mercoledì 6 novembre 2013

Cartolina da Addis Abeba

Polaroid di Addis Abeba

Spaesamento.
Addis Abeba cambia in continuazione. Grattacieli in costruzione avvolti in tela azzurra. A volte il vento lacera questi rivestimenti e il palazzo diventa un colorato gigante straccione. Si costruisce ovunque. Come se si avesse orrore del vuoto. A Kanzanchis, demolite le antiche case italiane, vi sono hotel e vetrocemento: dalle finestre nessun panorama, ma la muraglia di un altro edificio e mezzo metro di distanza. I cinesi in Meskel Square, la piazza delle grandi adunate, sbarrano l’orizzonte con la diga della nuova metropolitana. Dicono che sarà ‘leggera’. Gioco irridente sulle parole. Ma di una metropolitana, Addis Abeba, concordano i miei amici, ha bisogno. Adesso che la gente è stata spinta ad andare a vivere in lontane periferie.

Addis Abeba è un immenso cantiere, lo ripetiamo da anni. Un cantiere che appare senza fine. Assomiglia all’America degli anni ’20 o all’Europa del dopoguerra. Costruire per accumulare. Lo scorso anno era la Bole Road, arteria vitale fra aeroporto e ‘centro’ città, a essere sottosopra. Adesso è un labirinto di sottopassi e sopraelevate, ma il traffico si annoda su sé stesso peggio di prima. Il traffico è materia per fisici quantistici, prova di ogni teoria del caos. Incomprensibile ai più. Se ne prende atto con rassegnazione. I mendicanti, superstiti alle intermittenti pulizie di chi comanda e pensa che è meglio cacciarli, sbucano con le loro mani ridotte a moncherini e i loro occhi ciechi nella geografia (che loro ben conoscono) degli ingorghi.
Oggi è l’Asmara Road a essere sconquassata. E anche le bancarelle miserabili attorno alla chiesa di San Giorgio cercano di nascondersi ai caterpillar gialli che le inseguono. Addis Abeba cambia e non è un semplice cambio di pelle. I condomini sono come i fiori del Meskel, spuntano da ogni lato, colonizzano le ultime praterie ai bordi della città. In città, è solo foresta di vetro e cemento. Leggo che Hailè Selassiè non riconobbe la sua capitale quando, dopo sei di esilio e una guerra perduta, rientrò ad Addis Abeba grazie alle armate inglesi. Che cosa proverebbe oggi di fronte a una città che cambia ogni ora che passa? Ma perchè Addis Abeba, così strana nella sua urbanistica, vuole assomigliare a qualsiasi altra e inadatta agli umani città dell'Africa?

Kazanchis. Chi ricorda cosa c'era prima... 


Ma, le donne continuano a portare secchi di cemento agli operai in bilico sui ponteggi sospesi a trenta metri dal suolo. E i ragazzi sollevano pietre pesantissime con una sorta di barella di legno. Girano le betoniere. La sensazione è che la città sia sfuggita di mano. Non sarà così, immagino. Ci deve pur essere un progetto attorno a questa follia. Ma che mondo sogna chi ha progettato questa Grande Trasformazione? Strana città: i minibus viaggiano come formiche impazzite, un birr e quaranta e contese per il posto; i poveri si schiantano per terra nelle aiuole di Piazza e mostrano, agli indifferenti, la condizione estrema dell’umanità; la borghesia un po’ snob pranza vegano al Taytu Hotel; i ricchi-ricchi bevono whiskey al bar dello Sheraton e avvertono il brivido del potere addosso. E poi: i cesti della banane ai capolinea dei taxi-collettivi, qualche ladruncolo che, lungo la Churchill, adocchia la tua disattenzione, cortine di lamiere che nascondono le ferite dei quartieri distrutti. Mi sorprendo ancora della falce e martello e della stella rossa che, dai tempi dell’orrore della ‘tirannia rossa’, nessuno ha mai pensato di staccare dall’obelisco che fronteggia il Black Lion hotel...e così via, e così via, polaroid di una città nella quale mi sento spaesato, senza punti di riferimento, eppure conosco il profumo dei suoi eucalipti nei giorni delle piogge e l’adrenalina delle notti di jazz nella penombra dei luoghi della musica…spaesamento…

Polaroid dalla new town



E so anche della pace improvvisa nel boschetto di eucalipti del Mausoleo di Menelik, conosco la quiete fra le jacarande dai fiori azzurri dell’Addis Abeba Museum (proprio sopra i contorcimenti di Meskel Square), mi alzo all’alba per godere della nebbiolina dell’alba quando i runners corrono con le cuffiette a silenziare il mondo…e poi, scusatemi, dopo due anni, hanno riaperto il Club Armeno e questo mi rende felice. Ieri sera, il rito della mia mante, zuppa di yogurt con polpettine di carne e involtini di foglie di vite, ha dato alibi anche allo spaesamento. Sono qui per questa zuppa, ora ho capito. E persino il cameriere non è cambiato….basta poco per coltivare illusioni.

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