domenica 12 febbraio 2012

I giorni del Manifesto


In coda al Tg3. Qualche giorno fa. ‘Liquidazione coatta amministrativa’ per il Manifesto. Cerco un’emozione, un sussulto. Confesso: non lo trovo. Vado in cucina, interpreto quell’annuncio senza aggettivi: ‘Chiude il Manifesto’. ‘Ho sentito’. Mi chiedo se questo significhi qualcosa per mia figlia che ha poco più di venti anni. Lei, da parte sua, sta in silenzio. Studia i meccanismi dell’economia. E scuote la testa con diffidenza.

Passano alcuni giorni. Amici di mail mi dicono: ‘Scrivi qualcosa delle tue storie al Manifesto’. A me non era venuto in mente. Hanno sfiorato un bottone che credevo introvabile. Già, nella mia biografia ci sono mesi passati al Manifesto. Una veloce estate passata a Roma a fare una sostituzione. Molti articoli. Un buon tempo. Ci sono amicizie, passioni, arrabbiature, litigi mai scoppiati e che forse dovevano scoppiare, complicità forti, intese. E amici che non ci sono più. Ma sono passati mille anni. Dico ancora, quando mi chiedono: ‘Ho collaborato al Manifesto. A volte accade ancora’. Ma non è vero. Non accade da anni. Sapevo che la redazione non è più in via Tomacelli (come l’ho amato, questo indirizzo), ma in una sconosciuta via Angelo Bargoni, 8. Mai stato là.

Comprai la prima copia del Manifesto. Questo dice la mia età. Per decenni, ogni mattina, ho comprato il Manifesto. Ogni giorno, anche quando il giornale non mi piaceva. Poi, come dice Norma, sono diventato un lettore senza fedeltà. Due, tre volte a settimana. A volte meno. Ma possiedo qualche azione (forse una) del giornale: la comprai con il primo stipendio di un altro giornale.



Eppure al Manifesto ho imparato. Una redazione di follia geniale. Il primo giorno che passai là dentro mi abbandonarono da solo a chiudere le pagine. La prima pagina. Erasmo era fuggito. Io non sapevo niente di tipografie. Mi trovai alle spalle un tipografo grande e grosso (a me appariva grande e grosso. E romano) che, taglierino in mano (allora si faceva così), mi chiedeva di tagliare un pezzo dalla Rossanda. Panico assoluto.

Scoprii che era vero che i titoli scoppiettanti della prima pagina, a volte, erano figli di un brainstorming incontrollabile.

La mia prima collaborazione fu, a suo modo, straordinaria. Arrivavo dal Sudan. Ero stato in mezzo a un colpo di stato. Altri tempi, niente web, niente di niente. Un articolo scritto a mano. Atterrato a Roma mi precipitai alla redazione del Manifesto. Non conoscevo nessuno. Eppure trovai ascolto. Grazie a Guido e Maurizio, allora capi degli esteri del giornale. Smontarono le loro pagine e ci misero il mio reportage dal Sudan. Quale altro giornale lo avrebbe fatto? Il giorno dopo quell’articolo appariva anche in prima pagina. Quanto tempo, me ne accorgo ora.

Una volta Novella 2000, pubblicò una foto di Lilli Gruber nuda in Sardegna. Se ne stava al sole a leggere il Manifesto. Lei fece causa alla rivista. Io ho appeso quella foto in casa (è sepolta da mille altre): a quel che si capisce Lilli stava leggendo un mio articolo. Si possono raccontare anche queste cose?

Ecco, l’indifferenza se ne è andata. L’emozione è tornata. Improvvisa. Potente. Più forte della distrazione e disattenzione da eccesso di notizie. Da qualche giorno compro, con qualche esitazione, il mio giornale. Nell’edicola-drogheria del mio paese si vende solo questa copia. Ne arrivano tre, quattro.

Può la nostalgia essere la ragione per impedire la fine del Manifesto? Non conosco quasi più nessuno dei suoi redattori. Alcuni dei Grandi Vecchi se ne sono andati. Rossanda, settimane fa, a Firenze, interrogava: ‘Sarà anche vero che siamo il 99%, ma io vorrei sapere chi siamo?’. Già, un ragazzo di 18 anni oggi comprerebbe la prima copia (di carta) del Manifesto? In quell’assemblea fiorentina l’età media stava vicino ai 60 anni. Un giornale può dare davvero un senso di appartenenza a chi oggi ha vent’anni? Può essere uno degli strumenti di sapere del mondo? Non ho una risposta. Forse non voglio averla. Ma immagino ragazzi che ci sorprenderanno riuscendo a vendere il Manifesto in maniera imprevista. Un giornale che abbia gli occhi di questi ragazzi su mondo. Un giornale che varrà la pena avere come compagno dei giorni.

Luigi avrebbe tagliato questo articolo: è più di trenta righe. 
San Casciano in Val di Pesa, 12 febbraio

1 commento:

  1. Ma lei non si vergogna di aver scritto per un giornale che puntava a portare il comunismo in Italia? Roba da corte marziale o - meglio - da Gulag

    RispondiElimina