Abdu |
Continuo a fare la stessa domanda. E tutti mi lanciano
un’occhiata dal basso verso l’alto con un mezzo sorriso un po’ sorpreso. Come a
dire: non essere sciocco, non ha alcuna importanza. Ma devono accontentare un bianco. Anche ad
Abdu, poliziotto di Dubti, villaggio del clan Arabata degli afar, popolo della
Dancalia, chiedo quanti anni ha. La sua astuzia gentile cerca un numero tondo:
quaranta anni. Lo guardo. Osservo il viso affilato, la stempiatura, gli occhi che sfuggono da
ogni parte, ma guardano con attenzione, i fili bianchi di un pizzo nobiliare,
la bolla frontale della preghiera
islamica. E poi ascolto i suoi racconti: sei più vecchio di quanti mi dici. Ha
importanza? Perché mi ostino a chiedere
l’età?
Famiglia di lignaggio, quella di Abdu. Il padre era un
piccolo vassallo del sultano Alì Mirah, il signore del mondo afar del ‘900. Gli
anni della tirannia di Menghistu costrinsero il padre di Abdu a fuggire a
Gibuti. I legami clanici non conoscono frontiere. Il ritorno nella Dancalia
etiopica aspettò la fine della dittatura militare. Avvenne nei primi anni ’90.
A vent’anni, Abdu lavorava in un garage del paese. Ma la sua
militanza nell’Afar Liberation Front, opposizione armata a Menghistu, meritava una ricompensa. Quando la regione
degli afar creò una propria polizia, Abdu chiese di farne parte. Da ventidue
anni, Abdu è un poliziotto. Indossa la camicia azzurra della Qafaar Policia.
Mi racconta dell’uccisione di cinque turisti bianchi
avvenuta due anni fa sulla vetta del vulcano Erta Ale. ‘Era gente venuta
dall’Eritrea. Afar che hanno tradito la nostra storia. Gli ospiti sono sacri.
Le leggi dell’ospitalità non possono essere violate. Puoi aver commesso crimini
grave, ma se sei nostro ospite avrai il nostro rispetto. I turisti furono
uccisi per una storia politica. Fra Etiopia ed Eritrea. Niente che riguardi gli afar, ma chi ha
commesso questo gesto non fa più parte del nostro popolo’.
Ti credo, Abdu.
Ha sei figli. Due sono gemelli.
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