Stefano, 24 maggio 1993. Al voto al referendum sull'indipendenza dell'Eritrea (foto Mario Boccia) |
24 maggio 1991. I partigiani della più lunga guerra di liberazione africana entrano ad Asmara. Era accaduto l'impossibile: un piccolo paese aveva vinto la sua libertà. Contro tutto e contro tutti.
Questa storia non è finita bene. L'illusione della pace e di una nuova Africa è svanita in pochi anni. Oggi l'Eritrea ci appare come un paese cupo. Dove i fratelli uccidono i fratelli. E da dove i giovani fuggono in cerca di quella libertà per la quale i loro padri avevano lottato.
Non di questo voglio parlare. Oggi, vent'anni dopo un giorno di felicità immensa per noi che avevamo seguito la storie di quella guerra, voglio ricordare Stefano Poscia, il giornalista che meglio di altri seppe raccontare quel paese e il suo popolo.
Lo faccio con le foto che scattò, nel 1993, in un altro giorno di maggio, Mario Boccia. A Stefano era stato riconosciuto un grande onore: il governo della nuova Eritrea gli aveva riconosciuto la cittadinanza di quel paese per il quale Stefano aveva tanto dato: aveva il diritto di votare al referendum per 'indipendenza del suo paese.
Avevo scritto queste parole un mese dopo la morte di Stefano. Ero in Argentina e fu un'amica comune ad avvertirmi. Questa pagina è stata pubblicata, purtroppo solo come lettera. dalla rivista Nigrizia.
Sono già passati molti mesi da quando è morto Stefano Poscia. Io l’ho saputo molte settimane dopo. Non sapevo nemmeno che era malato da un anno. Un’amica degli anni dell’Eritrea mi ha scritto da lontano: ‘Una brutta notizia….’. E solo allora mi sono accorto che erano dieci anni che non ci vedevamo. L’ultima volta fu, naturalmente, ad Asmara. Nel 2000. Stefano era stato inviato dall’Ansa nel ‘suo’ paese (ne aveva la cittadinanza. Aveva votato al referendum per l’indipendenza nel 1993) e io ero un giornalista senza giornale, intruso nel tragico finale di una speranza africana (si combatteva allora la più stupida e oscena delle guerre, ancora una volta fra Etiopia ed Eritrea).
(foto di Mario Boccia) |
Un’amicizia può sfidare il tempo e le assenze? Bruna mi ha scritto dal Sudan mentre ero in Argentina e nemmeno sapevo che Stefano, negli ultimi tempi, era il responsabile Ansa da Buenos Aires, per il Latinoamerica. Quanto tempo, davvero. Eppure c’è, c’è sempre stata, una sorta di patto di fratellanza fra coloro che hanno avuto la ventura di vivere gli anni duri della guerra di liberazione dell’Eritrea e quelli entusiasmanti della sua prima libertà. Stefano era ‘diverso’ da tutti noi che cercavamo di raccontare l’Eritrea rimanendo al riparo del nostro mestiere. Lui aveva vissuto in quel paese, aveva trascorso mesi e mesi, in tempi difficili, nelle regione liberate, nelle montagne dei partigiani. Aveva studiato, con il suo puntiglio spigoloso, la lingua (parlava perfettamente il tigrino). Ricordo benissimo, nella Nigrizia diretta da Alex Zanotelli, il suo prezioso dossier su quella guerra di cui nessuno voleva né parlare, né sapere (fu questa nostra rivista a spezzare il silenzio che accerchiava gli eritrei). Stefano, in quei mesi lontani, scrisse anche il libro (‘Eritrea, colonia tradita’, Edizioni Associate, 1989) che, per tutti noi, divenne il riferimento indispensabile per conoscere quel paese, quella gente e la loro lotta disperata. Stefano era stato generoso: a ognuno di noi, a suo modo, sapeva dare il consiglio giusto per come muoversi nel paese, sapeva dare il contatto che cercavamo, dava le tracce della pista da seguire. E’ stato un giornalista ‘bianco’ che ha saputo raccontare, con la sua precisione orgogliosa (aveva un carattere simile a quello dei migliori eritrei: gente testarda, cocciuta, profonda), la storia di un popolo africano. Non è da tutti, a pochissimi è riuscito. Perché, in Africa, bisognerebbe essere capaci di cambiare i nostri ‘punti di vista’ e quasi mai ci si riesce. A Stefano, credo che sia riuscito.
Due ricordi: anni ’80, seduto a un tavolo della Fondazione Basso, Stefano, elegante come sempre, correggva le bozze del suo libro. Deve aver fatto ammattire gli editori: c’era sempre una correzione, un precisione da fare. Un’altra immagine: un ristorante di Atene, un convegno internazionale, Stefano è seduto al tavolo con Andemichael Khasai e, con un’espressione felice, parla, parla (lui sempre molto silenzioso) con quell’eritreo alto e attento. Una conversazione in tigrino. Andemichael (diverrà sindaco di Asmara dopo la liberazione, anche lui non c’è più) lo guarda e con un alzata di sopracciglio (gesto tipico di un eritreo) dice: ‘Sei bravo, Stefano’.
Ad Asmara, in quell’orribile anno 2000, ci incontrammo sulla porta di un albergo. Era bello rivedersi anche se quegli erano giorni di dolore per un sogno che si spezzava. Stefano era inquieto, lui, più di noi, sapeva cosa stava accadendo fra i vecchi compagni della guerra di liberazione. Ma ricordo benissimo che Stefano mi salutò offrendomi la sua spalla, il saluto degli eritrei. Lo fece con naturalezza. E io non ero eritreo. Per me fu un segno di complicità. Di cui solo ora, troppo tardi, voglio ringraziarti.
Scritto a Cordoba, molti mesi fa.
Nessun commento:
Posta un commento