Reinaldo ha 39 anni, una grande faccia aperta, un bel sorriso. Basso di statura, soprappeso. Al lunedì si alza alle cinque e cammina per altrettante ore: deve raggiungere San Juan, villaggio del distretto di Iruya. E’ direttore della scuola. Ventotto ragazzi. Rimarrà in questo villaggio fino al venerdì. Poi si incamminerà nuovamente (c’è un saliscendi che vola oltre i quattromila metri) per passare il finesettimana a Iruya. Reinaldo è il presidente della Finca Potrero, la comunidad di questo angolo di Ande. Hanno un titolo comunitario per 40mila ettari. Un grande territorio di montagne impervie e frananti.
Parlo con Reinaldo nella felice confusione del comedor di dona Ramonita. Tre ragazzi si stanno ubriacando. Al nostro tavolo siede Jesus, con gli occhi di vino e coca, muratore, tornato al paese dopo anni di città.
Ecco cosa racconta Reinaldo.
‘Nessuno può vendere queste terre – racconta Reinaldo – Si possono cedere solo ad altri soci della comunità. Mai a uno straniero. Non è obbligatorio far parte della comunità: chiunque abbia compiuto diciotto anni e sia nato qui può decidere se farne parte. Non ci definiamo aborigeni. Siamo semplicemente nati in queste montagne. Questa è la nostra terra. Per oltre sessanta anni, i terratenientes ci hanno sfruttato. Dagli anni venti fino agli anni ’80, siamo stati costretti a un lavoro forzato nelle piantagioni di canna da zucchero. Venivano con i camion a prendere i nostri nonni e i nostri padri. Oggi ci stiamo riprendendo i nostri diritti. Nelle terre comunitarie lo Stato garantisce istruzione primaria e posti di salute, ogni altra questione è demandata alla comunidad. Abbiamo perduto molte usanze: non c’è più, ad esempio, la milga, il lavoro solidale, ma ci sentiamo parte dello stesso mondo. Ora sta arrivando il turismo. E’ una nuova economia. I villaggi non sono preparati. I cambiamenti sono troppo bruschi. A San Isidro, l’elettricità è arrivato solo cinque mesi fa. Un ponte collega i due quartieri di Iruya solo da pochi mesi. In ogni villaggio sono stati installati pannelli solari. Ci sono le parabole per la televisione. E arrivano i turisti. La nostra gente non era abituata a un’economia monetaria. Si produceva quello che ci bastava. Avevamo e abbiamo ancora vacche e capre, orti e campi di mais. La nostra terra è generosa. Le nostre famiglie hanno una casa. Non siamo poveri. Ma la mancanza di lavoro, di un reddito è il guaio più serio. I ragazzi vogliono andarsene, hanno desideri diversi dai loro padri. Se ne vanno in molti, in molti tornano. Il turismo sta muovendo qualcosa. Viviamo una vita tranquilla, ma dovremo affrontare i cambiamenti. I sussidi e l’assistenzialismo stanno minando i nostri giovani. Si accontentano dei pochi pesos che passa il governo. Con questi soldi si ubriacano. Questo è uno dei nostri problemi più gravi dei nostri villaggi. L’equilibrio della nostra comunità deve basarsi sui suoi diritti e sul senso di una proprietà comune del nostro territorio’.
Il turismo ha innescato una nuova economia anche nella piccola Iruya. Le donne hanno aperto comedor, le famiglie hanno creato hostal. Equilibri fragili. Nessun straniero può comprare a Iruya. Può solo affittare. Non mancano le divisioni. Una piccola associazione di commercianti (genti originaria anche loro) voleva imporre guide obbligatorie ai turisti, ha cercato di conquistare una posizione di privilegio sul movimento di turisti. Confronto aspro fra la gente del posto. Ha vinto la comunidad: il turista deve rispettare alcune regole elementari (di sicurezza in montagna), ma ha libertà di scelta e di movimento.
Iruya, 23 ottobre
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