martedì 3 maggio 2011

Primavera a Torino. Letture in cerchio. La guerra



Ieri sera, in un luogo aperto (due grandi vetrate davano su una strada. Non è passata molta gente) una dozzina di persone, sedute in cerchio, attorno a dei libri hanno cercato di parlare di guerra, in un giorno particolare (l’uccisione di Osama bin Laden, l’uccisione di Saif al-Arab, la morte di due ‘nemici’). Ero fra queste poche persone. Le parole, dette e lette, hanno scavato sotto le superfici. Andrebbero approfondite. Fino all’ossessione. La guerra è la nostra (nostra di chi?) norma. Uno dei nostri specchi. Noi, europei, siamo fortunati a vivere una generazione senza guerra sul nostro territorio, ma siamo circondati dalle guerre combattute, e che andiamo a combattere, altrove. So che oggi dimenticherò quanto detto ieri sera. Passerò a un altro lavoro. Prenderò un treno. Volevo almeno che qualche frammento rimanesse appeso da qualche parte.
Ieri sera sono venute fuori alcune parole-chiave sulla guerra. E alcune di loro sono inconfessabili in un radioso mattino di primavera.

Adrenalina.
Sulla parete delle scale della mia casa, vi è una foto scattata molti anni fa. Mi ritrae mentre prendo appunti accanto a tre kalashinkov appoggiati uno all’altro. Penso che quella foto mi piace perché è ‘ambientata’ in una guerra. Perché mi mostra ‘guerriero’. Dà ‘soddisfazione’ essere lì. Con quei fucili a un metro di distanza.
Ecco, la guerra è anche questo: adrenalina. Avete mai provato ad avere in mano un kalashinikov? Avete provato il senso di onnipotenza che trasmette al vostro corpo? Diventa una estensione della vostra mente sovraeccitata. Non voglio immaginare cosa voglia dire sparare, a raffica, con un Ak47. Deve far sentire padroni del mondo.
A rovescio: Henry Fonda, lo spietato assassino Henry Fonda, siede, per un attimo, dietro alla scrivania del suo datore di lavoro, il potente padrone della ferrovia in costruzione fra la costa atlantica e quella del Pacifico negli Stati Uniti. Il film è ‘C’era una volta il West’. L’uomo delle ferrovie chiede, in un rantolo, a Henry Fonda: ‘Come ci si sente’ seduti su quella poltrona. Lui risponde a voce bassa, senza alzare gli occhi: ‘E’ come impugnare una pistola’.

Monotonia.
Ma la guerre sembrano non finire mai. Durano anni. Sempre più raramente sono blitz. Nemmeno l’immensa supremazia occidentale riesce ad aver ragione dei talebani afghani. Nelle guerre ci si impantana. Dalla Somalia si scappa per evitare di affogare nella palude. Le altre guerre si dimenticano. La guerra non è solo azione. Sono turni di guardia, notti senza fine, buche da scavare (anche negli anni Duemila), spazi ristretti da condividere, sudore, sabbia, polvere negli occhi, attesa, il niente. La guerra è monotonia. Noia. Lo ha raccontato bene Tim Hetherington, il fotografo ucciso in questa primavera a Misurata. Il suo documentario Restapo narra i giorni in un avamposto in Afghanistan (guerra noiosa): i giorni scorrono uguali uno all’altro. La monotonia si alterna all’ostilità di un paesaggio. Agli spari improvvisi. Quel gruppo di uomini non sa come passare il tempo. Immaginate marines dell’America profonda in una terra nemica. Non c’è nemmeno il bar dove andare a ubriacarsi.
La guerra in Libia rischia di finire nel fastidio. Nella noia. Doveva durare una settimana, va avanti da quasi tre mesi. Non è monotonia dei soldati occidentali che, ipocriti e asettici, combattono come se giocassero a un vidoegame. E’ assuefazione infastidita per noi spettatori (noi, chi?). Una notizia che non è più tale. Quante centinaia di missioni ha fatto la Nato oggi (missioni per colpire cosa? Devono aver già bombardato tutto o davvero credete nella potenza militare di Gheddafi?)? La guerra di Libia è una zanzara nel giardino di questa primavera. 





Festa
Che Dio mi perdoni, ma la guerra è festa. Lo aveva già intuito, nel 1938, vigilia della seconda guerra mondiale, Virginia Woolf: ‘Gli uomini amano la guerra. Un po’ di gloria, una certa necessità e qualche soddisfazione’. Michele Nardelli, ricercatore trentino, incontra giovani bosniaci lungo il confine della guerra dei Balcani e annota nel suo diario di aver trovato: ‘Un’euforia cameratesca e insieme nichilista, di semplice identificazione nell’impazzimento collettivo di cacciare il nemico….’.  Nardelli scopre un filosofo colombiano, Stanislao Zuleta, un uomo che ha il coraggio di non tacere l’inconfessabile: ‘La guerra è festa. Festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli, dell’individuo finalmente sciolto in essa e liberato dalla sua solitudine, dalla sua particolarità e dai suoi interessi, capace di dare tutto, perfino la sua vita. Festa del potersi approvare senza remore e senza dubbi di fronte al perverso nemico, di credere stoltamente di avere ragione e di credere ancora più stoltamente che possiamo testimoniare la verità con il nostro sangue’.

Identità
Paolo Rumiz, giornalista triestino, racconta nella prima pagina di ‘Maschere per un massacro’, uno dei libri che ci permise (permise a chi?) di conoscere la realtà delle guerre balcaniche, la morte del contadino serbo Gojko Petrovic. Nella sua cantina, i miliziani serbi di Arkan, avevano trovato nascosti cinque musulmani. Quegli assassini in nome di Dio non potevano crederci. Vollero essere sicuri che Gojko fosse un serbo. Gli fecero calare i pantaloni. Lo osservarono da vicino. Non era circonciso. Drago, il capo di quella banda, urlò: ‘Ma come cazzo fa un cristiano a proteggere gli infedeli?’. Battè il calcio del fucile per terra e sparò una raffica uccidendo Gojko. Per conoscere la sua identità aveva dovuto fargli abbassare le mutande. Una identità che non lo salvò. Quel contadino aveva cercato di proteggere i ‘diversi’, gli ‘altri’. 

Non l’ho mai fatto, ma mi piacerebbe che questa discussione non si arenasse. Che potesse venir fuori un pensiero collettivo sulla guerra. Un guardarla senza abbassare la testa.
Per prepararmi all’incontro di Torino ho letto il piccolo, estremo libro di Susan Sontag (Davanti al dolore degli altri). Ne sono rimasto avvolto (dimenticherò anche questo). Ho pensato che lei ha ragione. Adesso, grazie a Susan, anche io ‘so’. Il problema è: ‘E ora che so?’.

L’incontro sulla Guerra è una delle dieci ‘letture in cerchio’ organizzate allo Spazio Opi di Torino dall’Associazione Culturale Compagnia Marco Gobetti. Andateci, se potete: http://pagineattorno.wordpress.com   

3 commenti:

  1. la guerra è spettacolo, oltre che noia, festa e adrenalina..Ho letto adesso che la notte del blitz nel covo di Osama Bin Laden il Presidente degli Stati Uniti poteva vedere attimo per attimo la sequenza del blitz, grazie ad una telecamera posizionata sulla testa di un soldato che partecipava all'azione...mi sono venuti i brividi al pensiero, e mi sono chiesta cosa ha provato Obama mentre osservava tutto quanto, probabilmente dalla stanza ovale, attorniato dai suoi collaboratori..questa è la nuova guerra, proprio come dicevi tu Andrea l'altra sera..

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  2. e che dire delle guerre individuali dentro e fuori di noi?
    grazie per gli spunti di riflessione che ogni volta mi provochi
    Annarita

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  3. Grazie, ragazze. Io non sono un buon blogger. Sono lento. Non so cosa sto facendo. Ho semplicemente voglia di non perdere alcuni frammenti della mia vita. Annarita, i miei amici musulmani mi spiegano che jihad significa proprio questo: la guerra che dobbiamo combattere dentro di noi...chissà chi di 'noi' vincerà.
    Hai ragione Isabella, la guerra è 'spettacolo'. Possiamo provare a lavorare a un vocabolario delle parole chiave della guerra. Per capire. Per capire noi.
    Grazie spero di rispondere con più rapidità. Mi dicono che una caratteristica del blog è la velocità. Io, invece, sto pensando, grazie all'idea di un'amica, a un Gas delle Notizie...o dei Giornalisti...

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