martedì 19 novembre 2013

La benedizione di Ahmed

Ahmed

Mi accorgo di avvicinarmi sempre di più ai vecchi. Ahmed dorme sul pavimento di cemento del patio della moschea di Asayita. Si sveglia quando sono a due passi. Salamaleikun. Ha più di ottanta anni. Dice: ‘Ho i miei anni e allora vivo qui’. Cuscini attorno a lui, due bottiglie di acqua, il leggio per il corano. Cos’altro serve? Ha avuto tre mogli. Diciassette figli sono vivi. Otto se ne sono andati. Ha fatto il contadino, Ahmed. E’ haji, ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca. E’ stato ad Addis Abeba, ha visto il mare, ha viaggiato in Kenya. Negli anni d’orrore di Menghistu, ha vissuto a Mogadiscio. Le sue mani sono cartavelina. Le sue gambe pergamena ossuta. La bolla sulla fronte è un callo bianco.
Ha visto gli uomini che hanno costruito la moschea. Non so se crederci. Ad Asayita gli italiani hanno lasciato un buon ricordo: furono loro a tirare su questo minareto che assomiglia a un faro. ‘Colonello Rauti’, Ahmed rammento perfino il nome del comandante di questo territorio. Doveva essere l 1937. Come è possibile?

Il vecchio recita una benedizione per noi. Voce lenta, salmodiante, inudibile. Ci augura buona sorte. Gli uomini attorno a lui alzano le palme delle mani verso l’alto. Un ragazzo nasconde il viso in una sciarpa della Finlandia.

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