venerdì 6 dicembre 2013

Lo sceicco di Negash

Lo sceicco Ahmed

No, ho ancora un ultimo appuntamento. Un’ultima abitudine. Sto bene a Negash. Un paese lungo i saliscendi dell’Asmara Road. Altopiano, Tigray. Nord dell'Etiopia. Quando vi arrivai la prima volta, rimasi stupito dalla cupola verde della moschea. L’Islam nelle terre cristiane dell’altopiano. Poi, lentamente, ho imparato a conoscere le storie di questo villaggio. E mi sono perso. Al punto di confondere le diverse versioni che ho ascoltato nelle orazioni degli sceicchi che mi hanno accompagnato a osservare le tombe di Negash.

Sono incerto: credo che Negash sia un re axumita che, nel 613, accolse i profughi della nuova religione, l’Islam, in fuga dalle persecuzioni degli avversari di Maometto. Il re fu generoso con questi uomini dispersi. Concesse asilo e terre. Nacque così la prima comunità musulmana fuori dai deserti dell’Arabia. Oppure: Negash era uno dei compagni del Profeta e fu lui a guidare la sua gente oltre il mar Rosso. Una volta, un vecchio mi disse che qui sono sepolti cento e sedici fra i primi seguaci di Maometto. Fra di loro Rukkaya, figlia del Profeta, e due sue mogli. Non so: per me sono vere tutte le versioni di questa storia, le confondo con piacere, c’è pace a Negash. Mi sorprendo a pregare inginocchiandomi verso la Mecca. Che Allah mi perdoni.

Anche questa volta ho chiesto allo sceicco Ahmed Aden di raccontare per noi la storia di Negash. Era felice: gli avevo portato una foto e oramai mi conosce. E’ molto invecchiato Ahmed (anch’io lo sono da quando ci incontrammo la prima volta). La sua barba è sempre più rossa di hennè, il viso è pergamena di rughe. E' dimagrito. Il suo corpo ha il taglio degli ossi. Gli occhi si sono fatti di acqua. Conosce i miei riti: ci sediamo davanti alla tomba di Negash, io osservo la polvere svolazzare nell’aria e le parole dello sceicco diventano una litania, un canto sussurrato, un ritmo. Una storia di re, di accoglienza, di benevolenze, di compassione. ‘Noi siamo uguali – dice – Dio è solo uno per tutti noi. Non c’è differenza. Bianchi e neri siamo uomini. Gli ospiti devono essere rispettati. Tutti noi viviamo sulla stessa Terra’. Vengo qui perché trovo riconciliazione. Cullo illusioni. 

I viaggiatori, spesso, non capiscono le ragioni per fermarsi a Negash. La moschea, la prima moschea di Africa, è dimessa, spoglia, priva di interessi. Il mausoleo del re (o del compagno del profeta, chissà?) è un sepolcro impolverato. Io spero che abbiano occhi per guardare i riflessi della sua cupola verde e orecchi per ascoltare il canto parlato di Ahmed.

Mi siedo nella sala della moschea. Poggio una mano per terra. Guardo l’orologio sull’ora ethiopian time, il ventilatore, accarezzo il tappeto. Mi piace perfino la polvere di questo luogo. So che devo andare, mentre vorrei stendermi per un po'. Qui volevo leggere una riga che mi porto dietro da quando è cominciato questo viaggio. Lo faccio: ‘Siamo tutti profughi senza fissa dimora nell’intrico del mondo’. Tutto qui. Mi sento scemo. E felice. Per un istante. Spero che Ahmed racconti ancora un’altra versione della storia di Negash.





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