martedì 28 febbraio 2012

Gabriella

Qualche giorno fa Gabriella Mercadini se ne è andata. Mesi addietro avevo visto le sue foto ancora orgogliosamente in mostra alla Casa Internazionale delle Donne. Conoscevo il lavoro di Gabriella. Mario me la fece incontrare qualche tempo fa a Venezia. E non ebbi il coraggio di dirle che ero felice di incontrarla. Ci sono persone che avverti di aver sempre conosciuto. Il tempo di uno spritz, di un giro bello per Venezia. In realtà, non c'è stato tempo. 


Non so, Mario Boccia, uno dei migliori fotoreporter italiani, dopo l'addio di Gabriella, mi ha mandato le parole che potete leggere qua sotto. Erano pensate per un libro attorno alle foto di Gabriella. Un libro che spero troverà la maniera di essere pubblicato. Ho chiesto a Mario se potevo metterle in questo piccolo spazio. Perchè, con Mario, penso che queste siano 'storie nostre' e che il ricordo sia 'importante'.



Gabriella a Venezia (foto di Mario Boccia)


Cara Gabriella, una lettera di Mario


Cara Gabriella, vorrei dirti una cosa: è stata anche colpa tua se ho scelto di fare il tuo stesso lavoro. Non te l'avevo mai detto, perché è successo molto prima di conoscerti e per spiegarlo avrei sottolineato una differenza d'età, che abbiamo sempre ignorato.

Ero uno studente adolescente e ritagliavo le foto che mi piacevano dai giornali per metterle in una scatola. Il 1968 era appena finito e quelle non potevano essere foto annoiate e banali. Potevano perfino non essere “belle” ma dovevano essere erano piene di contenuto e informazioni. Nella scatola non c’era “fine-art”, ma foto di attualità, di uomini e donne in lotta, in ogni parte del mondo. Oppure foto storiche (oggi diremmo "immagini iconiche", perché il linguaggio cambia come le stagioni) della guerra del Vietnam o della lotta partigiana. C’erano la bandiera rossa sul Reichstag a Berlino e il miliziano spagnolo di Capa. La musica era Jimi Hendrix a Woodstock. Lo sport aveva il pugno alzato e guantato di nero di Smith e Carlos sul podio a Città del Messico. Tanto mondo e tanta Italia, ma sempre come parte di un movimento che sentivamo come la nostra casa.

Tra quelle foto nella scatola c'erano anche le tue. I fotografi uomini erano di più, ma allora non ci facevo caso, solo dopo ho capito che il fatto che ci fossero fotografe donne affinava la qualità di quella collezione di ritagli. Poi la vostra rivincita, tu e Luisa Di Gaetano ve la siete presa riempiendo la Casa Internazionale delle Donne di foto del movimento femminista, tanto belle perché il vostro sguardo era dentro e parte quel movimento. Sono lì da anni, in mostra permanente, ma rimarranno nella memoria di tante persone anche al di là della mostra stessa.

Ma non hai fotografato “solo” quello. Sei stata in Afghanistan, in Iran, in tanto altro mondo, hai fotografato studenti e operai, uomini e donne in Italia (in qualche scatto potrei esserci anch’io, con barba e capelli, tra i tanti).


Una foto di Gabriella (da utilerezapagain.blogspot.com)


Mi viene in mente la frase di una canzone dei primi anni ’70: “vorrei incontrarti davanti a una fabbrica... lungo le strade che portano in India…”. Tu potevi essere li, perché erano i tuoi luoghi abituali. Hai fatto con semplicità quello che tanti sognavano. Hai viaggiato e sei tornata. Sempre in piazza, perché i viaggi non erano fughe e tu non ti sei mai persa (come l’autore di quella canzone).

Guardando le tue foto (e quelle di altri che non ti dico, perché tanto sai di chi parlo), ho iniziato ad avere voglia di fare come voi. Intuivo le storie delle persone da un’espressione o un gesto, ancora prima di leggere il testo. Quelli non erano scatti a tirar via. E' questo che fa la differenza. Fotografare può essere uno scambio, un rapporto umano che implica complicità, fiducia e rispetto. Lo ripeto: rispetto. Non sempre è così, ma quando c'è si vede.

E che c'entrava il "lavoro" con questo? Potevo mettere insieme il mio gioco preferito di bambino (con una macchina a fuoco fisso e una levetta che mi dava due possibilità: sole e nuvole), con la voglia di viaggiare e cambiare il mondo? Potevo vivere facendo quello che mi piaceva o sarebbe stato più saggio fotografare nel tempo libero?

Intanto tu seguitavi a fotografare, viaggiare e protestare e ti vedevo in opera, assieme ad altri autori delle foto nella mia scatola. Vi incontravo perché frequentavamo gli stessi posti e le vostre foto (ma ora penso solo alle tue) seguitavano a lasciare tracce nella memoria di tante persone. Non sembravate ricchi ma avevate l'aria di divertirvi e tu eri bella quasi come oggi. Così, ho deciso.


Gabriella e Mario


Troppi anni dopo, finalmente, ti ho conosciuto nella stanza dei grafici al manifesto, dove si andavano a portare le stampe da vendere per il giornale. Credo che quella stanza sia stata un rifugio culturale importante per i fotografi che lavoravano a Roma. Si poteva parlare di tutto, perfino mostrarsi reciprocamente le foto senza diffidenza e andarsene al bar, dopo. Tu sai che, fuori dal mito, il nostro è un lavoro difficile. E’ raro incontrare degli amici veri che non tradiscono per vendere una foto in più o che ti aiutano senza aspettare che tu lo chieda. Abbiamo imparato che l’ideologia non protegge dalle scorrettezze, anzi, a volte le maschera. “Troppi schiacciasassi in giro”, che “passerebbero sopra la propria madre”. Ricordi a chi pensavi quando me l’hai detto? Spero di no, perché non ne vale la pena.

Incontrare te, invece, è stato e sarà sempre un piacere. Ricordi quando siamo venuti in tanti fino a Parigi per una tua mostra? E la cena con Mario Dondero nel bistrot, con quella specie di trippa, che sarà pure stata una “specialità popolare” ma aveva un pessimo odore? Questo non lo possiamo dimenticare.

Non so se ora esagero, ma credo che siamo riusciti a vivere senza lavorare. Se non abbiamo mai sentito il bisogno di fare una vacanza, al ritorno di un viaggio di lavoro, significa che abbiamo mantenuto unito il nostro tempo. Il prodotto del nostro lavoro ci appartiene, nel senso che ci rappresenta (almeno un poco), anche quando lo cediamo ad altri. Ed è più forte di noi, perché mantiene nel tempo l’energia e la capacità di comunicare che è nelle nostre intenzioni mentre lo realizziamo.

Ma non voglio buttarla in filosofia da spritz. Questa lettera che assomiglia a una foto mossa della nostra vita è un pretesto per arrivare a una didascalia semplice: Cara Gabriella, ti ringrazio per avermi dato (senza saperlo) l'idea di provare a vivere di fotografia.


sabato 25 febbraio 2012

Marie, Rami al Sayed e Rèmi

Rémi (da Clickblog.it)
Marie (da Corrierenazionale.it)
Ramy (da Corrierenazionale.it)




'....il reporter, nel rischio o nella normalità, deve cercare di essere un testimone diretto, non deve dipendere, nei limiti del possibile, dai numerosi e comodi filtri offerti dalla tecnica. La civiltà delle immagini e dell'informatica spinge a raccontare sui giornali la meschina e centellinata realtà che appare sul video o che viene offerta da Internet....Rémi Ochlik e Marie Colvin hanno pagato con la vita il nobile vizio di 'andare sul posto', di raccontare la realtà nella sua cruda versione'. (Bernardo Valli)

Quando Bernardo Valli ha scritto queste parole non sapeva che sotto le bombe di Homs era morto anche il blogger siriano Rami al-Sayed.

martedì 21 febbraio 2012

Valeria e i ragazzi di piazza Tahir

Mi fido di Michele Serra. Seguo il suo consiglio, leggo quanto Valeria Gentile ha scritto sul blog Valigia Blu.

Valeria, immagino (da Valigia Blu)


Valeria è una giornalista freelance. E’ sarda. Ha studiato a Firenze. Ha viaggiato. Immagino e riconosco la sua trafila: collaborazioni, viaggi testardi e fatti con pochi euro in tasca, vivere di un lavoro voluto e desiderato. Torna in Sardegna, Valeria. Poi, all’improvviso, riceve un’offerta di lavoro. Occuparsi della comunicazione di un resort di lusso (21 ristoranti, children city, otto alberghi cinque stelle, spiaggia privata, seicento euro a notte).

Fa i colloqui, Valeria. Li supera. Nonostante quel suo curriculum insolito. Gli uomini del resort danno per certo che accetterà il lavoro. Colpo di scena: sono loro a non aver superato il colloquio con lei. E’ superba, Valeria? No, ha orgoglio. L’orgoglio dei suoi 26 anni. Le offrono un salario da 700 euro al mese per mandare all’aria tutta la sua vita. Pensa alle parole di un prete di Nuoro che dice: ‘Noi sardi siamo poveri perché regaliamo le nostre ricchezze’. Pensa alle amiche che puliscono scale a 50 euro a settimana. Pensa, Valeria. E rifiuta l’offerta. Nei giorni della crisi. ‘Non sono coraggiosa, sono sarda e dico no a questi signori tristi’.

Ahdaf Soueif in piazza Tahir (da Invisiblearabs)


Mi fido di Paola Caridi che, al Cairo, intervista Ahdaf Soueif, scrittrice egiziana. Ahdaf racconta a Paola dei suoi figli e nipoti. Ragazzi di piazza Tahir. E’ stata una rivoluzione di ragazzi, la ribellione del Cairo. Paola scrive che Ahdaf ha passato a loro il testimone. ‘Senza remore’. E' la loro rivolta. Hanno guidato una speranza. ‘Sono diversi da noi – dice Ahdaf – Diretti. Estremamente sicuri di se stessi. Sanno perfettamente ciò che vogliono. Hanno una precisa coscienza politica e non sono per nulla ingenui’.

‘Mi si spezza il cuore – dice ancora Ahdaf – Perché sono loro a rischiare’.
Omar Robert Hamilton (da beyondbordersscotland)


Alla fina Ahdaf si interroga: la mia è una visione romantica? ‘E cosa c’è di male a essere romantiche? Tre parole hanno segnato la nostra rivoluzione: pane, libertà, giustizia. Se questo vuol dire essere romantiche, sì, allora lo sono’.

C’è un filo rosso che lega Valeria in Sardegna a Omar Robert, il figlio di Ahdaf, al Cairo.
San Casciano in Val di Pesa, 21 febbraio
(L'intervista di Paola Caridi a Ahdaf Saoueif è su Invisblearabs.com/Le parole di Valeria Gentile sono su valigiablu.it )

domenica 19 febbraio 2012

Incontri in Maremma/Luciano Bianciardi


Luciano Bianciardi (da letture.wordpress.com)

Da qualche settimana viaggio per la Maremma. Un altro libro da scrivere.

Terra strana, la Maremma. 228mila, gli abitanti della provincia di Grosseto. Densità da 50 abitanti a chilometro quadrato. Un quarto della media italiana. E’ terra di campagne e colline. Di mare bellissimo. Di antiche paludi. I casali sembrano non conoscere trucchi. Hanno il disordine della fatica vera. I paesaggi non sono pettinati come in Chianti.

La Maremma. La strada della Valentina


E poi in Maremma si fanno incontri. Con uomini solitari, dal carattere brusco. Luciano Bianciardi lo trovo a Gavorrano, di fronte alle miniere dismesse della Montecatini (Bianciardi avrebbe voluto 'far saltare per aria' il grattacielo milanese di questa società che, proprio qui, a Gavorrano, ha cominciato a fare soldi). Se andassi fino a Ribolla, lo vedrei ancora lì, davanti alla miniera nella quale, nel 1954, morirono 43 uomini. Alla fine lo ritrovo a Grosseto. Nelle periferie della città, ma anche nelle strade del centro. Mi accompagna anche sull’Amiata perché vuole dirmi dei minatori del mercurio. Si arrabbia mentre mi racconta. 
‘E’ stato uno dei pochi arrabbiati italiani sinceri’, diceva di lui Oreste Del Buono. Era come Pasolini, Bianciardi. Aveva scritto: ‘Chi non ha l’automobile, l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due lavatrici…a tutti. Purchè tutti lavorino, purchè tutti siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo’. Non aveva la lucidità da chirurgo di Pasolini. Ignorò il ’68. Era già fuori. Era già lontano. Era andato oltre. Aveva intuito in anticipo.

Gavorrano. Le medagliette dei minatori


Leggo: ‘Si inventò una vita diversa, ma poi non seppe cosa farsene’. Ricordo il libro, La vita agra: era uno dei pochi libri che mio padre si era comprato. Perché lo aveva comprato? Edizioni Rizzoli, un serpente si allunga sulla copertina. Cosa c’entrava mio padre con Bianciardi? Non leggeva poi molto. Forse condivideva una rabbia che non riusciva a esprimere. Ho ancora quel libro.

Mi imbatto per caso in ‘via Luciano Bianciardi’. Una brutta periferia. Grosseto oggi non assomiglia a Kansas City, come si convinsero, sessanta anni fa, un gruppo di ragazzi grossetani arrabbiati. Oggi, sembra, che Grosseto voglia nascondere il suo più grande scrittore. Come se non gli avessero perdonato una ribellione impotente. Ma queste parole non hanno senso. Non sono giuste, mentre Bianciardi aveva ‘l’istinto della parola giusta’. Mi piace Grosseto. Per il suo languore.

In miniera


Massimo Raffaelli mi dà una traccia preziosa: scrittore beat. Un’esistenza beat. Bianciardi era beat? Chi altri avrebbe scritto di minatori in una Italia che si affannava, senza niente chiedersi, a costruire il miracolo economico? E' lui, assieme a Carlo Cassola, a scrivere: ‘i minatori sono gente assai parca del parlare’. E quegli erano gli anni del grand boom. 
Chi, se non un beat, avrebbe sprecato il suo immenso talento con una dolorosa incuranza? In Italia non è mai esistita una storia beat. Ma forse non ci sono stati occhi e intelligenze per vedere. Feltrinelli lo licenzia, dice lui, perché ‘strascica i piedi, si muove piano, si guarda attorno anche quando non è indispensabile’. Rifiuta il salotto buon del Corriere della Sera di Montanelli, si rintana nel Guerin Sportivo. Ma fu veramente uno spreco? Cerco di adattare i miei passi per le strade di Grosseto al suo camminare. 

Grosseto. La statua a Pietro Leopoldo


Oggi i libri di Bianciardi sono pagine di culto. Ci si appropria del suo mito. Feltrinelli ripubblica, nella sua collana più diffusa, la preziosa biografia scritta da Pino Corrias (compratela, è un 'manifesto'). Ogni sua pagina è raccolta in Anti-meridiani. Quante parole scritte! Quarte cartelle bianche riempite di storie e di traduzioni! Da qualche parte ho letto che sono 25mila....tradurre è un lavoro manuale. 
Bianciardi si ferma a un bar. Lo seguo. Vorrei seguirlo. Fino a dove? Fino alla sua malinconia?

Maremma. Orbetello


So che morì solo, Bianciardi. Quaranta anni fa. C’erano solo ‘quattro persone con i cappotti chiusi’ a salutarlo. E nessuno ricorda chi fossero due di quelle persone.

Oggi vi è folla attorno al suo ricordo. Il Corriere della Sera gli chiederebbe ancora di scrivere per le sue pagine? Lui accetterebbe?

Mi piace la Maremma di Bianciardi. Qualcuno dovrebbe rimettere il moto il furgone bibliobus con il quale Bianciardi andava di paese in paese a offrire libri in lettura.
San Casciano in Val di Pesa, 19 febbraio


mercoledì 15 febbraio 2012

Tuareg/Lo cheche di Abu



Abu aspettava i suoi anni. A quel tempo si accontentava del gioco con i turisti che un aereo russo portava fino a Timbuctu. Abu aveva poco più di dieci anni. Di lui conservo una foto disteso su una duna dalla sabbia bianca. Ci aveva condotto fino a lì per farci godere della sera che stava calando su Timbuctu. Ci disse, forse racconto per bianchi, che aspettava il momento di indossare il suo cheche. Più di dieci metri di tessuto a nascondere la testa, il mento e la bocca. Solo gli occhi scoperti. Iniziazione. Orgoglio tradizionalista del deserto.

Ricordo Abu. Andava a scuola. Parlava un francese limpido e un po’ gutturale. Sapeva raccontare. Uno come tanti a Timbuctu. O, forse, uno come pochi. Non so. Ricordo Abu oggi, in questi giorni di una nuova rivolta tuareg. Giorni di sangue nei deserti attorno a Timbuctu, a Kidal, a Gao. Giorni difficili da interpretare da qua. Quando conobbi Abu c’era aria di speranza a Timbuctu.



Mi sorprendo a chiedermi dove possa essere in questi tempi Abu. Il 17 gennaio, i giovani tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad hanno ripreso le piste di sabbia di una ribellione. I deserti del Mali sono stati investiti dalla rivolta. L’esercito maliano, di fatto, è asserragliato nelle città (Timbuctu, Gao, Kidal). Colloqui ad Algeri fra governo di Bamako e fazioni tuareg sono falliti. Disconosciuti dall’Mnla. Che chiede incontri in territori neutrali (Burkina-Faso, Mauritania, Svizzera, sotto supervsione Onu e Unione Africana). ‘Questa volta i tuareg fanno sul serio’, mi dicono da Tamanrasset. Hanno armi, tutti ora sono armati in deserto. Sono gli arsenali di Gheddafi.
E’ l’ultima ribellione? Quella che cambierà la geografia del Sahara? ‘Non abbiamo altra strada che l’autodeterminazione’, dicono i siti tuareg. E bisogna leggere ‘indipendenza’. Poi leggo le parole ufficiali del Mnla: ‘Non siamo un movimento tuareg, la nostra non è una ribellione tuareg. Noi siamo un movimento rivoluzionario politico-militare. Lottiamo per l’autodeterminazione dell’Azawad. E l’Azawad è terra dei Songhays, dei Peuls, degli Arabi e dei Tuareg’ (http://bit.ly/xBVutM) . Parole da diplomazia. Da sfida che si combatte con le armi e con la politica. L’Mnla nega, con forza, intese con i movimenti integralisti, afferma ostilità ad al-Qaeda: ‘E’ gente straniera’. Ma certamente non smentisce intese con fazioni islamiste maliane.



Ma non tutto è chiaro in Sahara. E’ guerra di tutti contro tutti. Network di contrabbandieri, frammenti dell’integralismo algerino, sbandati della Libia e del Darfour, trafficanti di droga. Il presidente nigerino Mahamadou Issoufou vede la ribellione come una diretta conseguenza della guerra civile in Libia. Il Niger sta collassando sotto la pressione di profughi (260mila!) rientrati dalla Libia, di gente in fuga (20mila) dalla Costa d’Avorio. Ora arriva chi fugge dalle sabbie del Mali. La guerra, in Sahel, si salda sempre con la fame.

E io penso ad Abu. Avrà moglie. Avrà figli. Non lo vedo come profugo in fuga. Non ne aveva lo sguardo disperato. Lui ha sapere, coscienza, attenzione. Starà combattendo? Sarà fra i capi del Mnla? Sarà a fianco dei fondamentalisti? Oppure starà cercando le strade di una mediazione: da ragazzino ci parlò della pace, ci mostrò i monumenti eretti a una pace che era solo illusione…

Io penso che solo pochi anni a Bamako tuareg e songhai, bianchi e neri, organizzarono il Social Forum africano.



Ora si combatte a Tessalit. A Nord. Quattromila profughi nel nulla. A Kidal, raccontano, l’esercito usa gli abitanti rimasti come scudi umani, in attesa dell’assalto alla città da parte del Mnla. ‘Non è rimasto nessun medico in città’, scrivono da laggiù. ‘Priez avec nous pour que la calme retourne le plutot possible’.
San Casciano in Val di Pesa, 15 febbraio




martedì 14 febbraio 2012

Libia/Tripoli vista da lontano

La vecchia Fiera di Tripoli

Occhi strabici sulla Libia. Schizofrenia da Google Alert. Forse farei meglio a telefonare a Tripoli. Il web quale realtà rispecchia?

Dunque, al primo posto grazie all’algoritmo italo-californiano, c'è Globalist, luogo di informazione dissonante. Un uomo invisibile mostra l'armamento di un Rpg, micidiale lanciamissili portatile. Ci dicono che in giro per le strade di Tripoli dovrebbero essercene almeno cinquemila.
Globalist, il giorno prima, aveva descritto la mappa dei tre gruppi fondamentalisti che si sfidano per le strade di Tripoli. Oltre diecimila uomini in armi, secondo il network, che non hanno intenzione di consegnare il controllo della città al Consiglio Nazionale di Transizione.

Business al tempo di Gheddafi


Secondo risultato dell’algoritmo di Google: l’elenco delle fiere commerciali previste a Tripoli nei prossimi mesi. Dopo domani, comincia la fiera di Re-Build Libya (già, distruzione-ricostruzione), ad aprile ci sarà la fiera delle infrastrutture e di oil & gas. A maggio fiera dell’agricoltura e della pesca. E anche nuova fiera per ‘ricostruttori’: la rivista italiana ‘Rassegna militare’ (Rassegna militare?!) ricorda agli imprenditori che si potrà promuovere edilizia e arredamento, marmi e bagni, giardinaggio e trattamento acque. Costo dello stand? Per tre sedie, un tavolo, un appendiabiti, un loculo di tre metri per tre: più o meno tremila euro. A giugno fiera della tecnologia. A luglio, heath care. Affollamento di business.

Con quali occhi guardare a Tripoli? Da business-man o da miliziano armato?

Istituto del Commercio Estero e Camera di commercio italo-libica (ha cambiato, senza azzardare un solo commento pubblico, presidente in Italia e referenti in Libia) incoraggiano, con qualche reticenza, gli imprenditori italiani.

Un consiglio, però, all’Ice deve essere dato: va bene che l’istituto è stato (giustamente) salvato dal governo Monti, ma aggiorni il suo sito. Non fa bella figura tenere nelle pagine 'libiche' un report del 2010 che guarda con cauto ottimismo al futuro della Libia grazie a Saif el-Islam, figlio di Gheddafi.
San Casciano in Val di Pesa, 14 febbraio

domenica 12 febbraio 2012

I giorni del Manifesto


In coda al Tg3. Qualche giorno fa. ‘Liquidazione coatta amministrativa’ per il Manifesto. Cerco un’emozione, un sussulto. Confesso: non lo trovo. Vado in cucina, interpreto quell’annuncio senza aggettivi: ‘Chiude il Manifesto’. ‘Ho sentito’. Mi chiedo se questo significhi qualcosa per mia figlia che ha poco più di venti anni. Lei, da parte sua, sta in silenzio. Studia i meccanismi dell’economia. E scuote la testa con diffidenza.

Passano alcuni giorni. Amici di mail mi dicono: ‘Scrivi qualcosa delle tue storie al Manifesto’. A me non era venuto in mente. Hanno sfiorato un bottone che credevo introvabile. Già, nella mia biografia ci sono mesi passati al Manifesto. Una veloce estate passata a Roma a fare una sostituzione. Molti articoli. Un buon tempo. Ci sono amicizie, passioni, arrabbiature, litigi mai scoppiati e che forse dovevano scoppiare, complicità forti, intese. E amici che non ci sono più. Ma sono passati mille anni. Dico ancora, quando mi chiedono: ‘Ho collaborato al Manifesto. A volte accade ancora’. Ma non è vero. Non accade da anni. Sapevo che la redazione non è più in via Tomacelli (come l’ho amato, questo indirizzo), ma in una sconosciuta via Angelo Bargoni, 8. Mai stato là.

Comprai la prima copia del Manifesto. Questo dice la mia età. Per decenni, ogni mattina, ho comprato il Manifesto. Ogni giorno, anche quando il giornale non mi piaceva. Poi, come dice Norma, sono diventato un lettore senza fedeltà. Due, tre volte a settimana. A volte meno. Ma possiedo qualche azione (forse una) del giornale: la comprai con il primo stipendio di un altro giornale.



Eppure al Manifesto ho imparato. Una redazione di follia geniale. Il primo giorno che passai là dentro mi abbandonarono da solo a chiudere le pagine. La prima pagina. Erasmo era fuggito. Io non sapevo niente di tipografie. Mi trovai alle spalle un tipografo grande e grosso (a me appariva grande e grosso. E romano) che, taglierino in mano (allora si faceva così), mi chiedeva di tagliare un pezzo dalla Rossanda. Panico assoluto.

Scoprii che era vero che i titoli scoppiettanti della prima pagina, a volte, erano figli di un brainstorming incontrollabile.

La mia prima collaborazione fu, a suo modo, straordinaria. Arrivavo dal Sudan. Ero stato in mezzo a un colpo di stato. Altri tempi, niente web, niente di niente. Un articolo scritto a mano. Atterrato a Roma mi precipitai alla redazione del Manifesto. Non conoscevo nessuno. Eppure trovai ascolto. Grazie a Guido e Maurizio, allora capi degli esteri del giornale. Smontarono le loro pagine e ci misero il mio reportage dal Sudan. Quale altro giornale lo avrebbe fatto? Il giorno dopo quell’articolo appariva anche in prima pagina. Quanto tempo, me ne accorgo ora.

Una volta Novella 2000, pubblicò una foto di Lilli Gruber nuda in Sardegna. Se ne stava al sole a leggere il Manifesto. Lei fece causa alla rivista. Io ho appeso quella foto in casa (è sepolta da mille altre): a quel che si capisce Lilli stava leggendo un mio articolo. Si possono raccontare anche queste cose?

Ecco, l’indifferenza se ne è andata. L’emozione è tornata. Improvvisa. Potente. Più forte della distrazione e disattenzione da eccesso di notizie. Da qualche giorno compro, con qualche esitazione, il mio giornale. Nell’edicola-drogheria del mio paese si vende solo questa copia. Ne arrivano tre, quattro.

Può la nostalgia essere la ragione per impedire la fine del Manifesto? Non conosco quasi più nessuno dei suoi redattori. Alcuni dei Grandi Vecchi se ne sono andati. Rossanda, settimane fa, a Firenze, interrogava: ‘Sarà anche vero che siamo il 99%, ma io vorrei sapere chi siamo?’. Già, un ragazzo di 18 anni oggi comprerebbe la prima copia (di carta) del Manifesto? In quell’assemblea fiorentina l’età media stava vicino ai 60 anni. Un giornale può dare davvero un senso di appartenenza a chi oggi ha vent’anni? Può essere uno degli strumenti di sapere del mondo? Non ho una risposta. Forse non voglio averla. Ma immagino ragazzi che ci sorprenderanno riuscendo a vendere il Manifesto in maniera imprevista. Un giornale che abbia gli occhi di questi ragazzi su mondo. Un giornale che varrà la pena avere come compagno dei giorni.

Luigi avrebbe tagliato questo articolo: è più di trenta righe. 
San Casciano in Val di Pesa, 12 febbraio

venerdì 10 febbraio 2012

Cartoline dall'Amiata/Montagna dello spirito

Piero ha scolpito il Budda in arenaria di Manciano


Mi raccontano della spiritualità di questo antico vulcano che ci prova a non assomigliare a un vulcano.
Ci devo credere.
Come al solito, metto in fila.

Apple e meditazione

Salgo a Merigar. ‘Terra di fuoco’. Comunità tibetana che è arrivata su questa montagna trent’anni fa. Qui insegna il maestro Chogyal Namkhai Norbu. Il vento afferra le bandierine colorate delle preghiere. Guardo lo stupa bianco che spicca nel verde-freddo di questa montagna. In un altro gar. Il maestro è in Argentina. E' estate laggiù.
Immagine perfetta: nel tempio della meditazione due ragazze (belle, dagli occhi dolci e saggi e la voce soffusa) stanno sedute dietro a un basso tavolino laccato. Tè, incensi e la mela morsicata di un Apple e i tasti veloci di un iPhone. Spiritualità e tecnologia appropriata. Un pc non avrebbe fatto lo stesso effetto. Marketing spirituale di Steve Jobs.

Il rifugio di David sul monte Labbro


Salgo al monte Labbro. Paesaggi strepitosi. Rifugio ed eremo delle comunità giurisdavidiche alla fine dell’800. David Lazzeretti predicava, senza saperlo, un cristianesimo egualitario e un vangelo messianico. I suoi fedeli erano contadini, pastori, artigiani, boscaioli. Costruì una torre nuragica in cima alla montagna. Proclamava: ‘La Repubblica è il regno di Dio’. Il suo mestiere era il barrocciaio. Scese in processione al suo paese attorniato da genti in abiti colorati e dodici fanciulle vestite di bianco. Un carabiniere gli sparò in faccia. L’Italia unita e la chiesa non potevano tollerare un profeta capace di parlare ai contadini. Nemmeno su una montagna lontana come l'Amiata. Un secolo dopo il suo paese gli dedica un museo. Cambiano i miti in cento anni. Leggo: ‘Davide era stato istruito, come gli antichi veggenti dagli spiriti in sogno. David, che noi chiamiamo santo’. Pochi vecchi professano ancora la sua fede e seguono i suoi insegnamenti. Al monte Labbro c’è un altare. Il suo segno, due C rovesciate con al centro la croce, viene ridisegnato ogni volta che si sbiadisce.

Segni sulla pietra a Roccalbegna

Le vecchie porta a Santa Fiora


Non hanno voluto seppellire David al cimitero del suo paese. Allora sta a Santa Fiora. Il luogo giusto. Non lontano dalla sua tomba, vi è quella di Ernesto Balducci, prete scolopio irrequieto. Ricordò quando morì: era andato, a settanta anni, a parlare in un incontro oltre l’Appennino. Non rifiutava mai un incontro. Quella volta non tornò. Quando parlava strizzava gli occhi e stringeva le mani. Figlio di minatori dell’Amiata. Figlio di una fatica immensa. Aveva fatto del sapere analfabeta dei suoi vecchi lo strumento indispensabile al suo sapere di uomo delle parole. Lo vedo lacerato qui a Santa Fiora: è finito il tempo delle miniere, di un lavoro infame, ma è anche finito il mondo di una straordinaria ricchezza umana. Mi piace che Ernesto sia sepolto accanto a David.

La Madonna nella pieve di Lamula

Luisa ci accompagna fino alla pieve di Lamula. Non so quanto sia consapevole quando spiega che questa chiesa sorta fra i castagni è un elogio dell’imperfezione. Che solo il demonio ama la perfezione. E per questo gli uomini costruirono una chiesa imperfetta. Non so se sia vero. Mi sorprende e mi piace pensare che abbia ragione. Nessuna delle otto colonne delle chiesa è uguale all’altra. Fuori c’è una fonte che è conosciuta come la ‘Diavolina’. Mondo a rovescio sull’Amiata. Amici milanesi ci provano a raccontarmi dei Templari passati anche per di qua. Io vorrei essere qui la domenica successiva alla Pasqua: giusto per vedere se è vero che i ragazzi regalano alle fidanzate un bastone con su piantato una pigna. E le ragazze contraccambiano con una ciambella. Lo spirito si fa allusione.
San Casciano in Val di Pesa, 10 febbraio

Sahara/La ribellione

La pista



Un uadi polveroso, raccontano, segna il confine fra Algeria e Mali a Ti-n-zaouatene. Da qui passa la pista che collega Tamanrasset a Kidal e poi a Gao, città tuareg del Nord del Mali. Il soldati dell’esercito maliano avrebbe cercato scampo in Algeria. Il posto di frontiera è in mano ai ribelli del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (così i tuareg chiamano le loro regioni in Mali). Da metà in gennaio, una nuova ribellione targhi scuote il Sahara maliano. Battaglie a Aguelhok, villaggio di nomadi a Nord di Kidal (una cinquantina di morti, assalto a una caserma dell’esercito maliano); a Menaka, all’est del paese, da sempre epicentro delle rivolte tuareg; a Niafounke, quasi a metà strada fra Mopti e Timbuctu, il paese natale del griot Alì Farka Tourè; perfino a Lerè, a occidente, ai confini con la Mauritania. E’ guerra civile, è ribellione armata.

A Sud del fiume Niger, i neri del Mali si vendicano sui tuareg che vivono nelle regioni saheliche del paese. Caccia ai tuareg a Kati e a Segou. In fuga la comunità targhi di Bamako (vi vivevano tremila tuareg). Si parla di trentamila profughi. Cercano scampo in Mauritania, in Burkina-Faso. Kidal, dicono, è assediata dai ribelli. La città è deserta. Vi sono solo i militari dell'esercito. Gli abitanti tuareg sono fuggiti. 

Tracce


Forse si tratta ad Algeri. Ma questa volta i tuareg non nascondono di aver la forza per reclamare ciò che sempre hanno voluto. L’indipendenza del loro deserto. Adesso la reclamano anche i più moderati. Chiedono la separazione dal Sud del Mali. C’è il precedente del Sud Sudan, 54esimo paese africano. In Mali è ‘Noi e Voi’. I ‘bianchi’ e i ‘neri’. Per decenni, il Nord del paese è stata terra negletta, abbandonata, miserabile. Non c'era futuro per i giovani nati negli accampamenti nomadi. Ora i tuareg hanno le armi. Hanno, probabilmente (e non solo loro), i Sam7 (ne sono scomparsi, dicono, ben 13mila dagli arsenali di Gheddafi). I bene informati dicono che molti aerei di linea diretti verso l'Africa del Sud hanno cambiato rotte e non sorvolano più i territori di Libia, Mali e Niger.

Il Nulla


Ecco, questa è una delle ripercussioni dirette della guerra civile di Libia, il sangue di Gheddafi sta ricadendo sulle sabbie del Sahara. Il vaso di Pandora oramai è stato sollevato. Armi su armi sono svanite nei deserti. Saranno usate. I tuareg che hanno combattuto a fianco di Gheddafi sono tornati in Mali. Ma sono arrivati anche i tuareg che avevano scelto di combattere con i ribelli di Bengasi: non si fidano più degli ‘arabi’, sono già delusi dai nuovi governanti di Tripoli. Ora i due gruppi possono trovare una guerra e una causa comune. I ragazzi tuareg non sono più cammellieri. C’è una gioventù che ha studiato alla testa della nuova ribellione. Hanno stretto alleanze con militari, ufficiali che hanno disertato dall’esercito maliano, altri che sono superstiti dalla scassata armata di Gheddafi. Alla guida dei ribelli dicono che ci sia Mohammed ag Najin, ex-ufficiale libico. Intesa anche con i ‘Seguaci della Religione’, islamisti di Iyad abu Ghali, ex- console del Mali a Geddah. I ribelli dichiarano ostilità contro al-Qaeda, presente in quei deserti (ha in mano, probabilmente, 17 ostaggi occidentali).

Vita in dserto


Il presidente del Mali, Amadou Toumani Tourè, tenta una disperata mediazione. Cerca, a parole, di fermare i pogrom anti-tuareg al Sud. Ma nessuno sembra credere ai suoi tentativi. Nessuno sembra credere più a niente in questo pezzo di Sahara. Ricostruire saggezza sarà difficile. Qualcuno dovrà farlo.
San Casciano in Val di Pesa, 10 febbraio







martedì 7 febbraio 2012

Paradosso Qatar/5


No, non è più in paradosso. Il Qatar è un paese potente.

Lo sceicco Hamed bin Khalifa al-Thani è apparso in mezzo a Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, e a Khaled Mesh’al, capo dell’ufficio politico di Hamas. Il Qatar, come esattamente cinque anni fa l’Arabia Saudita, è mediatore dell’accordo fra le due grandi forze palestinesi. L'intesa prevede un governo di transizione a Ramallah, presieduto da Abu Mazen. Nuove elezioni (forse) a maggio.

Mahmoud Abbas (da Terrasanta libera)
Lo sceicco Hamed bin Khalifa al Thani (da Qatar Football)
Il Qatar, paese conservatore, in prima fila nel mondo arabo con Gheddafi prima e Assad ora, convince il moderato Abu Mazen e il radicale Mesh’al a trovare l’ennesimo accordo. E il giorno prima, a Doha, era passato anche Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza. Promessi i soldi necessari alla ricostruzione della Striscia.
Khaled Mesh'al (da AtlasWeb)

Impossibile seguire tutti i passi della diplomazia di al-Thani. Ma tutto si tiene in Medioriente. Calcio, televisione e arte compresi.

E ieri sera sono andato a vedere un bel film libanese, E ora dove andiamo?, di Nadine Labaki. Resistenza al femminile contro la divisione fra cristiani e musulmani. Film inconsueto e coraggioso. Fra i produttori del film, il Doha Film Institute. 
7 febbraio 

lunedì 6 febbraio 2012

Cartoline dell'Amiata/2

La Peschiera di Santa Fiora
La neve ha sommerso l’Amiata, montagna di 1700 metri nel Sud della Toscana.
Le foto sono a dire che ne sono venuto via un giorno prima. E forse non sono stato fortunato. Forse avrei imparato molte cose sull’Italia e sulla montagna rimanendo lassù, saggiamente fermato dalla neve. Forse il fuoco in un camino e l’ospitalità mi avrebbero donato una imprevista felicità. 

Fino a giovedì scorso, inverno fino ad allora senza neve, solo Venerio, a Castel del Piano, teneva aperto il suo albergo da una stella.
Castel del Piano
Lui ha clientela affezionata. Operai transumanti, carabinieri, migranti dei boschi. Gente che qui lavora e che spende dieci euro per una cena buona e abbondante.
Gli agriturismi da cinque stelle, invece, tengono chiuso. Aspettano pavidamente tempi migliori. Svernano altrove. In questi mesi, persino il maestro del buddismo tibetano, un uomo saggio dal sorriso gentile, che qui ha fondato templi e scuole, in questi mesi, se ne sta in Argentina. Eppure l'inverno, più dell'estate, è tempo di meditazione.
E’ bello e buio l’Amiata. Amato dagli astrofili perché questa è una terra senza luci. Poca gente, paesi che si rintanano nell’inverno. I cieli sono chiarissimi, la terra è color della notte.

Ma non solo le stelle si vedono sull'Amiata. Qui si capisce bene come sta cambiando l'Italia. Perché i paesi non conosco i trucchi delle città.


Una 'casa' nei boschi (Il giardino di Spoerri a Seggiano)
A Monticello Amiata, un quarto degli abitanti sono turchi e curdi (che, raccontano in paese, convivono bene assieme). Come dire: centotrenta persone su cinquecento. A scuola, dice il vicesindaco Franco Cherubini, su ventidue bambini solo cinque sono ‘italiani’. Il bello che anche gli altri sono italiani nel cuore e nella testa. E sono amiatini. Solo che i genitori hanno un passaporto diverso. Loro, i ragazzi tifano Italia quando la Nazionale scende in campo. E mangiano tortelli.

Ad Arcidosso, invece, ci sono gli indiani che aspettano il lavoro a giornata in piazza Indipendenza.  Qualcuno ha pensato bene di aprirci un fast-food di kebab.

A Castel Del Piano ci sono albanesi, slavi, moldavi. Loro lavorano nei boschi. Al ristorante mi serve una cameriera dell’Est. Oppure Khalid, un ragazzo marocchino. Al bar Italia si parlano lingue dell’Oriente europeo. Il bar Italia è conosciuto come ‘Farnesina’. Ecco, l’Italia vera e profonda.

A Monticello, nelle estati, ci si scambia cibo fra comunità diverse. Il Brunello, giù in valle, è coltivato da mani indiane e turche. Gente che poi viene a cercar casa vicino alla montagna perché gli affitti dei paesi dell’Amiata sono più bassi rispetto alla valle.

Al bar del Begname
L’antropologia autentica e superstite dell’Amiata è al bar Begname, incrocio di due strade verso Grosseto. Dicono che il vecchio sapesse che da lì sarebbe passata la strada e allora avrebbe trasformato il suo barroccio, fermo sulla mulattiera, in una osteria. Ha avuto ragione il vecchio Beniamino. Di strade oggi, davanti al suo bar, ne passano ben due. E là dentro uomini aspri parlano di caccia e lavoro. E bevono vino rosso da grandi bottiglioni. Ricordano viaggi di nozze di tre giorni a Venezia. Quaranta anni fa. Ilda, la figlia di Beniamino, 88 anni, è accigliata dietro il bancone. Ce l’ha con il governo Monti.

Da Corsini, invece, sul corso di Castel del Piano, a sera è ora di happy hour, aperitivi e bicchierini deliziosi di creme e semifreddi. Appaiono pattuglie di giovani dai vestiti griffati, dai jeans stretti e dalle sciarpe dai colori in tinta. E’ un altro popolo. Un altro mondo. Ma qui, sembra, che ci sia spazio per Corsini e Begname.

Roccalbegna
A Roccalbegna, un piccolo negozio di alimentari ha scaffali di raro biologico. Produzione austriaca. Ci trovo zenzero, gallette di riso, tisane, tahina, semi di lino e biscotti macrobiotici. Comunità tedesche abitano questi paesi. Il mercato cambia i costumi. La gente di montagna alza le spalle e si adatta senza farsi cambiare. Almeno per un po’. Tanto il cinghiale e i tortelli non mancano mai.

Ogni sera, a Santa Fiora, aprono due pub. Anche in pieno inverno. Birre eccellenti. Un ragazzo mi spiega di essere fuggito da Firenze: ‘Troppa confusione’. Ha convinto la sua donna e se ne è venuto fin qua e, assieme, hanno aperto un bar con immagine del bandito Tiburzi appeso alla parete. I banditi di ieri, eroi dell’immaginario dei giorni nostri. Cambia il mondo in un secolo. Le osterie dei minatori sono diventate pub. Ma hanno l’aria tranquilla e un buon vino della montagna.

Mi fanno notare che al cimitero di Santa Fiora sono sepolti David Lazzaretti, ribelle profeta ottocentesco, ed Ernesto Balducci, prete di un’altra ribellione nel '900.

Poi ci sono i cacciatori. In mimetica. Dalle pance immense. Vagano come marines su Suv infangati e, naturalmente, non hanno mai preso niente. Manifestano amicizia e complicità con i carabinieri. Hanno silenzi rumorosi.
L'edicola di Lucio

E Lucio, il giornalaio della piazza del palio di Castel del Piano, al mattino occupa panchine e marciapiedi. Disperde giornali e riviste. Riempie la sua edicola e lui sta fuori. Mi chiedo cosa accade quando si mette a piovere.  
Castel del Piano, 29 gennaio