lunedì 11 marzo 2013

Diario di un viaggio imprevisto 4./Piove ai Caraibi


Le rocce di Baths


Piove sui Caraibi. Qualche coda di una tempesta tropicale. Le previsioni vanno a percentuali di possibilità. Al 60% pioverà tutto il giorno. Non ci credo, ma così mi dicono. Mi piace questa sensazione di freddo che non è tale.
Piove e il mondo si ferma. Cosa si fa ai Caraibi quando piove e sei qui in vacanza?
Quando sei nel recinto da bellezza perfetta di un’isola?
La televisione (l’unica televisione del resort, nel solo posto dove è consentita) è sintonizzata su un canale di Borsa. Che, dalla voce incomprensibile del conduttore, appare come un programma sportivo. Boati quando appare la quotazione di un titolo o lo stato di un indice.
Ci sono due computer collettivi. E allora si leggono le mail lasciate a casa.
E poi?

Il parco del resort


L’isola appare deserta. Il resort appare deserto. Eppure so che è pieno. Nessuno in spiaggia. Nessuno lungo i vialetti. Nessuno. Solo la gente che qui lavora si ostina ad andare avanti e indietro. Stuolo di giardinieri per i prati. Stuolo di ‘disegnatori’ della spiaggia a livellare ogni imperfezione del bagnoasciuga.

La foglia caduta


Questa volta chiedo e così un nero di Giamaica, con bei denti in fuori, mi spiega: al livello più basso, un lavoratore del resort ha un salario di quattro dollari all’ora. Al più alto, può arrivare a otto. Non oso chiedere tipologie di contratti. Ma, a parlare con i manager, i sindacati qua hanno una loro strana forza. Si vive sull’isola con questi soldi? Sì, mi dice il mio driver. Ma non ho la libertà che ho nella mia terra. Già, qua incontro neri di Trinidad, di Santa Licia, di Giamaica, di Tobago…migrazione caraibica. Verso l’arcipelago in cui c’è lavoro.

La spa


Primo massaggio della mia vita. Una ragazza di Bali. Ricordo Bali, mille anni fa. In motoretta. E le ragazze che ti offrivano massage e poi ti scartavano perché troppo giovane.
Mi spoglio, mi metto sotto il lenzuolo, sto a faccia in giù. Non capisco come sia messa la ragazza di Bali. Non so da dove arrivano le sue mani. Mi sembra che abbia mille mani. Che sia dovunque. Dà un piccolo tocco, quasi un avvertimento e poi sento che corre in ogni angolo della mia schiena. E’ meticolosa, la ragazza. Ma ci mette calore, passione, silenzio. Il mio corpo si fa scivoloso. E’ una dimensione a parte. Sono altrove. O, forse, semplicemente, mi sono addormentato. Fino a quando non mi gira e mi benda gli occhi. Non bisogna vedere, capisco questo. Gli occhi distraggono. Adesso so che sta lavorando sulle cosce, sui piedi, sulle gambe. Continuo a non capire quante mani abbia.
Ogni cosa ha una sua fine. Avverto un peso sulla mia pancia. E’ il mio accappatoio che ha poggiato lì. Mi toglie la benda dagli occhi. Mi indica un bicchiere d’acqua. Guardo fuori. Il mare. Non so dove sono. Bevo un sorso. Mi accompagna fino a un terrazzino. Mi lascia lì. Sono in imbarazzo. Mi siedo su una sdraio. Non so cosa fare. Non afferro un solo pensiero. Solo che vorrei essere altrove. Solo che vorrei essere qui. E’ una condanna, questa. E io non vorrei scrivere queste righe. Saluto la ragazza di Bali senza vederla più. Ha già un altro cliente. Un ragazzo giovane. Con l’aria da duro. Consapevole della sua bellezza e, credo, della sua forza.
Dove avrai casa, ragazza di Bali?
Non faccio una sola foto.  

Baths


Buffet a pranzo. Da 75 dollari. Comincio a pensare che la cucina dei Caraibi non sia un granchè. Deve essere un problema di cibi importati. I pomodori non sanno di pomodoro. Mi dicono che l’aragosta di Anegada sia buonissima. Non fatico a crederlo. Tutto il resto ha un sapore da supermercato. Un’idea coraggiosa potrebbe essere costruire orti da queste parti e allevare piccoli maiali. Il piatto nazionale del Caribe è il porco. E, raccontano, arriva dall’Argentina. ‘Meraviglioso’, assicurano. Leggo che ci sono produttori rasta che qualche verdura biologica si sono messi a crescerla. Mi piacerebbe andare a incontrarli.

Sulla sponda meridionale del Caribe, muore Chavez. I soldati pattugliano il Venezuela. I turisti leggono il New York Times Digest. Strano leggere di Chavez e dei massacri in Siria di fronte all’oceano.

Baths


Tito ci porta in città. In realtà non è una città. Ci sono quattromila abitanti nell’isola. Spanish Town è a dieci minuti a piedi dal resort.  Tito ha solo due denti ed è bene che ci accompagni in città. Noi siamo il suo salario.

La rocce di Baths


Nessun fra le grandi rocce di Baths. Cerco di infilarmi nelle grotte. Nei passaggi più stretti. Mi ritrovo da solo. Prego che accada qualcosa. No, non succede niente. Solo che scivolo malamente sulla pietra umida di sabbia. Fermarsi qui. Perfino il bar del ‘pover’uomo’, scortecciato e disordinato, è chiuso. Dove sono tutti? E’ bello, Baths. Accarezzo le rocce.


Mark


Mark, cantore di Santa Licia, fa compagnia agli ospiti del ristorante celebre. Canzoni del ‘900. Bob Dylan e Otis Reding. Paul Mc Cartey e Guantanamera. La gioventù domata. La gioventù che continua le sue irrequietezze. E non è riuscita a trasformarle in una storia di cambiamento. O, forse, sì. Keith Richards viene alle isole Vergini. Lo avrebbe mai pensato quando fece vibrare la sua prima chitarra?
Mi piace Mark. Perché non si nasconde dietro le parole. Vive cantando nei locali pubblici. Dice che ama il ritmo dei bassi e il calypso contemporaneo. Sua figlia canta nei bar scartavetrati di Tortola e di Jos Van Dike. I luoghi della Lonely Planet. Il mondo delle isole si divide fra i buoni e i falsi cattivi. Un gioco delle parti. Solo la bellezza ha il dono dell’indifferenza. Non so come raccontarvelo. Vorrei che questa bellezza fosse carne e ossa. E sapesse dire. Che la smettesse con la sua alterigia, consolasse i cuori e convertisse i duri d’anima. Non lo fa. Lei sa che sarà ancora qui. Per sempre. Perché così è da sempre. Illude, ecco cosa fa, la bellezza. Cerco di goderne.

La palma fra le rocce


Scaccio i pensieri. Non mi va di andare via da qui. Io che ho sempre amato andarmene, ora voglio respingere questa condanna all’erranza. Vorrei fare il cameriere a quattro dollari all’ora. Vorrei, in silenzio, raccontare storie nelle sale dei turisti che non si curano di me e, forse, nemmeno di Mark, amico di una sera. Vorrei essere un uccello che si fa beffe, bene accetto, dell’etichetta e becchetta fra gli avanzi lasciati nei piatti. Vorrei essere pellicano con i suoi tuffi a testa in giù. Vorrei perfino essere il pesce che il pellicano ha fatto sparire nel suo grande becco. Vorrei essere una grande donna nera che cammina, con qualche fatica, trasportando il suo peso immenso e sembra non curarsi delle dimensioni del suo culo e delle sue tette che sono mongolfiere afflosciate. Vorrei essere uno di questi uomini, la carne che si piega sul collo, le spalle forti, la pancia che si dismisura e il tempo che non so che valore abbia per loro.

Scrivo questo ben sapendo che sono qui perché Laurence Rockfeller, sessanta anni fa, vide questa baia e disse: ‘Qui’. Che cosa si prova, in fondo al cuore, ad avere questo potere?
Somewher in Caribe, 5 marzo



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