giovedì 28 ottobre 2010

Arrivo a Iruya

La strada per Yruya
Il passo del Condor



Apro un libro nella casa di Pablo e leggo l’ultima riga di un breve capitolo intitolato ‘Identidad’. Sta scritto: La vida es una oportunidad que uno tiene para hacer algo bueno. Deve essere la stanchezza di un lungo viaggio, i paesaggi impressionanti, il vuoto dei quattromila metri, queste montagna e le poche persone (uomini soli con il cappello nero, donne dai maglioni rossi con i bambini imbatuffolati sulla schiena) che vanno a piedi e hanno la pelle grattugiata dal sole. Devono essere le montagne che sembrano sgretolarsi dalla terrazza-balcone della casa di Pablo, deve essere la sua gentilezza di accogliere i suoi ospiti con il sottofondo di una musica strappa-emozioni. Devono essere tutte queste cose assieme, se, all’improvviso, riscopro qualcosa che non so come chiamare se non ‘emozione’.
La sera a Iruya


Seguire il fiume per Iruya
Iruya è lontana. Cinquantaquattro chilometri di strada di terra, priva di parapetti, che vortica su sé stessa. Vorrei fermarmi ogni secondo perché ogni secondo cambia la luce. Saliamo a quattromila metri, passo del Condor, altari di vino e sigarette per la Pachamama, precipitiamo di mille metri. Letto di un fiume. Madonne disseminate lungo la strada. Le ruote affondano nei guadi. Poi, in alto, una luce color dell’ambra illumina una chiesa. Arriviamo a Iruya che i lampioni delle strade sono stati appena accesi. Il prete chiama alla messa, i pentecostali cantano in una piccola sala dalla porta aperta, alcune donne sembrano riunite in un’assemblea. Hanno volti di pergamena antica. I ciottoli dei vicoli sono sconnessi. Hanno finalmente costruito un ponte per permettere agli abitanti di passare da un quartiere all’altro del villaggio. Mille e cinquecento abitanti. Tanti, moltissimi, per queste solitudini. Il turismo è arrivato fino a qui. Noi ne siamo la prova. Le donne hanno trasformato le cucine in comedor, preparano zuppe di patate e milanesa. Il menù è un foglio di quaderno, alla parete un certificato di ‘protagonista di turismo responsabile’. Sì, credo che dona Tina sia davvero ‘responsabile’. Il marito, immagino sia il marito, è timidissimo nel servire a tavola.
Le montagne sono ovunque. Il villaggio è cresciuto in questi anni. Sono i villaggi più lontani a spopolarsi. Non ci va più nemmeno il prete. ‘Qui c’è tecnologia’,mi dice Pablo. Eppure vedo donne e ragazzi prendere i sentieri delle montagne. La loro casa è nel nulla. Nel paesaggio più bello e pèiù impietoso che si possa immaginare. Più del Sahara. Un poliziotto mi spiega che qui il crimine più frequente è la violenza familiare. Guardare sempre da un altro punto di vista, guardare oltre la bellezza, cercare il quotidiano. Fa freddo a sera a Iruya. Le ragazzine camminano a braccetto zoppicando sui ciottoli delle strade, i ragazzi si rincattuciano al riparo di un portone. Nei comedor si devono grandi bottiglie di birra Norte. Tutto qui.
Iruya, 22 ottobre

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