sabato 15 marzo 2014

Cronache da Gerusalemme.3/Check-point numero 300

Su un muro di Beit Jala

Sherut 24 per Bethlehem. Ma il minibus, da Gerusalemme, non potrà raggiungere la città della ‘Casa del Pane’. Va dalla Porta di Damasco fino al check-point numero 300. Sette chilometri. Fa freddo. Il grigio del cemento del Muro (qui si usa la maiuscola per scriverlo) chiude ogni orizzonte. Passaggio facile per uno straniero. Nessun controllo. Si passa per tornielli. Il soldato, con il suo fucile a tracolla, non ci degna di uno sguardo. E’ un terminal tecnologico. Chiamano 'terminal', un check-point. Ti seguono passo passo, ma tu non vedi loro. Infine cammini fra una cancellata e il muro. La prima volta, ti senti in una trappola. Poi ci fai l’abitudine.








Ecco, qui 'fai l'abitudine'. Per terra sono rimasti i bicchierini di carta di chi, questa mattina, ha atteso per passare il check-point. Bethlehem non può esistere senza Gerusalemme, ci dice Ibrahim, parroco a Beit Jala, sobborgo di Bethlehem. Ogni giorno, cinquemila palestinesi (calcolo degli osservatori del World Council of Churches) devono varcare il confine del Muro. I primi arrivano alle due. Il check-point apre alle quattro. Attesa di ore e ore. Con il caffè e la sigaretta in mano. Se sei fortunato sei fuori alle sei. Spesso rischi di non passare. Chi lavora da giornaliero ha fretta: se arriva per primo ha più possibilità di essere scelto per la giornata di lavoro da manovale. Dovranno rientrare a sera. Il check-point 300 è la sola via di uscita da Bethlehem per un palestinese. La città della Natività è una gabbia.

Davanti alla steak-house The Wall

Abitudine al Muro


Voglio conoscere il proprietario del ristorante Bahamas. Hanno costruito il Muro, davanti alla sua sala da pranzo. Gli hanno tolto qualunque panorama e lui, anni fa (il Muro, qui, esiste da dieci anni), ha scritto il menù sul cemento. Allora era conosciuto per il pesce e per i crostacei. Un artista, a fianco della lista di scampi e gamberi, aveva disegnato un meraviglioso e colossale cammello nero sulla tela del Muro. Ora deve essere cambiata gestione: adesso è una steak-house. E la gobba del cammello è stata cancellata da un grande rettangolo bianco. Peccato, ma questo è diventato uno schermo. Quest’anno ci sono mondiali. I tavoli sono già prenotati per godersi le partite sul maxi-schermo dipinto sul Muro. Ora il ristorante si chiama ‘The wall’. Insegna affissa sul Muro. Si sopravvive così in Palestina. Ironia. Si fa davvero l’abitudine e si è allentata perfino l’ossessione israeliana per la sicurezza: si può parcheggiare a fianco del Muro. Come se la sua esistenza fosse ‘normale’. Spazio per le auto. Meno per gli uomini.


Mercato al Muro


Il Muro alla Tomba di Rachele

L'insediamento di Ar Homa visto dalle colline di Bethlehem


‘Qui ti abitui a vivere senza ossigeno. Il Muro ti soffoca’, mi dicono a Bethlehem. Il panorama scivola su Ar Homa, grande insediamento sulla collina che fronteggia la città della Natività. E' al di là del Muro (qui c'è sempre un 'al di là' e un 'al di qua'). Centinaia di case che assomigliano a un castello fortificato. A una torre di Babele. Vi abitano 25mila israeliani. Viene descritto, dalle agenzie immobiliari, come il quartiere adatto per le giovani coppie. In realtà vengono a vivere fra queste architetture di cemento e guardie armate molti olim, gli immigrati più recenti in Israele. I palestinesi guardano questa follia e, allo straniero, non dicono niente. Si limitano ad indicartelo. Ar Homa, per Israele, è periferia orientale di Gerusalemme, un 'quartiere ebraico'. Per le Nazioni Unite è un insediamento in territorio occupato. Le sue costruzioni sono 'illegali'. Qui esiste un mondo reale e un'illusione. I prezzi delle case sono più bassi che a Gerusalemme. Per convincere a trasferirsi ad Ar Homa, le pagine promozionali raccontano di 'pittoresche passeggiate attorno alla collina'. 

Carta blu, carta verde (Foto di Vittore Buzzi)


A Beit Jala, incontro due palestinesi. Il loro destino è deciso dal colore dei loro documenti. Uno ha la carta blu, la blue ID, di Gerusalemme. Candelabro a sette braccia sulla copertina. Non può avere un passaporto. Non è cittadino di Israele, non è cittadino palestinese. E’ ‘residente’. Ha un passaporto temporaneo giordano e un lasciapassare israeliano. Nient’altro. Non sa chi è. Sono in duecentomila come lui. Abitanti di Gerusalemme Est. Hanno alcuni 'privilegi': possono viaggiare per Israele, uscire dal paese attraverso l'aeroporto di Lod, godono di assistenza medica e forme assicurative. Non possono votare per le elezioni politiche. 
La carta di identità dei palestinesi dei Territori, invece, è verde. Aquila palestinese stampigliata sopra. Con questo documento sei chiuso nella West Bank, a Bethlehem, a Hebron. Da Gerico o da Nablus non puoi andare a Gerusalemme. Puoi uscire da Betlehem (Israele ha bisogno di mano d’opera) se hai un permesso.
Se hai una carta d’identità verde, la tua patente palestinese e, perfino la patente internazionale, non vale niente. Un palestinese dei territori non può guidare un’auto (anche se la possiede con targa israeliana) in Israele.
Martedì 25 febbraio, Bethlehem


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