lunedì 7 novembre 2011

Balcani/Il poeta e il fotografo

Adesso faccio raccontare ad altri. Ho letto questa storia sulle pagine dell'Osservatorio Balcani e Caucaso. Sono parole scritte da Mario Boccia, il migliore fra i fotografi che hanno vissuto la storia dei Balcani di questi ultimi venti anni. Un amico. Assieme abbiamo viaggiato, scritto e fotografato. Di Afriche. Di Palestina. Poi lui mi ha portato nella sua terra. A  Sarajevo. In Bosnia. Mi ha aiutato a guardare quelle valli. Gli chiedo scusa se a volte sono stato distratto. Ma i suoi occhi mi hanno insegnato molto. 
Non ho fatto in tempo a conoscere il poeta Izet Sarajlic (chiedo ancora scusa a Mario, la mia tastiera non ha le grafie del serbocroato). Ora avverto questo mancato incontro come un'assenza. Poi guardo la foto che ha scattato Mario: gli amici di Izet lo ricordano festosi. E questo mi è subito piaciuto. Il ricordo di chi non c'è più che diventa ragione di allegria, di compagnia, di presenza. Ci sono i Balcani in questa storia racconta. Grazie per avermi concesso di farla leggere anche voi. Con una preghiera: andate a leggere le poese di Izet Sarajlic.


Izet Sarajlić (Foto di Mario Boccia)



Dal 1993 durante l’assedio di Sarajevo al 2002 anno della morte dell’amico e poeta Izet Sarajlić. Mario Boccia ripercorre le tappe di un’amicizia particolare, dei rapporti tra Izet e l’Italia, degli amici in comune e delle riflessioni sulla Bosnia martoriata dalla guerra e dal nazionalismo

1993 - Il fratello di Razija
La prima volta che incontrai Izet Sarajlić fu a Sarajevo alla fine del 1993. Erano gli anni della magrezza diffusa. Non per anoressia, ma per costrizione. Mangiare poco e male era un'abitudine quasi collettiva. La magrezza contribuiva a identificare le persone oneste. L'obesità era sospetta. Anni passati a fingere di essere sani, a non sentire la fame per non dargliela vinta. Anni di resistenza.

Per un motivo del tutto personale, di quel primo incontro ricordo soprattutto sua sorella Razija. Sapevo che era stata lei, la sorella del grande poeta, a tradurre in serbocroato (allora si diceva così) le opere di Elsa Morante e di altri autori italiani. Tra tutti, quello che mi avvicinava di più a lei era Gianni Rodari, perché con le sue storie per ragazzi avevo imparato a leggere. Quella donna magra, a letto, assomigliava alla luce dell'unica candela accesa nella sua stanza. Mandava luce viva, anche se tremolante, mentre si consumava.
Guardandola pensavo che, grazie alle storie tradotte da lei, potevo avere avuto sogni in comune con i ragazzi di Sarajevo, Belgrado o Zagabria. E ora che sognavano quegli ex-ragazzi alla fine del 1993? In altre parole, che avrei fatto io al loro posto?
Non conoscevo ancora le poesie di Izet Sarajlić. Lui per me allora era il fratello di Raza. Così iniziai a leggerlo per curiosità e poi divenne imprescindibile.

I suoi versi, anche quelli scritti prima della guerra, mi aiutavano a capire le persone che incontravo, i loro sentimenti, l'estraneità alla guerra della bellezza. E poi c'era la cultura di un secolo alla fine, in ogni emozione, in ogni nome citato. C'era lidea di un mondo diverso che non era riuscita a realizzarsi, ma che ha lasciato il gusto amaro del riconoscersi a chi ci ha creduto, si è messo in gioco e ha perso.
Il '900 era il suo secolo ancora più che il mio. Firmando una dedica sul libro “Qualcuno ha suonato” scrisse la data in un modo particolare: “1999+2”, invece che 2001. Mi sembrò buffo, invece era un segno profondo. Scoprii dopo che lo faceva sempre. Era una scelta di appartenenza a un'epoca storica. L'identità come libera scelta, anche contro il tempo. Figuriamoci contro le identità nazionaliste imposte dagli uomini che per dividere le persone uccidono e adorano Dei di morte.
La semplicità della sua scrittura mi sembrava preziosa, quanto la bibliografia delle sue citazioni. La Leggerezza e la profondità possono convivere. Il paradosso dellallegria rimane vivo anche nel dolore. Izet voleva farsi capire da tutti (persino da un fotografo).

Nella sua poesia non c'è odio contro un popolo in sé. Non ci sono colpe collettive, ma criminali singoli, magari organizzati in singoli partiti. Non c'è odio nemmeno nelle poesie scritte durante l'assedio, mentre la sua famiglia naturale, come quella elettiva, la comunità degli amici, erano decimate da stenti e omicidi. Riuscire a evitare la trappola della rabbia-giusta, non è semplice, soprattutto quando subisci un'ingiustizia forte.
Izet amava l'Italia, anche se suo fratello a diciannove anni era stato fucilato dagli occupanti italiani. Dai fascisti, precisava, non dagli italiani.
La sua amicizia con i poeti italiani, non era compromessa. Ce l'aveva con loro, certo, ma 'loro' erano i fascisti, gli ustascia, i cetnici; mai gli italiani, i croati o i serbi.
La lettera-video (quasi un testamento) registrata a Sarajevo per l'amico poeta Sinan Gudžević da Sarajevo assediata, è un documento di grande valore etico che tutti dovrebbero conoscere. Come le lettere dei condannati a morte della resistenza italiana.

1997 - “Troppi culi per poche sedie”
Passati gli anni della fame e della morte (non della paura, che Izet non ha mai resa pubblica), arrivarono i giorni delleuforia del primo dopoguerra.
Ottobre 1997, un autobus carico di poeti e scrittori, tre fotografi e qualche giornalista arrivò a Sarajevo passando per Mostar. Era stato organizzato dal Fondo Alberto Moravia, grazie alla tenacia di Toni Maraini (le testimonianze preziose di questo viaggio sono raccolte nel Quaderno 1.98 del Fondo Moravia).

Se guardo le foto scattate in quei giorni, le ritrovo piene di abbracci, sorrisi, alcool e sigarette. Ci sono amici che non si vedevano da anni, altri che avevano passato le linee del fronte per farlo, magari portando convogli di aiuti umanitari, come Erri de Luca. La foto con l'abbraccio tra lui e Izet, mi commuove come allora.
Poi l'incontro al Pen club di Sarajevo, la lettura di poesie a Baščaršija, in un locale dove era allestita una mostra fotografica dedicata ad Alberto Moravia, la visita della città ancora segnata dalla guerra, assieme al generale Jovan Divjak. E il giorno prima a Mostar, con lincontro di lettura nel teatro dei burattini di Hamica Nametak, con Predrag Matvejević al pianoforte e la foto ricordo con Emir Balić (la rondine di Mostar), davanti ai moncherini del vecchio ponte tra i quali era stata tirata una passerella provvisoria.

Nellambasciata italiana, aperta per noi, saltarono tutte le formalità diplomatiche. Izet era in vena. Non c'era posto a sedere per tutti noi e lui esclamò: “Ambasciatore! Qui ci sono troppi culi e poche sedie!”, provocando l'imbarazzo del personale e dei primi segretari d'ambasciata (una tipologia umana particolare, quella dei primi segretari, abili a non lasciare traccia perché consapevoli che meno si notano e più fanno carriera diplomatica). Subito dopo, mentre l'ambasciatore Michele Valensise pronunciava il discorso di benvenuto, si sentì un muezzin chiamare alla preghiera, e Izet, subito gridò: “Silenzio! Zitti tutti! … c'è Izetbegović che canta!”. Anche il sindaco di Sarajevo e l'ambasciatore risero (il primo segretario no, perché la battuta gli sembrò sconveniente).


2001 – Premio Moravia a Roma
Salerno è stata la città italiana nella quale Izet Sarajlić ha lasciato le tracce più profonde. La città del suo amico poeta Alfonso Gatto e che gli diede anche la cittadinanza onoraria. Izet è stato l'anima della “Casa della Poesia” di Baronissi, un luogo dincontro per poeti di tutto il mondo. La raccolta di poesie “Qualcuno ha suonato” fu curata e pubblicata dalla Multimedia edizioni, che aveva costruito quel luogo come uno spazio da affidare alla imprevedibile gestione dei poeti stessi, oltre ad organizzare una lunga serie di iniziative pubbliche di diffusione di poesia. Con quel libro Izet vinse il Premio Moravia che gli fu consegnato a Roma, al teatro Valle, il 3 dicembre 2001.
In quelle giornate romane, fu allestita anche una mostra fotografica, con le foto del viaggio della carovana del Fondo Moravia a Mostar e Sarajevo, scattate da Danilo de Marco e Serafino Amato, più le mie, scattate nella guerra.
Quei giorni pieni dincontri di lettura e nuovi amici, mi hanno lasciato tanti ricordi e un buon archivio di fotografie di Izet Sarajlić. Sono le foto usate per i manifesti delle prime edizioni del Festival Internazionale di poesia di Sarajevo, dedicato a lui e arrivato alla decima (e forse ultima) edizione.

Izet che legge i suoi versi, il suo bastone, lui sul palco del teatro, a fianco di Erri de Luca, circondato da poeti nel parterre del teatro. Alcune furono stampate e affisse su cartelloni pubblicitari di sei metri per tre a Salerno. La gente che passava guardava stupita quei cartelloni che non invitavano a comprare niente, ma offrivano poesie e fotografie a chi si fermava.

Gli amici di Izet lo ricordano al teatro Kamerni (foto M. Boccia)

2002 - Sarajevo, le ultime foto
Dieci anni dopo, a Sarajevo leuforia era finita. Vivere il presente del dopoguerra era più difficile che mantenersi in vita schivando pallottole.
La mattina del 6 aprile del 2002 ci sono state celebrazioni ufficiali all'Holiday Inn. Izet era in prima fila, seduto accanto a Danis Tanović, appena tornato da Hollywood, con un Oscar, per il suo primo film “No man's land”.
Il sindaco Muhidin Hamamdžić era emozionato più di Izet, consegnandogli una targa e sostenendolo con un braccio mentre era in piedi davanti al pubblico. Per la prima volta mi sembrò che il bastone gli servisse davvero, non come l'anno prima a Roma, quando sembrava un vezzo. Lo sguardo ironico e disincantato verso i rituali ufficiali, invece, non era cambiato.
Izet non aveva mai lasciato la sua città e anche per questo era premiato, ma non aveva lasciato nemmeno le sue idee, e questo non piaceva al nuovo potere post-bellico.
Gli amici del “Circolo 99” possono testimoniarlo. Tra loro non ci sono patrioti di patrie recenti, ma cittadini globali di Sarajevo e del mondo moderno. Per questo non sono mai piaciuti ai nuovi capi eletti con i criteri dell'appartenenza “etnica”.

Così anche un simbolo di resistenza civile come Izet Sarajlić ha dovuto subire l'umiliazione dello sfratto dalla casa dove lo avevo visto la prima volta, accanto alla sorella. Una delle sue poesie più aspre contro il potere, quasi una maledizione, la scrisse allora.
La sera dello stesso giorno ci fu una bella festa a Skenderija, con gli amici del “Circolo 99”, alcol e sigarette fino a tardi. C'era la migliore gioventù della Bosnia Erzegovina, fino a qualche decennio prima, nel secolo scorso. C'era unex presidente della Jugoslavia (Raif Dizdarević), cantanti d'opera, conduttori tv, un ex generale, ex ministri, tanti amici vecchi e nuovi. E i musicisti, venuti per suonare e cantare insieme.
Dopo le canzoni romantiche tradizionali, mi sorprese sentirli cantare una vecchia canzone pop italiana: “L'italiano” di Toto Cotugno. Cantavano guardandomi con ironia, come se fosse dedicata a me. Poi la sottolineatura sulla strofa “e per presidente un partigiano”, mi ha fatto capire che la dedica era per Sandro Pertini e “Bella ciao”, cantata a seguire, era la conferma.
Questa è stata lultima foto di Izet Sarajlić che ho scattato, a notte inoltrata, il 6 aprile 2002. Pochi giorni dopo cè stato il primo infarto, poi, il 2 maggio, Izet è morto.

Settembre 2002 - Sarajevo
In quattro mesi, Gianluca Paciucci, addetto culturale dell'Ambasciata italiana, gli amici della Casa della Poesia di Baronissi e il Pen Club di Sarajevo, organizzarono un Festival Internazionale di poesia, dedicato a lui. Il Kamerni Teater, vicino alla “Vječna vatra” (la fiamma sempre accesa che ricorda la liberazione della città dalloccupazione nazi-fascista) era il luogo giusto. Arrivarono amici da tutto il mondo: una partecipazione impressionante di poeti e pubblico. Da Jack Hirschmann, poeta americano della beat generation, espulso da tutte le università USA per avere bruciato le cartoline precetto per la guerra del Vietnam a Faheem Hussain, grande fisico pachistano (ne cito solo due agli antipodi geografici per abbracciare il mondo). Sul palco c'era una foto di Izet che sorrideva e guardava i poeti che leggono le loro cose. In una sala attigua al teatro c'era una mostra di mie fotografie, tra Roma e Sarajevo, pace e guerra.

Ho scattato molte foto in quei tre giorni. Una delle mie preferite è quella di Izet che sembra partecipare al brindisi degli amici che lo circondano. La sua foto poggiata su un cavalletto è al centro dellinquadratura e attorno a lui ci sono Jean Philippe dAlembert di Haiti, Agneta Falck, svedese-americana, Alberto Masala, sardo. Izet sembra vivo e divertito, in mezzo a loro.

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