I contadini camminano ancora verso l’altezzoso palazzo dei
padroni dei campi. Li guidano due uomini dalla folta barba e una donna con un
bambino in braccio. Un corteo di dignità. Hanno diritti elementari da
reclamare. Il sole di un mattino d’estate illumina la loro marcia. E’ il ‘900
che si affacciava alla storia. Giuseppe Pellizza dipinse il suo quadro più
celebre nel 1901: il Quarto Stato era
destinato a diventare un’icona, il manifesto orgoglioso del Secolo Breve. Ha retto al tempo, non è svanito dal nostro immaginario. Non è invecchiato. Ha attualità anche nel nostro millennio.
Volpedo è un paese agricolo all’imbocco della val
Curone. E’ fra i borghi più belli d’Italia. Pellizza non se ne allontanò, visse
lontano dalle capitali dell’arte. La terra, per lui, figlio di contadini, era
l’ispirazione di un arte superba: i suoi attrezzi erano i pennelli e non la
zappa. I contadini del suo quadro erano gli abitanti del paese. La donna era Teresa, sua moglie, figlia anche lei delle campagne. Lavorò anni e anni a questo quadro. Che non ottenne alcun successo. Giuseppe Pellizza si uccise non ancora quarantenne. Una volta un contadino di Costa
Vescovato, nelle valli alessandrine, a poca distanza da Volpedo, mi disse: ‘Siamo figli di Pellizza. Non so
se sarei rimasto in queste campagne se, alle nostre spalle, non ci fosse stato
il Quarto Stato’.
Non ero mai andato a vedere il quadro. Mi ritaglio una mattina a Milano. Vado in piazza del Duomo. I contadini di Pellizza sono ancora in marcia all’ingresso del
museo del ‘900. Mi fermo per un bel po’ davanti
al quadro. Conto le donne, guardo i volti degli uomini.
Tre anni fa, alla frontiera fra
Haiti e Dominicana, quando vidi l’irruzione degli haitiani oltre i cancelli dei
separava i due paesi, ho pensato al Quarto Stato del nuovo millennio.
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