Bethlehem |
Il Baby Caritas Hospital (82 posti letto, trentacinquemila
visite ambulatoriali ogni anno, più di quattromila ricoveri e il giorno in cui
sono passato 123 visite e quattro emergenze) è l’unico ospedale pediatrico di
Palestina. Il solo che offra gratuitamente la sua assistenza (14 medici, due
reparti di pediatria, uno di neonatologia, 220 dipendenti
fra infermiere e collaboratori) a chi (il 95% di chi ne ha bisogno) non può
sostenere i costi di una visita o di un ricovero. Negli altri ventiquattro
ospedali pubblici dei Territori Palestinesi (come nelle cliniche private) ogni
cura è a pagamento. Critica, in modo particolare, è la situazione dei bambini: qui
la mortalità infantile è cinque volte più elevata di quella italiana.
Il reparto principale del Baby Caritas |
Ma, prima di parlare del Baby Hospital, bisogna pur arrivarci.
E, da dieci anni, il breve viaggio, otto chilometri, fra Gerusalemme e
Bethlehem, è un batticuore. Vi sono stati periodi nei quali era impossibile. Niente
è facile in Israele e Palestina. In mezzo fra le due città sante, c’è il Muro.
Qui è alto otto metri e il check-point numero 300 è, dal lato palestinese, un
corridoio di inferriate. L’ospedale è a meno di duecento metri dal Muro. Il suo
cemento chiude ogni orizzonte verso Occidente. All’alba il check-point si
intasa di lavoratori palestinesi (cinquemila, calcolano gli osservatori del World
Council of Churches), almeno di quelli che hanno un permesso per uscire dai
Territori. Aspettano ore per poter passare controlli snervanti ed essere in
prima fila quando caporali di
costruttori edili verranno a prelevarli sui marciapiedi di Gilo, sobborgo
(quartiere ebraico? Colonia illegale?) di Gerusalemme. Dal grande terrazzo
della casa delle suore il panorama vola sulla Palestina. Un reticolato
accerchia Bethlehem. L’insediamento di ar Homa, ‘la montagna del muro’ occupa,
come un villaggio fortificato la collina di Abu Ghnein. Per Israele è il
confine orientale di Gerusalemme, per i palestinesi è una colonia in terre
occupate.
Il Muro a Bethlehem |
Il Muro non è solo un brutale confine militare. E’ una
minaccia quotidiana. Il Baby Hospital non ha un reparto di chirurgia. I suoi
fondatori ben sapevano che a soli otto chilometri ci sono gli ospedali di
Gerusalemme: le emergenze (crisi cardiologiche, interventi di urgenza) venivano
dirottate verso di loro. Non potevano immaginare che qualcuno avrebbe strappato
la geografia e diviso le due città. I check-point hanno trasformato la salvezza
di un bambino in un impietoso groviglio politico: l’esercito deve acconsentire
al transito delle ambulanze, deve indagare sui familiari del bambino, deve
assicurarsi che non siano un ‘pericolo per la sicurezza di Israele’. ‘Ora va
meglio: in sette ore riusciamo ad avere i permessi necessari’, mi dice Donatella
Tella Lessio, 52 anni, una delle
suore che gestiscono questo ospedale. In passato potevano passare giorni.
L’ambulanza palestinese non può varcare il check-point, il bambino deve essere
trasferito su un mezzo israeliano. Con addosso l’apprensione di perdere tempo
prezioso. E ancora: nessun medico israeliano (e ce ne sono di disponibili) può
venire a Betlemme per consulti, visite o incontri. Lo vietano le leggi militari. Un cartello rosso avverte che un israeliano rischia la vita a
Bethlehem e commette un reato.
Ci vuole spirito forte per sopravvivere in Palestina.
Andiamo a piedi verso l’ospedale: il Muro qui si attorciglia, si prende la
Tomba di Rachele, accerchia le case come se fosse un serpente immenso. Mi
spiegano che il territorio di Bethlehem si è ridotto da 40 chilometri quadrati
a poco più di tre. I coloni israeliani si sono insediati anche dentro i confini
della città. A luglio, a meno di una decisione contraria della Corte Suprema
israeliana, Bethlehem e i suoi sobborghi (i due paesi di Beit Jala e Beit
Sahour. Nel recinto di Bethlelem vivono 75mila persone) saranno del tutto accerchiati. La
sola via di uscita sarà il check-point numero 300. La bella valle di Cremisan,
questa è la minaccia, rischia di rimanere ‘al di là’ del Muro. In Israele-Palestina
c’è sempre un ‘al di là’ e un ‘al di qua’.
I contadini del Sud della Palestina
non potranno più portare la loro uva alle cantine del convento salesiano di
Cremisan. Il destino del celebre vino di questo monastero sarà nelle mani dei
militari israeliani. Cinquantotto famiglie di Beit Jala saranno separate dai
loro oliveti. Non si potrà né entrare, né uscire senza autorizzazione, uomini e
donne dovranno subire l’umiliazione dei fucili dei soldati al check-point. Per
capirsi: con l’assedio militare, la disoccupazione Betlehem è salita fino al
70%. Il reddito medio di metà dei nuclei familiari (almeno sette persone) è di
270 euro al mese. Si vive di sussidi, di aiuti. Un terzo dei ragazzi sta
cercando di emigrare: non vedono futuro nella loro terra. I cristiani fuggono
da questa città. Sono circa 14mila, hanno parenti all’estero, vogliono
andarsene. ‘La nostra caposala se ne è andata – dice suor Donatella – Non c’è
futuro per i loro figli’. Ci vuole davvero il privilegio dell’ironia per
sopravvivere in Palestina: il Muro, nei pochi passi verso il Baby Hospital, è
diventato la tela in cemento di writers,
artisti di strada, graffitari, bravi disegnatori. E persino spazio
pubblicitario: il Bahamas Restaurant ha cambiato nome, ora si chiama The Wall
Restaurant. E ha dipinto un grande rettangolo bianco sul cemento del Muro che
si alza a cinque metri dalla sua veranda. Ben si capisce: a giugno vi sono i
mondiali di calcio.
L’ospedale è gestito con sapere e passione. E’ un’eccellenza
sanitaria. Le stanze per i bambini ricoverati sono sistemate a semicerchio.
Spazi a vista. Tutto è sotto controllo. Saliamo al reparto di neonatologia. Si
sta costruendo uno spazio per i giochi. Il Baby Hospital non è un semplice
luogo di soccorso e di cura. Qui le madri ricevono insegnamenti preziosi per
prevenire le malattie. Funziona una scuola per infermiere. Ci sono più di
centomila bambini, in età inferiore ai quattro anni, fra Betlemme e il Sud
della Palestina. Le famiglie di Hebron, fino a quando il Muro non verrà
sigillato, portano qui i loro figli ammalati. Pochi, pochissimi, complice
l’occupazione militare, riescono ad arrivare dal Nord dei Territori. Durante la
guerra a Gaza, il Baby Hospital offrì disponibilità di trenta posti letto, ma
nessuno bambino riuscì a varcare i fili spinati che chiudono quel territorio.
Trascorro una mattina intera fra i due reparti
dell’ospedale. Sfioro la vita: bambini prematuri si battono come leoni, al
caldo delle incubatrici, per sopravvivere. Non è la prima volta che vengo qui:
ricordo Nasser, aveva sette anni quando lo incontrai e aveva
subito 103 ricoveri. Malattia da consanguineità. Ho conosciuto Bachir. Aveva
già 17 anni e non avrebbe dovuto essere qui, dove il limite di età è 14 anni.
Ma lui era sempre vissuto al Baby Hospital. Non poteva crescere. E’ morto. Ma
ricordo il suo sorriso felice di fronte alla meraviglia di una lattina di
Coca-cola. Mahammud morì pochi giorno dopo che me ne ero andato. Aveva sofferto
per dieci mesi. Quella sera Donatella mi scrisse: ‘Ieri pomeriggio alle 18 è
morto Mahammud! Ha consegnato, pagato al mondo, alla storia, la sua parte di
dieci mesi di sofferenza! Il debito (?) è stato saldato! Ora è nella pace e
questo mi consola anche se piango’. Come avrei voluto piangere assieme a
Donatella. Rileggo le sue parole e vorrei essere lì, a guardare le colline di
Palestina. Dovrebbe essere arrivata la primavera.
Suor Donatella Lessio |
Il Muro, l’occupazione della Palestina, hanno rinchiuso gli
abitanti di Bethlehem, di Hebron, della West Bank in una grande prigione.
Qualche anno fa, la tradizione che imponeva matrimoni all’interno delle
famiglie aveva cominciato a incrinarsi. I ragazzi si incontravano con più
libertà. Si cercava di allentare le catene dei clan familiari. Il Muro ha
richiuso quegli spiragli. Ha tolto aria. Ha serrato nuovamente le manette. Provocato
claustrofobia. Sta asfissiando le donne, i giovani. Ci si sposa fra cugini
perché così vuole la legge del clan. Ma è quasi impossibile fra altrimenti: non si può più andare altrove a cercare
un altro amore. A volte, ne nascono figli malati e condannati. Si diffonde la sindrome
di down. Le famiglie si spezzano e affondano in tragedie consumate in silenzio.
Al Baby Hospital arrivano i bambini che non si
possono più nascondere nelle case. E poi ci sono le malattie della povertà. Il
freddo, in inverno, brucia i polmoni. In estate sono le infezioni che svuotano
di ogni energia i più piccoli. A volte arrivano in ospedale solo quando sono
pelle e ossa. Un giorno si dovrà pur studiare il rapporto stretto fra
l’occupazione militare e la salute della gente di Palestina.
Cammino ancora una volta fra i reparti dell’ospedale. Ci
sono i tubicini che escono dai nasi, graffi di cerotti, cannule infilate nel
dorso della mano. Occhi che reclamano con forza il diritto alla vita. E’ la normalità
della malattia. In mezzo ai giochi dei bambini. All’andirivieni esperto e
instancabile, spesso frenetico, delle infermiere (nessuna con il velo: rimane
fuori dalla porta anche per chi lo indossa per le strade di Betlhehem), dei
medici. Ci sono i passi silenziosi dei genitori. Le madri che cercano di
sorridere. Un padre che tiene la mano del figlio. Conosco la fatica e i dubbi
di Donatella, ma sono nascosti dentro di lei quando attraversa, con mille
attenzioni, i due reparti dell’ospedale. Il sorriso dei suoi occhi è un
contagio benefico.
Il graffito del Baby Caritas sul Muro |
Faccio il cronista: non posso dimenticare i numeri. Questo
ospedale costa quasi nove milioni di euro ogni anno. Somma, al 95%, coperta da
donazioni. Ogni bambino costa 800 shequel al giorno, 160 dollari. A chi può viene chiesto un contributo. Un centinaio di shequel al giorno. In questi
mesi stanno nascendo nuovi padiglioni. Finalmente ci sarà una grande sala
giochi. L’ospedale non è solo la salute dei bambini: il Baby Caritas è
economia. Per numero di dipendenti, questa è, dopo l’Università, la seconda
azienda di Betlhehem. Le infermiere che qui lavorano hanno salari da novecento dollari al mese. Se hai figli e tuo marito non lavoro, non bastano per vivere. Nemmeno a Bethlehem. Ma queste sono donne specializzate che, in altri ospedali, sarebbero pagate
400 dollari in meno. Si capisce che, in molte, vorrebbero poter lavorare qui. Qui
i figli dei dipendenti hanno uno splendido asilo. In estate, le infermiere
vengono a farsi la doccia quando a casa manca l’acqua (i problemi del conflitto
e dell’occupazione sono queste storie di vita quotidiana). Questo ospedale è
vita, società, comunità. Esco dai reparti. La luce di Palestina ha la bellezza
del Mediterraneo. Quasi acceca.
Banksi a Bethlehem |
Il Baby Caritas, mi raccontano, è figlio di una notte di
Natale. E’ quasi una piccola leggenda, risale al 1952: Ernst Schnydrig, un
prete vallese, figlio di contadini, era a Betlhehem in quelle ore sacre per i
cristiani. Non so se raggiunse la chiesa della Natività per la messa di
mezzanotte: faceva molto freddo e fra le tende dei profughi palestinesi,
fuggiti dalla prima guerra arabo-israeliana del 1948, il giovane sacerdote
intravide un uomo scavare la fossa per suo figlio. Il bambino era morto di
freddo, di fame, di stenti. Morto nelle stesse ore in cui nasceva Gesù.
Schydring non ebbe più pace: convinse medici palestinesi, trovò appoggio di
volontari svizzeri, affittò due stanze, comprò lettini e culle. Quattordici
bambini trovarono soccorso e cura in questo primo ospedale improvvisato. Il
lavoro di Schydring fu tenace: convinse le Caritas di Svizzera e Germania a
sostenere i suoi progetti, trovò donatori, organizzò i medici, fondò la scuola
per le infermiere, avviò programmi di medicina preventiva. Ernst morì nel 1978.
Pochi mesi prima dell’inaugurazione del nuovo ospedale.
Ora, lontano da Bethlehem, lontano dalla vita (la gioia, il dolore) di questo ospedale, mi torna in mente Nasser. E riaffiora un’altra storia.
Avvenuta anni fa. Ne sono passati già sette da quanto mi fu raccontata. E,
ancora una volta, accadde a Natale. L’inverno del 2007 era gelido. L’ospedale era
pieno. Per mesi la madre di Nasser, disperata, aveva parlato con Donatella. Non
voleva un nuovo figlio. Aveva paura della malattia che minava quelli che erano già
nati. Le due donne, una musulmana e una suora cattolica, pregarono assieme. La
preghiera come conforto, appiglio, speranza. Se nelle ore del Natale del 1952,
un bambino era stato sepolto; mezzo secolo dopo, nel 2007, in quello stesso
giorno, nacque la sorellina di Nasser. Il padre avrebbe voluto un maschio. Ma
quella bambina era sana. Scalpitò e pianse con tutta la forza che aveva. A
volte i miracoli avvengono. Perfino in Terra Santa.
Per approfondire
Nel 1963 nasce, in appoggio
al Baby Caritas Hospital, l’associazione Aiuto Bambini Betlemme. La sua sede
amministrativa è a Lucerna. La sede italiana è a Bussolengo, in provincia di
Verona. Tel. 045.7158475. www.aiuto-bambini-betlemme.it.
Bethlehem, 25 febbraio
Nessun commento:
Posta un commento