giovedì 28 novembre 2013

Scopare ad Hamed Ela


Hamed Hela

Scopare ad Hamed Ela, villaggio dei cavatori del sale, in mezzo alla Dancalia, cosa trenta birr. Qualche centesimo in più di un euro. Un maestro di scuola, nelle campagne, guadagna 850 birr al mese, poco più di trenta euro al mese. Affittare una capanna ad Hamed Ela per metterci dentro un panchetto dove sistemare le tazzine per il caffè e un giaciglio per terra costa 500 birr al mese. Un letto slabbrato, di pelli di capra intrecciate o corde, per una notte, per un uomo dell’Etiopia, costa trenta birr. Per un turista, cento birr.

Tutto questo, i frenji, gli stranieri che sfidano il caldo soffocante della Dancalia (non è vero: il caldo qui ha qualcosa di complice con la tua pelle, e, se sei fortunato, a sera, si alza anche un brezza torrida e bella), non lo vedono. Forse lo intuiscono. Ma non lo vedono. Non hanno occhi per il lato oscuro delle Afriche. Non è colpa loro. Non sono qui per questo.

Otto anni fa, ad Hamed Ela, c’era una sola miss. Una ragazza tigrina dalla forme rotonde e un grande sorriso. Passavamo da lei per il caffè e ci trovavamo sempre gli autisti delle nostre macchine. La miss aveva seguito i pochi militari che l’esercito aveva spedito fino a qua. Allora Hamed Ela non era nemmeno sulle carte geografiche. Nemmeno GoogleEarth riusciva a scoprirla, era mimetizzata con il nulla. Poi sono arrivate le compagnie minerarie. Oggi qui c'è campo per i cellulari, a volte una connessione internet, una air-strip privata, un eccelente centro medico tirato su dai canadesi della multinazionale del potassio. E, a protezione del nuovo mondo, il governo ha mandato un bel po’ di soldati. Gente dell’altopiano o della scarpata. Amhara, tigrini, oromo. Dagli stivali neri e le bandoliere attorno alla vita. Spesso si nascondo dietro occhiali scuri. Militari di mestiere. Incassano 200 birr al giorno per fare la scorta ai turisti che vanno a Dallol, il luogo dei geycers, a pochi chilometri di distanza dalla frontiera con l’Eritrea. Così hanno i soldi per pagarsi una scopata, un caffè e una birra. Le puttane sono arrivate a decine. Storia banale da Far-East africano.

A., per pagare solo l’affitto della sua capanna, a un passo dall’accampamento dei militari, deve scopare una volta e mezzo al giorno. Attorno al suo materasso, ci sono caramelle colorate. Spero che ci siano anche preservativi. In un angolo, il tavolinetto per il caffè e le braci sempre ardenti.
‘Non riesco a mandare a mia madre nemmeno cento birr al mese’, dice. Racconta che è andata a scuola,  sa tre parole di inglese, dice che ha cercato di vendere piccole ceramiche al mercato. Non è andata bene. Non so chi l’abbia consigliata di scendere nella fornace di Hamed Ela. Ha l’aria della malinconia, A. Della desolazione. I suoi occhi hanno smarrito la luce. O, forse, questo io voglio vedere. Qui è pieno di puttane. R., un autista, mi spiega: ‘Scelgono di fare questa vita. E’ un modo per cercare di ribaltare un destino. E’ difficile che tornino indietro. Non sono disprezzate. Alcune trovano anche un uomo che le sposa e mettono al mondo un sacco di figli’. Ne ho incontrate molte, negli anni dell’Etiopia. In ogni bar, una donna ti aspetta. Hanno una allegria che a me appare disperata. Ridono con forza. Ma io sono bianco, occidentale, intriso di un modo di pensare occidentale. Che cosa ne so? So che gli occhi di A. non brillano. Almeno credo che così sia. Mi dice che vorrebbe andarsene da qui. ‘Mi trovi un lavoro?’. Chiedo a un autista di parlare con lei.


Prendo il tè. Lascio una manciata di birr (l’equivalente di dieci scopate) e due camicie da donna. Promettiamo a noi stesse che le compreremo un cellulare per poterla ritrovare anche se se ne andasse da qua. Lei fa scomparire tutto con un gesto che, se fossi in Italia, definirei ‘indifferente’. Non mi scrollo di dosso niente, mi tengo tutto nella pancia. Ma vado via. Torno alla mia capanna. Al mio letto, alla mia cena.

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