giovedì 22 dicembre 2011

Dominicana/L'isola lontana dal mare

La copertina dell'Isola lontana dal mare


E alla fine il libro scritto in quaranta giorni è 'uscito'. Proprio nei giorni del freddo, alla vigilia di Natale, arriva una storia dall'isola che non conosce gli inverni. Una storia di zucchero e frontiera proprio mentre le nostre feste si fanno di zucchero. Proprio mentre molti turisti stanno partendo per il caldo che quell'isola promette e garantisce tutto l'anno. E io che mi ero convinto che quell'isola, l'isola spezzata fra Dominicana e Haiti, fosse lontana dal mare. Anzi: che il mare proprio non ci fosse.

E' un'altra vigilia sull'isola: dovrebbero cominciare, se non sono già cominiciati, i mesi della zafra, della raccolta della canna da zucchero. Come vorrei essere là. A capire, a guardare. I treni delle piantagioni si intrecciano sui binari che tagliano i canneti. Gli uomini hanno affilato i machete. Nei bateyes, i villaggi dei vecchi tagliatori, c'è fermento. Ma non ci sarà riscatto. E' così. Da sempre, per sempre. Però, in qualche sera, si ballerà al suono dei tamburi di qualche brujos, sacerdoti del voodoo. I pastori protestanti celebreranno le loro messe ritmate. E padre Pablo, gigantesco sotto la tonaca bianca, giocherà con i bambini. Buon Natale a voi che non mi leggerete, ma che vi avete donato un frammento della vostra isola lontana dal mare. E poi, lo sappiamo, che esistono altre opportunità per le stirpi condannate a cento anni di solitudine.

Questo è quasi un messaggio privato. Troppa fretta nello scrivere questo libro. L'isola meritava tempo, attenzione, giorni su giorni, parole. E' uscito fuori un istinto, una urgenza, una scrittura che andava per conto suo. Guidata solo dagli occhi. Ora il piccolo libro sarà nelle librerie e per le strade con i ragazzi neri che lo venderanno camminando. Provate a darci un'occhiata. E poi convincete chi sta partendo per la Dominicana a trovare il tempo per dare uno sguardo all'isola lontana dal mare.

Il libro si chiama 'L'isola lontana dal mare'. Edito da Terre di Mezzo. Costa 8 euro.


La copertina che è stata scartata


Un paragrafo del libro. Dove si racconta di Bolivar. Che adesso starà tagliando canna...

Ha un nome importante, il vecchio. Che vecchio non è. La sua età non ha definizioni. Quaranta o sessanta anni? La fatica confonde. Si chiama Bolivar, ha il mozzicone di una sigaretta in bocca e si raddrizza mascherando il dolore alla schiena. Da prima dell’alba è chino in un giovane canneto. Bisogna liberare le piantine dalla mala hierba. Lavoro infame. Si cammina piegati, con i ginocchi che scricchiolano e la spina dorsale che si ribella. Il machete deve tagliare solo le erbacce. Più tardi, prima della paga, passerà un sorvegliante a controllare le file del nuovo canneto. E’ un azzardo di incentivi e minacce, il lavoro da bracero. Ho scorto Bolivar e il suo gruppo da lontano. Mi sono messo in cammino in mezzo alle nuove piante. Le zanzare hanno cominciato a godere del mio sangue fin dal primo passo. Mi sono sentito ridicolo e stavo maledicendo l’idea di attraversare le canne. 

Bolivar


Bolivar si è messo dritto appena sono arrivato vicino ed è come se avessi visto un Mosè magro e malandato alzarsi davanti a me. Il machete sollevato a mezza altezza. La sigaretta spenta, gli occhi scuri come una ribellione. Devo abbassare il mio sguardo. E fermo i miei occhi sui suoi i pantaloni. Sono scuri, bagnati, potrebbero stare in piedi da soli. E’ come se quest’uomo fosse caduto in un fossato e ne sia appena uscito fuori. Sono intrisi di sudore e fatica. Sono una spugna. E’ odore di uomo quello che mi viene addosso. Le zanzare non danno requie. Penso a quanto mi aveva detto Andrès quando mi ha indicato il campo in cui avrei trovato gente al lavoro anche in questi mesi di tiempo muerto: ‘Quella gente sta lavorando da prima dell’alba. E alla fine si troverà con cento pesos in tasca. Non avrà da sfamare la famiglia’. Ho visto il viso di Andrès indurirsi per la prima volta: ‘Il sudore di una persona si rispetta’. E ora io e Bolivar non abbiano nulla da dirci. ‘Puoi fare le foto’, dice lui senza che io abbia avuto parole per chiedere qualcosa. Li seguo sui solchi dove sono state piantate le nuove canne. Avanti per cento metri, indietro per altri cento. Di nuovo avanti, di nuovo indietro. Schizzi di sudore volano nell’aria. Io sono sudato fradicio e non maneggio un machete. Nel sensore della macchina fotografica rimangono le gocce che cadono dal volto di Bolivar e il puntino bianco della sigaretta che non ha lasciato cadere dalle labbra. Me ne vado, lascio nelle mani di Bolivar la paga di un loro giorno di lavoro. Due euro a testa. Berranno birra stasera, questi uomini. E io non so se vergognarmi o essere contento di queste foto. 

Orbetello, 22 dicembre


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