martedì 8 aprile 2014

Viaggiatrici Viaggianti/L'ultimo posto di Saamiya


Saamiya (da www.echeion.it)
Guardiamo ancora ipnotizzati quegli interminabili trentadue secondi. Anche allora mi apparvero come una gloria. E quel video è rimasto nella mia memoria più delle immagini delle vittorie di Usain Bolt in quei lontani giochi olimpici. Ai blocchi di partenza, Saamiya Yusuf Omar, una ragazzina somala di diciassette anni, appariva magra come un chiodo. Alta un metro e 62 centimetri, 54 chili di peso. Pantaloni-tuta neri oltre il ginocchio, una maglietta bianca ciondolante da tutte le parti e una fascia di spugna (con il logo della Nike, da qualche parte ho letto che era di suo padre e che se l’era portata dietro da Mogadiscio) a tener fermi i capelli. Aveva un fisico da fondista, Saamiya. Gambe secche, pelle e ossa, nessun muscolo. Che ci faceva in mezzo a quelle velociste simili a Superwoman? Che ci faceva in quella batteria dei duecento metri alle Olimpiadi di Pechino del 2008? E ancora una domanda: quanto sono lunghi nove secondi? Saamiya, quel giorno, 19 agosto di sei anni fa, arrivò all’ultimo posto su quarantasei atlete: nove secondi dopo la giamaicana Veronica Campbell-Brown. Un’eternità. Il suo scatto iniziale era stato così lento che lo start non riuscì nemmeno a registrarlo. Saamiya percorse in perfetta solitudine, con elegante passo da gazzella, gli ultimi cinquanta metri della sua corsa. Le altre atlete avevano già imboccato il sottopasso per gli spogliatoi. Ma alcune tornarono indietro per dare uno sguardo a quella strana atleta: gli spettatori di quell’insolita batteria di velociste erano tutti in piedi e incoraggiavano, rumoreggiando, i balzi di Saamiya. Alla fine tagliò il traguardo e la folla benedisse l’impresa con mille applausi. Una sprinter delle Bahamas, Sheniqua Ferguson, a dare retta ai cronisti, osservò stupita quella ragazza: ‘Deve amare correre’. Io spero che Sheniqua sia venuta a dirtelo, Saamiya. Perché aveva ragione: tu amavi correre.

La corsa di Saamiya (dal blog di Enzo Caruso.net)




Ma in mare non si può correre. Se la tua barca affonda, si affoga. Se non afferri la corda che ti viene gettata, l’acqua ti entra nei polmoni e svanisci fra le onde. Potevi essere dimenticata, ma qualcuno si ricordò di quella straordinaria corsa di Pechino quando lesse il tuo nome fra coloro che, una notte di aprile del 2012, erano scomparsi fra le coste della Libia e Lampedusa. A ventuno anni, tre anni dopo la batteria dei 200 metri, Saamiya moriva da migrante, da donna somala, da ragazza che inseguiva un sogno. Saamiya è diventata un’icona, il simbolo delle migliaia dei suoi fratelli e sorelle sommersi dal mare. Ma lei, giovane e minuta, voleva solo correre. E io so cosa vuol dire, per un africano, ‘voglio correre’. So come brillano gli occhi di un’africana di diciassette anni quando annuncia al mondo: ‘voglio correre’.

A una giornalista di Al Jazeera, Teresa Krug, Saamiya aveva confidato: ‘La Somalia è il più bel posto al mondo dove vivere. Se solo ci fosse la pace’. In Cina, quando qualcuno si accorse di lei (qualcuno, come il giornalista Charles Bronson, che ebbe attenzione per chi arriva ultimo), disse: ‘Sono orgogliosa di portare la bandiera somala da sventolare fra quelle di tutti questi paesi’. A Pechino, non so spiegarmi grazie a quale miracolo fossero arrivati fino a lì, vi erano due atleti somali: Saamiya e Abdi Said Ibrahim, un mezzofondista che, naturalmente, arrivò, anche lui, ultimo.


(dal blog di Enzo Caruso.net)

Bisogna essere ostinati per voler correre a tutti i costi nel ventre della Somalia. Non riesco nemmeno a immaginare questa ragazza, sei fra fratelli e sorelle, il padre ucciso da un colpo di mortaio nel 1993 (lei aveva due anni, nata assieme alla infinita guerra civile somala), che corre fra le rovine di Mogadiscio. Nessuno di noi, avrebbe avuto il coraggio di farlo. Saamiya lo fece. Contro gli uomini armati che, certamente, la minacciavano. Oltre le barricate che sbarravano i cammini lungo i quali lei avrebbe voluto solo allenarsi. Sfidando l’arroganza primitiva di chi crede che le donne non possano fare sport. Saamiya, dicono, era impaziente: in quell’aprile del 2012 voleva raggiungere Londra, voleva almeno assistere ai nuovi giochi olimpici, sognava che magari si potesse ripetere il miracolo di Pechino. Aveva promesso: ‘La prossima volta farò del mio meglio per non essere l’ultima’. A Londra, e ce lo ricordò subito la scrittrice Igiaba Scego, un altro ragazzo somalo, Mohamed Mo Farah vinse i cinquemila e i diecimila metri. Mo era fuggito da Mogadiscio, ma correva come atleta inglese. Si era allenato da runner britannico. Destini incrociati di due giovani: la migrazione disperata di Mo si era trasformata in un trionfo. Venne ricevuto a Dowing Street. Le ossa di Saamiya sono sul fondo del Mediterraneo. Il video della sua corsa di Pechino, su YouTube, è stato cliccato da 250mila persone. Non so cosa voglio dire o scrivere. So che, lacrime agli occhi, mi alzo in piedi a incoraggiare e applaudire Saamiya mentre corre verso il suo ultimo posto.
Giuseppe Catozzella a Matera



Non so come abbia fatto Giuseppe Catozzella, 38 anni, scrittore ed editor dalle origini lucane, un piccolo piercing all'orecchio destro, a scrivere, in prima persona, la storia di Saamiya Omar Yusuf. Giuseppe è italiano ed europeo, non è musulmano, ha viaggiato in Africa, ma non è mai stato a Mogadiscio. E’ riuscito a raccontare, con lievità, una storia bellissima e drammatica. Roberto Saviano ha scritto che questo libro ‘è necessario’. Ha ragione: ‘E’ una storia che nessuna fantasia avrebbe potuto creare. Una storia che crea vertigine per quanto ci si senta colpevoli a non averla raccontata ovunque fosse possibile’.

Giuseppe Catozzella ‘Non dirmi che hai paura’ Feltrinelli, pp.240, E. 15

La corsa di Saamiya si può vedere (non so per quali ragioni la cronaca è in russo) su YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=4E1O_2BOt1c

(questo articolo è apparso sulla rivista Combonifem (www.combonifem.it)







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