri fra Gerusalemme ed Haifa. Ne raccontammo la bellezza, senza dimenticare l'ingiustizia.

Preghiera ad Haifa

Quattro anni fa, questi libro uscì solo in inglese. Non sappiamo che diffusione abbia mai avuto. Andammo a presentarlo a Gerusalemme e a Nablus. Ancora una volta scavalcammo la 'bruttezza' del Muro.
Oggi questo piccolo libro (una guida a sei città, tre israeliane e tre palestinese) esce finalmente in italiano. Grazie all'associazione Coopera e alla Regione Toscana. Pubblicato da Terre di Mezzo. Ci sono operatori turistici, Argonauta Viaggi, che vogliono accompagnare viaggiatori anche al di fuori degli itinerari abituali in questa Terra.

Preghiera ad Haifa


Il libro viene presentato lunedì 10 ottobre alla Badia Fiesolana, a San Domenico di Fiesole, nella sala Capitolare, alle ore 18.
San Casciano in Val di Pesa, 9 ottobre

Etiopia/Scarpe per miracolo

La chiesa di Ura Khidane Meret

“Dio dei miracoli, guarda i miei piedi. Sono grandi, sono grossi, hanno le unghie che già si staccano, come quelle del diacono che non è riuscito a diventare prete. Dio dei miracoli, ho solo 32 anni e già indosso la tunica gialla del monaco. Passerò tutta la vita in questa chiesa dalle dodici porte. Non vedrò altro mondo che questo. Ma che dico: qui passa il mondo. Da anni viene gente dai paesi stranieri. Prima c’era un prete istruito che li accoglieva. Oggi ci sono io, abba Wolde Giorgis. Ma a loro sorrido e basta. Alcuni mi chiedono di stare in  piedi davanti a San Michele o davanti alla Madonna. Sia lode a Maria, Dio dei miracoli. Un uomo con tante photos appesa al collo mi ha tenuto per un’ora davanti alla porta della tua Tavola. La cera della candela colava sulla mia mano e l’ora della birra era già passata. Gli ho dato il foglietto di carta con il mio nome scritto nella loro lingua. Spero che mi mandi la photos. 

Prove di 'affresco'


Poi mi sono ricordato, Dio dei miracoli: ecco cosa vedo tutti i giorni quando al mattino gli stranieri arrivano alla chiesa inseguiti dalla gambe nude dei venditori.  Hanno belle scarpe ai piedi, hanno scarpe grandi, robuste, dalle suole alte. Come mi piacerebbe averne un paio per me, Dio dei miracoli. E’ tutto quello che vorrei. Più volte le ho tenute in mano: le appoggiano sui gradini di pietra prima di entrare nella tua chiesa. Sono decine e decine di scarpe. Non so quale scegliere. Sono fatte di una materia che non è legno, non è pelle, non è nemmeno la loro plastica. Ho chiesto alla loro guida di Addis Abeba, e lui, impertinente, si è messo a ridere. Mi ha messo in mano dei soldi, un biglietto da 50 birr. Ci comprerò molti bicchieri di birra, ma mai le scarpe. 

Uscendo dal maqdas, il 'santuario'


Dio dei miracoli, grazie per avermi dato la forza. Sono nascosto fra le piante del caffè, sento le voci alterate, l’uomo di Addis Abeba è infuriato, ma deve scusarsi con il suo straniero. Se ne sta andando lui a piedi nudi. Non hanno tempo per cercarmi. Cambierò chiesa, sfuggirò alla polizia. E lo farò grazie a te, Dio dei miracoli, che mi hai detto: ‘Prendi quelle scarpe, quelle bianche, con i lacci e la suola alta e nera’. Con un po’ di fatica le ho calzate. Dirò a mia madre di aprirle dietro. Mi staranno meglio. Stasera leggerò i salmi con ardore e penserò alla forza dei miracoli. Tutti vedranno  le scarpe luccicare alla luna”.

Ura Khidane Meret, 26 settembre