Mohammed |
La scuola di Melabday, il ‘luogo del miele’, ha la nostra
benedizione. Da qualche anno, lasciamo qua penne, matite, quaderni, perfino un
mappamondo e lavagne che qualcuno di noi decide che è bene portare in questa
solitudine.
Mi piace Melabday. Ho ricordi di questo villaggio. Qui
finisce il nostro cammino nel canyon del Saba River. La nostra fatica trova riposo sotto due acacie. Vi arriviamo dopo sette
ore a piedi. So che c’è una pozza di acqua calda per lavarci, una moschea, un bar con il frigorifero, un pozzo con una
pompa indiana.
Ma deve essere accaduto qualcosa negli ultimi mesi. A sera non si accende nemmeno una
luce: niente elettricità, mi spiega Mohammed, il maestro della scuolina. ‘Da
otto mesi, la linea si è interrotta’. Il frigorifero è coperto da un telo. Al
bar non c’è nessuno, solo la polvere. Anche il pozzo è deserto. Il muezzin non chiama alla
preghiera. Mi spiegano che gli uomini sono quasi tutti a cercare oro.
Solo al mattino una pattuglia di bambini sgambetta verso la
scuola. ‘Sono sessantotto’, mi spiega ancora Mohammed. Tre classi fra la prima
e la terza. Il nostro mappamondo dondola sgonfio dal soffitto. Asfaw lo
rigonfia. Mohammed ha 28 anni. Ne dimostra molti di più. Guadagna 850 birr,
poco più di trenta euro al mese. Paga 150 birr di affitto per una capanna. Per
fortuna, il suo paese non è lontano: sette ore di cammino al nostro passo. Ha
studiato chimica, Mohammed. ‘Sono felice: vivo nella mia terra’.
Lo scorso anno, di primo mattino, i bambini si mettevano in fila per
l’alzabandiera. Adesso la bandiera è accartocciata in una fessura del muro di cicca. Non c’è la corda per alzarla
al palo di fronte alla scuolina.
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