Mohammed nel 2007 |
Il viaggio sta finendo. E allora posso barare un po’. Ogni
volta che risalgo il vallone del torrente Saba mi fermo da Mohammed. Mohammed Tchai Tchai fu il primo afar che
incontrai nei confini della loro terra. Questa è una storia di molti anni fa.
L'ho già scritta, la ricopio:
‘Albeggiava, quando, anni fa, per la prima volta, arrivai
alla sua acacia. Aveva i capelli lunghi come un hippie di altri tempi. Curiosi riccioli ondulati che non si
aggrovigliavano, ma scendevano fin sulle spalle. Era fatto di spigoli,
Mohammed. Aveva occhi mobilissimi e irriverenti. Un sorriso stranissimo e
perenne. Il cielo si era appena schiarito, il tè era già pronto. Venivamo da
Berhale. A piedi. Eravamo partiti che era ancora buio pesto. Mohammed ci
sorprese. Un miraggio. Sotto l’acacia c’erano le braci di un fuoco, tre sassi
come sedili, tazzine di plastica colorata. Appesi all’albero i sacchetti del
tè, dello zucchero, della farina di teff. Una burra poco distante. La sua famiglia dormiva ancora. Mohammed era
ed è uno straordinario barista.
Questo era ed è ancora un bar. Il luogo più bello che, quel mattino, potessi
immaginare.
Mohammed nel 2010 |
Guardai con lentezza Mohammed. Lui sostenne il mio sguardo. Ci
venne da ridere. Quest’uomo ci mise mezzo secondo a demolire decine e decine di
stolti libri che dipingevano come feroci gli afar. Tirai fuori un articolo
scritto da un cronista di successo: ‘Feroci come il deserto, spietati perfino
con sé stessi, elusivi come una cupa leggenda’. Rialzai gli occhi e lo guardai
nuovamente. Con premura mi invitò a sedermi e si mise a sfaccendare con tazzine
e acqua bollente. Un paio di bambini uscirono dalla capanna. Clan familiare.
Nomade stanziale. Bevvi il tè più buono della mia vita. Mi godetti il lampo di
colori del cielo. Ero in pace con me stesso. Appallottolai il foglio di
giornale con l’articolo e osservai, con soddisfazione, le braci dei carboni
consumarlo tranquillamente. Chiesi a Mohammed se potevo fotografarlo. Fece un
gesto con la mano e scomparve nella sua burra.
Riapparve con una splendida camicia bianchissima made in China con su stampigliato un fantastico drago alato nero.
Non aveva dimenticato il jile, il suo
pugnale. Sul manico, aveva sistemato un fiore di plastica rosso. Un tempo, mi
avevano spiegato, voleva significare un nemico ucciso, quel mattino mi apparve
come un vezzo elegante. C’erano tre, quattro diaframmi di differenza fra la
camicia e il suo viso. Lui si inginocchiò davanti all’ingresso della capanna,
una mano appoggiata a un bel bastone’.
Mohammed nel 2012 |
Ogni volta che risalgo il vallone del Saba mi fermo da
Mohammed. Costringo chi è con me a seguirmi fino alla sua capanna. Adesso è un
piccolo patriarca: i suoi figli e i suoi nipoti si sono moltiplicati. E’ un
accampamento familiare, il suo. Il suo viso si è affilato, le rughe hanno inciso gli anni. A volte si taglia i capelli. Ma, credo, che li preferisca lunghi. Ogni volta mi invita a rimanere per la notte. Prima o poi dovrò accettare.
Quest'anno non ho avuto fortuna: Mohammed non
era a casa. Era andato al paese. Una piccola fitta la cuore. Mi dico sempre che dovrei avvertire la sera prima. Ma sua moglie e sua figlia erano alla capanna-bar. Sua moglie ha schierato i figli da una parte della
capanna e i nipoti dall’altra. Hanno offerto il tè. Come sempre il più
buono del viaggio. Niente più tazzine di plastica. Ma quattro bicchieri barocchi:
cristallo e fregi dorati, quasi delle brocche, segno di ospitalità. Abbiamo
bevuto rumorosamente, lasciato le foto, un abbraccio, un andare, un
restare.
Sì, dovrò accettare l'invito a passare la notte. Accadrà?
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