mercoledì 16 novembre 2011

Quasi inverno. A Pescia. Chiacchiere sul giornalismo


Primi giorni di freddo. Un liceo di Pescia, città della provincia toscana. Dedicato a Carlo Lorenzini, più noto come Collodi. Chiacchiere sul giornalismo, in un antico refettorio, con gli studenti. In realtà un monologo. Quasi due ore. Arrivo in ritardo. Mi sento fuori posto. Sono molti. Improvviso silenzio, quando come un profugo, carico di borse, entro nella sala. Cosa posso raccontare a dei ragazzi? Che mestiere ho fatto in questi anni?

Non ho molto da dire. La mia storia è particolare. Ai margini del grande mondo del giornalismo. Fuori dai giornali dal 1991. Da vent’anni, mi sorprendo del tempo passato. E ora le riviste per le quali ho lavorato non esistono più o hanno cambiato anima. Travolte dalla crisi e dalla tecnologia. Fatico a confrontarmi sull’impossibilità di vivere di giornalismo.

E cos’è giornalismo oggi? Sono giornalisti i citizen journalists? Chi sono i videomakers che postano i loro racconti visivi su you reporter? Mi dicono che Ireport, piattaforma della Cnn, ha 477 mila collaboratori, Allvoices.com ne ha 300mila. Alluvione di notizie. Chi è giornalista? Gli editori sono felici del citizen journalism: è gratuito. Però i ragazzi di Pescia mi chiedono di Tiziano Terzani e di Ryszard Kapuscinski. Io parlo di Ettore Mo e di Paolo Rumiz. Il più giovane è Paolo che ha più di sessanta anni. Dico, perché lo penso, che Bernardo Valli, 81 anni, sia stato uno dei pochi inviati che ci ha fatto capire qualcosa di quanto stava accadendo in Libia. Insomma, i ‘vecchi’ sono ancora i migliori?




Alcune parole-chiave, lasciate a mezz'aria nel vecchio refettorio.

Bulimia, ad esempio. Ne parleranno, fra pochi giorni, anche all’incontro annuale del Redattore Sociale (25-27 novembre, a Capodarco, come ogni anno). Ogni giorno su YouTube vengono postati così tanti video che occorrerebbero otto anni per vederli tutti. You Tube ha annunciato che, via web, sarà possibile collegarsi a cento televisioni di grande professionalità. La mia televisione, mi dicono, ha 900 canali. In Italia ci sono 15mila blog e, ogni giorno, vengono messi on-line 10mila post. Alla fine credo che nessuno guarderà più nulla. Il rumore asfissiante diverrà uno schermo grigio per il buio dei nostri occhi.

Giusta distanza. Giusta distanza, un corno. ‘Questo mestiere non è adatto ai cinici’, frase celebre di Ryszard Kapuscinski. Aveva ragione, Kapu: non esiste una giusta distanza, se non quella che ti detta la tua coscienza. Il giornalismo è empatia e passione. Non posso chiedere obiettività a un giornalista, chiedo e pretendo sincerità. Un giornalista è, sempre parole di Ryszard, un ‘traduttore’.

Punto di vista. Qui è necessario il Piccolo Principe. Sembra un cappello il disegno che viene mostrato nelle prime pagine del più bel libro mai scritto. Sappiamo che così non è: in realtà, è un pitone che inghiotte un elefante. Cosa occorre per vederlo e capirlo? Cambiare punto di vista. Capire che esistono differenti punti di vista. Ascoltare soprattutto chi offre altri punti di vista.  

Cautele. Diffidate. Siate diffidenti. E insoddisfatti. Google,  Twitter e Facebook sono strumenti, non sono ‘strumenti per la democrazia’. Lo sono stati in Egitto e in Tunisia, ma senza movimenti reali non sarebbero stati sufficienti. I regimi erano marci. Twitter, invece, non ha abbattuto la tirannia degli ayatollah. In Russia, internet è stato addomesticato. In Cina, complici i grandi provider, è diventato arma per individuare il dissenso. In Egitto, ora, obbligano i bloggers a registrarsi con nome e cognome: i nuovi militari senza volto hanno imparato la lezione. E non va dimenticato che Google e Facebook sono due multinazionali che vogliono ricavare denaro da ogni nostro click. A loro dobbiamo affidare il destino della democrazia?

Falsità. Sono sempre esistite. I nuovi media le amplificano. Nessuno, che non sia molto esperto, conosce le fonti dei nuovi media. Più di venti anni fa, 22 dicembre del 1989, i morti di Timsoara, città della Romania, fecero inorridire l’Occidente per la ferocia della dittatura di Ceausescu. Era un regime infame, ma quei morti non ci furono. Se ne accorse solo un giornalista svizzero dopo che la grande stampa se ne era andata. Ben pochi poi scrissero che quei morti non erano stati uccisi dai sicari di Ceausescu. Ma quell’eccidio inventato fu un tassello indispensabile della macchina che abbattè e uccise Ceausescu. Che fosse vero o meno, dopo, che importanza poteva avere?
Non ci sono stati i 10mila morti di Bengasi, come sosteneva la Tv al-Arabya nei primi giorni della rivolta della Cirenaica. Eppure tutti vi hanno creduto. La bugia ha retto pochi giorni, eppure questa falsità è scivolata in un nulla inquietante. L’opinione pubblica era convinta: era necessario un intervento armato per arrestare i massacri e ‘difendere i civili’. Per liberarsi dei dittatori è legittima la menzogna? Scrive Paolo Rumiz ('Maschere per un massacro', un vecchio libro sui Balcani): a Timsoara scattò 'la soddisfazione di aver trovato esattamente ciò che si attendeva di trovare'. Adrenalina, stanchezza e velocità aiutarono a costruire l'imbroglio. E oggi? Oggi la velocità della comunicazione ha sostituito i suoi contenuti.
Lacerazioni sul confine della verità/falsità e giustizia.
A chi e a cosa credere?

Non c’è un finale alle parole su giornalismo. Non c’è un mio finale. Con i ragazzi non potevo essere rassicurante come avrei voluto. Spero che riusciranno a raccontare la loro piccola città. Ho fiducia in loro.

Alla fine un paio di domande. Su Tiziano Terzani e sull’Africa. Le ragazze più spavalde dei maschi.
Pescia, 15 novembre


Giancarlo Siani (da wikipedia)


ps: e io ho dimenticato di ricordare Giancarlo Siani. Aveva 26 anni quando fu ucciso dalla camorra. Era un giornalista 'abusivo' del Mattino di Napoli. Non aveva idea della Giusta Distanza, le storie dovevano essere raccontate. E lui sapeva raccontare. I ragazzi con i quali ho parlato non erano nati quanto lui morì. 

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