giovedì 1 novembre 2012

2. I giorni di SlowFood/Prove di orientamento


Il successo di SlowFood

Mi riconcilio con SlowFood.
Al sabato non mi perdo fra gli stand del Salone del Gusto. Al secondo giorno della fiera, non mi faccio distrarre. Cammino spedito verso gli apicultori etiopici. E’ una maniera per salvarsi dalla bulimia che mi prende in luoghi come questo. E poi mi interessano i mieli d’Etiopia.

Conosco i paesaggi dove si producono.Conosco questi apicultori. So della bellezza del vulcano di Wenchi e apprezzo il sapore del miele bianco del Tigrai. Ora apprendo che questo è il miele più bianco del mondo. Assaggerò sette mieli. Zerihun spiega il mercato del miele dell’Etiopia. L’80% della produzione è riservata al tech, l’idromele, la bevanda fermentata amatissima dalla gente dell’altopiano. Ma il miele perde così valore: non viene pagato a sufficienza. Non esistono apicultori professionisti in Etiopia. I contadini allevano le api per avere un qualche reddito in più. Non lasciano ‘maturare’ il miele. Per fare il tech non è necessario. Il miele etiopico sa di fumo, le api sono molto aggressive e bisogna pur cacciarle dalle arnie. (Penso: a me è sempre piaciuto il gusto del fumo del miele di Wenchi). Il miele, infine, non viene pulito, non viene decantatato, non è filtrato. Ricordo le ali che affioravano nel barattolo comprato sempre a Wenchi. Ricordo la cera che galleggiava nel miele bianco di Alitena. A me piaceva. Lo so, appartengo alla strana categoria di coloro che hanno nostalgie dell’imperferzione.

Zerehiun racconta del miele

Apicultori del Tigrai

Assaggi di miele etiopico

Assaggi di miele etiopico


Mi piacciono i mieli dell’Etiopia. Mi spiegano la differenza dei sette mieli. Mi danno un foglio con su disegnato un cerchio olfattivo. Non indovino un solo gusto. La storia del miele d’Etiopia è bella. Una ragazza spagnola parla di miele denso e cremoso. Un apicultore pisano mi dice che bisogna che questo lavoro cominci a dare un reddito vero. Prometto di indagare di più. Gli stand etiopici non sono sfolgoranti. Non è molta la gente che vi si avvicina.

Faccio in tempo a correre all’altro capo del Salone. Si parla di landgrabbing. Di fame di terra. Liliana Vasquez, ricercatrice colombiana, mette in chiaro i nomi: giapponesi, cinesi, neozelandesi, sauditi controllano migliaia di ettari di territorio colombiano e vi seminano soya. ‘Mi chiedo quale terra rimarrà per i nostri contadini’, dice Liliana.

Cuochi

Il palazzo del Salone del Gusto


Cerco un filo conduttore nel Salone del Gusto. A volte penso di averlo trovato. Più spesso mi smarrisco. Le belle parole mi sembrano accerchiate. Penso, di nuovo, che sobrietà e lentezza non abitino in questi padiglioni. Tantomeno la discussa decrescita. Qui ci sono altre regole. Quelle del mercato che cacciato dalla porta sta rientrando dalla finestra. Questa fiera è gigante. E’ eccesso. E Roberto Burdese, presidente di SlowFood Italia, promette che la prossima lo sarà ancor di più. Mi piacerebbe andare a trovare Alex Zanotelli. Per chiedergli cosa ne pensa. E’ qui, da qualche parte. Sono io a non avere la forza di cercarlo. Mi dicono che c’è anche Latouche. Ma forse ho letto male.


Gli animalisti

La protesta solitaria

Gli animalisti


Nel piazzale del Lingotto, a distanza, là dove si prende la metro, ci sono dieci ragazzi che manifestano. Animalisti. Alcuni hanno maschere bianche. Cartelli. Striscioni. Megafono. Sono solitari. Non contano. Nessuno sembra ascoltarli. Non credono che l’etica possa comprendere il mangiare gli animali. Per loro ‘non c’è il g(i)usto al Salone’. Una ragazza si mette in favore di sole per farsi fotografare meglio: ‘E’ importante’.Non ho il coraggio di dirle che io sono un ‘vegetariano non praticante’ (questa definizione non è mia) e che, in fondo, mi piace mangiar carne.
Vicino alla metropolitana ci sono anche persone con le bandiere della Cgil. Stanno tranquilli. Non so nemmeno perché siano lì. Non chiedo.

Chi marcia verso i padiglioni della Fiera non ha attenzioni per queste voci dissonnanti.



Il torrone francese

Gli scaffali di Timbuctu

Le marmellate della Bosnia


Mi fermo a parlare con i ragazzi che lavorano all’ufficio stampa. Chiedo quale sia il loro compenso e il loro contratto. Il ragazzo ha un sorriso: ‘Non sono autorizzato a dirglielo’. Apprezzo la trasparenza. Sono maligno: ‘Più meno o di tre euro all’ora?’. ‘Non glielo dico’. Interviene una volontaria: ‘Meglio venire qui come volontari, almeno è tutto più chiaro’. Chiedo anche a un ragazzo della cucina: ‘Io sono studente e a me va bene così. Certo, se non c’ero io, avrebbero dovuto pagare qualcuno’. Penso a quello slogan che ronzava per le nostre teste: ‘Un altro mondo possibile’. A partire da dove? Anna ha lavorato a Slow Food per molti mesi: 930 euro netti al mese. ‘Me ne sono andata perché non sopportavo più lo scarto fra le parole e la pratica. Dicano che è lavoro, business, affari, marketing. Non si nascondano dietro a belle parole’. Poi, sul Manifesto, leggo l’elogio appassionato di Slow Food da parte di Luciana Castellina. Di Luciana mi fido. E anche di Anna.


Gli azzurri

Gli extraterrestri

Le ragazze musulmane

La banda di strada

Il bacio di piazza Castello

L'artista di strada

Il mangiafuoco e la sua 'spalla'


Sono grato a OxfamItalia che ha organizzato la presentazione del libro sui contadini e i cibi dell’Erzegovina nel centro di Torino. Lontano dal Lingotto. Così scopro la bellezza di un sabato per via Roma e via Garibaldi. Cammino per piazza Carlo Felice, attraverso piazza Castello, arrivo fino al Palazzo di Città. Mi sembra di essere a Matera. Gente ovunque. Facce serene. Gente che perde (e guadagna) tempo. Vecchietti (la mia età, immagino) che giocano a carte sotto un monumento. Mangiafuoco che insegnano agli spettatori come far volare le clavi infuocate. Quattro musicisti che fanno danzare gambe e cuori sotto i portici. In piazza Castello poi ci sono gli Azzurri che denunciano gli inganni della politica (loro, proprio loro? sono loro?), ragazze musulmane velate che promuovono la loro associazione (e sanno che il loro interlocutore ha qualche imbarazzo), un chiosco di chi si augura contatti con extraterrestri. Mi piace questo caos. I ragazzi si baciano sui gradini, altri si godono un sole imprevisto.

Oltremercato

Le patate violette

Il formaggio delle valli

Le nocciole

Chiedere di una patata. 'Pasta gialla''

Il '900 di Rifondazione


In piazza Palazzo c’è Oltremercato. Qualche decina di bancarelle di piccoli contadini delle valli alpine. Guardo con curiosità le patate violette. Sfioro peperoni e cavoli. Mi faccio tagliare un pezzetto di formaggio. Assisto a discussioni in piemontese sulla qualità delle patate. Dietro i banchi ragazzi, donne, qualche anziano. Mi chiedo: ma perché questi non sono a SlowFood? Solo perché non hanno i soldi per pagarsi uno stand? O, perché sono fuori dal mercato? Perché non hanno messo i loro banchetti nel piazzale del Lingotto? Solo perché non sono glamour? Ci sono tre persone fuori tempo che hanno avvolto una bicicletta in una bandiera di Rifondazione. Chiedono firme per un referendum. Articolo 18. Roba del ‘900, mi dico. Me ne pento, ma so che davvero è così. Loro hanno una spiegazione, mettono una mano avanti: ‘Noi siamo polemici, questi contadini non vanno a SlowFood perché là è solo business’. Ideologia per ideologia. Alla fine salgo i gradini coperti di velluto del municipio. Per fortuna che c’è Nihad, il cuoco di Sarajevo, che mi accoglie con un bicchiere di zilavka. Trovo pace.
Torino, 28 ottobre


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