venerdì 26 ottobre 2012

Trieste è sul mare


I blog autorizzano qualsiasi violazione di regole. Ora sono a Torino. Ho il Po vicino a casa. Ma pochi giorni fa ero dall'altra parte del Nord Italia. A Trieste. E ho un debito verso quella città. Ho voglia di ricordarla. E non trovo di meglio che andare in cerca di un vecchio articolo scritto qualche anno fa per TuttoTurismo. Le riviste sono state l'alibi per conoscere luoghi sempre sognati. Quindi, scusatemi, questo non è un post. E' un lungo articolo. E io difendo la 'lunghezza' degli articoli.

Ho un altro debito ben più importante. Una persona che mi aiutò a capire l'anima di Trieste fu Virgilio Zecchini, un panettiere-alpinista-marinaio. Fu Paolo Rumiz a suggerirmi di incontrarlo. Virgilio non mi concesse un'intervista: mi portò a camminare in Carso. E fu un grande regalo.
Pochi mesi, mentre camminava lungo i suoi sentieri, Virgilio se ne è andato. E' la persona che più ricordo dei miei giorni di Trieste.


Il molo Audace


Il cielo è smagliante. Azzurro elettrico. Azzurro perfetto, come laccato dalla bora chiara. Dovrei essere in mezzo al mare per capire Trieste. Per ritrovare un orientamento possibile. Con ruvidezza gentile, Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, mi aveva spiegato: ‘Trieste è l’unico posto d’Italia dove puoi vedere le Alpi oltremare. Dove le Dolomiti innevate sono lo sfondo della partenza dei traghetti per la Turchia e la Grecia. Qui mare e montagne si toccano come le quinte di un teatro’. Giovanni Montenero, fotografo che smarrisce le foto, ne ha recuperata una per me: le vele (mille e 840 lo scorso anno) della Barcolana, la più frastornante fra le regate italiane, sono allineate nelle acque di Barcola e aspettano, in un fulgore di vento e colori, il segnale della partenza. Giovanni ha scattato quella foto dalle banchine di Pirano, terra di Slovenia, quasi venti miglia lontano da Barcola: le barche sembrano salpare direttamente dalle rocce del Carso, le pietre di questo altopiano duro e sassoso, disseminato di doline e caverne, sono il molo di partenza di una regata folle e  festosa. A Trieste i venti del mare e quelli della montagna si confondono.

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Trieste e il mare


‘Trieste è una città mediterranea’, mi sorprende Marko Kravos, 64 anni, poeta italiano di lingua slovena (ha un biglietto da visita con su scritto poet). Mai lo avrei pensato, ma ha ragione: questa città di mare è la frontiera fra la Mittleuropa e il Mediterraneo. ‘E’ il profondo Nord che si protende verso il mare’, mi dice Fulvio Molinari, velista e scrittore (sì, scrivono tutti a Trieste). ‘E’ la città più meridionale dell’Europa del Nord’, avverte Mauro Covacich (ha 43 anni e anche lui fa lo scrittore. Ed è bravo). E Duino, ultimo comune della sua minuscola provincia, la più piccola d’Italia, è il punto più a Nord del Mediterraneo. In questo disorientante andirivieni geografico (cambiano i punti di vista se guardi questa città dal cemento brusco del molo Audace o se ti affacci dai balconi carsici di Opicina e della passeggiata napoleonica) c’è una stupefacente certezza: Trieste ha un languore tutto suo. Perditempo e bellissimo. Degno di quello di Napoli. ‘Trieste è una Napoli del Nord’, conferma Covacich (anzi lui osa di più e parla di atmosfere carioche e, allo stesso tempo, californiane). E la ragione è semplice e, a suo modo, sorprendente: in questa città, racchiusa, ad occhi stranieri, solo nello stereotipo (altrettanto vero. O, forse, no) della sua anima asburgica, il mare c’è per davvero.



Il mare entra in Trieste


Nei miei viaggi per le città del Mediterraneo ho scoperto che il mare è lontano da Marsiglia o da Genova, da Haifa o da Palermo. Le sue onde sono negate ai cittadini dalle banchine dei grandi porti. I triestini, gente del Nord (o del Sud?), invece, non possono vivere senza mare. Appena spunta un raggio di sole se ne vanno a distendersi sul pavè della passeggiata fra Barcola e il bianco castello di Miramare. Una siepe di oleandri separa questo lungomare, tre chilometri di camminata, largo mai più di dieci metri, dalla trafficata strada costiera, eppure, eccoli lì, i triestini: stanno in mutande e non vogliono perdersi né sole, né mare perfino nell’intervallo per il pranzo. Ci vanno anche in inverno, ‘con la sciarpa tirata su fino agli occhi’, quando il cielo promette tempeste e il Mediterraneo è annerito di malumori o bianco dei ventagli di bora. E se poi non si spingono fino a Miramare, i triestini camminano lungo le rive, sorpassano la darsena di Sacchetta, raggiungono il molo dei Fratelli Bandiera, costeggiano un muro di calce bianca e si sistemano nel rifugio dei bagni Lanterna (i più popolani) ed Ausonia (i più snob). Il bagno Lanterna, conosciuto dai triestini come el Pedocin (qui venivano a spidocchiarsi i soldati imperiali), fu inaugurato nel 1890 e, ancor oggi, è diviso da un muro che cerca di tener separata, almeno per una ventina di metri, perfino la risacca del mare: le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Alle sette del mattino, in estate, le babe triestine (le vecchie signore chiacchierone della città) si spintonano come teen-agers a un concerto rock pur di conquistare una sedia di plastica bianca (sono solo duecento a disposizione dei bagnanti) e i posti migliori sul ghiaino del Pedocin. Il custode del bagno, aperto anche in un giorno di inverno, mi confessa: ‘Questa estate abbiamo venduto biglietti per 155mila euro’. A 80 centesimi a biglietto. Non faccio i conti e nemmeno verifico la mia fonte innocente, mi immagino solo la splendida ressa.

I bagni dentro la città, in inverno
El pedocin

Le navi a Trieste
Le grandi navi a Trieste

Città di matti


Sono pieno di prove su Trieste come città mediterranea. Qui, ai primi dell’800, Josef Ressel inventò l’elica. Qui lavorava Carlo Sciarrelli, leggendario progettista di sensuali barche a vela: un ex-ferroviere autodidatta che è stato capace di costruire (quasi) ‘la barca perfetta’. Fulvio Molinari è certo: ‘Cinquantamila triestini sanno andare in barca a vela’. Come dire: un quarto della città. Nelle sue darsene, sono ormeggiate almeno seimila barche. E ci sono quattordici società veliche. E ancora: l’altezzosa Piazza Unità, la piazza del potere e dello struscio domenicale della buona borghesia triestina, si apre, unica in Italia, sul mare. Il suo lato occidentale è  una ‘riva’, una banchina, un abbraccio splendido fra città e Mediterraneo. ‘L’Adriatico è solo un corridoio per andare oltre l’orizzonte’, mi dice ancora il poeta Kravos. D’altra parte il primo piroscafo (e si chiamava proprio Primo) che attraversò il canale di Suez era stato varato a Trieste.  E triestino (vi arrivò da Venezia, all’età di due anni) era il finanziere Pasquale Revoltella così cosmopolita e preveggente da diventare vicepresidente della Compagnia Universale impegnata a progettare quel canale egiziano che aprì le porte del Mediterraneo.

Il maiale di Pepi S'avo

Il mercato


Ci voleva Virgilio Zecchini, ex-panettiere, 70 anni portati con meraviglia, faccia rugosa, scaltra e rassicurante come solo un alpinista riesce ad avere, per portarmi via dal mare (lui, che è anche un gran velista). Volevo fare una chiacchierata con lui e, come tutta risposta, mi ha fissato un appuntamento alle nove di un luminoso mattino di fine autunno in cima al Carso e per quattro ore mi ha fatto scarpinare per la val Rosandra. Valle alpina a due passi dal centro di Trieste. E’ stata una bella intervista silenziosa e tonica: bastavano i sentieri di questa valle, un grandioso crepaccio calcareo scolpito, nei millenni, dall’unico torrente a cielo aperto del Carso italiano, a spiegarmi ciò che Virginio voleva farmi capire. Le pareti della val Rosandra sono una falesia compatta con più di ottanta vie di arrampicata dai nomi diventati piccola leggenda. In fondo alla valle c’è la sperduta trattoria di Botazzo (vi si arriva solo a piedi: è un villaggio di tre case, un luogo da clandestini o da vecchi contrabbandieri, sta a dieci metri dalla vecchia sbarra di un confine che non c’è più): sedetevi ai suoi tavoli (è aperta nei finesettimana) e sentirete gli alpinisti parlare delle mille avventure vissute appesi alle corde delle le scalate ai sassi della Dama Bianca, del Pipistrello, dei Falchi, della Vergine… A Trieste si diventa sestogradisti a cinque minuti dal Mediterraneo. Lo stile degli arrampicatori triestini, mi spiegano, è inconfondibile: gli esperti sanno riconoscerli dal modo con il quale si tirano su. Sono agili ed eleganti. Qui è ancora viva la memoria grandiosa di Emilio Comici, straordinario alpinista triestino che scalava le montagne seguendo ‘la linea della goccia che cade’. ‘Al mattino guardo il cielo – dice Virginio Zecchini – Se c’è borino, vado in barca. Se è bonaccia vengo in montagna’. E la lunga passeggiata con Virginio non poteva che finire al rifugio Premuda, costruito là dove la val Rosandra finisce. E’ il rifugio del Cai più basso di tutte le Alpi, credo il più basso del mondo: sta a settanta metri (o forse 82, a seconda delle guide) sul livello del mare. E’ la locanda perfetta. Qui i marinai triestini si tolgono la cerata da bora e calzano le pedule da arrampicata.  

La piazza

La piazza rovesciata

I dettagli di Trieste

Le architetture

I momenti di Trieste

La piazza

La piazza


Ecco, Trieste mi ha distratto e ingannato. Più di metà dell’articolo se ne è andato nel raccontare la meraviglia della sua scenografia così visibile e così ignorata dal resto d’Italia. E ora? Ho promesso, quasi per scommessa, che non sarei andato a farmi spiegare Trieste da Claudio Magris (è vero: ha un tavolo riservato per sempre al caffé san Marco, il più asburgico e affascinante della città. Lì riceve perfino la posta), né dalla astronoma fiorentina Margherita Hack. E’ così che mi sono imbattuto in Jan Morris, scrittrice gallese, che, in duecento bellissima pagine, ci ha spiegato che ‘Trieste è un nessun luogo’. Ma, poi, per caso, ho ritrovato la stessa definizione in un articolo di oltre vent’anni fa di Magris. Trieste è un hiraeth, scrive ancora la Morris. Una nostalgia. Magris (alla fine è come se lo avessi intervistato) aggiungerebbe che qui è come se ‘tutto debba ancora incominciare, che la vita debba ancora venire’. Trieste è il luogo in cui si sono mischiati latini e slavi, mittleuropei e gente del Sud, ebrei e greci. Ora che il confine, l’ex-cortina di ferro (a ricordo, una lapida all’altezza di Miramare rammenta ancora che Berlino è lontana 1080 chilometri), è scomparsa, possiamo dirlo con felicità. Qui hanno trovato rifugio ‘artisti, emarginati, rinnegati, esuli, redditieri’. Oggi bisogna aggiungere anche gli scienziati, gli studenti cosmopoliti e i ‘matti’. In una città priva di territorio, le religioni hanno eretto chiese immense (santo Spiridione dei serbo-ortodossi sul Canal Grande, sant’Antonio Taumaturgo dei cattolici a dominare lo stesso Canal Grande, san Nicolò dei greco-ortodossi sulle rive) e la sinagoga più grande d’Europa. Non c’è un filo conduttore a Trieste. Pensate:  tutti, o quasi, in città piangono decadenza e memorie dello splendore dei tempi dell’impero austro-ungarico (Trieste, porto franco dal 1719 per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, è stato, per quasi due secoli, fra gli scali più importanti del mondo) proprio mentre la rivista Fortune, nel compilare l’elenco delle città più ‘potenti’ del mondo, mette in classifica, per l’Italia, Milano, Roma, Torino. E Trieste. Qui, in una nuvola di riservatezza assoluta, ha sede le Generali (fondata nel 1831 da finanzieri ebrei), centro di un potere economico assoluto. Il caffè Illy, in pochi anni, è diventato celebre in ogni angolo della terra (sei milioni di tazzine vendute ogni giorno). E ancora: fra la sfolgorante bellezza marina di Miramare e le asprezze carsiche di Basovizza, ci sono 84 laboratori di ricerca scientifica, c’è la macchina di luce Elettra (il celebre sincrotrone di Rubbia), ci sono i ricercatori delle biotecnologie e i migliori cervelli della fisica teorica. C’è la Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, una sorta di Università Normale scientifica. Ci sono matematici e genetisti, astronomi ed oceanografi. Arrivano qui da ogni parte del mondo. Il pakistano Abdul Salam dirigeva il centro internazionale di fisica teorica a Miramare quando ebbe il Nobel. A Trieste ci sono 37 ricercatori ogni mille abitanti. Più che nella Silicon Valley, immagino.

Il parco

James Joyce

Umberto Saba

Il palazzo della Borsa

Italo Svevo


Non è certo finita: qui c’è anche la più alta concentrazione di scrittori d’Italia (e di lingua slovena. A Trieste sono due gli aspiranti Nobel: oltre a Magris, c’è Boris Pahor, vivacissimo e irrefrenabile con i suoi 93 anni, quasi sconosciuto in Italia, scrittore di culto in Francia).  E’ come se la statue di Joyce (sul ponte sopra il Canal Grande intento a raggiungere la sua scuola Berlitz), di Umberto Saba (che sta camminando verso la sua libreria in via san Nicolò) o di Italo Svevo (in piazza Hortis, a un passo dalla Biblioteca Civica) vegliassero su legioni di romanzieri. O aspiranti tali. Andate al caffé san Marco (Magris a parte) e al caffé Tommaseo e vedrete frotte di scrivitori che stanno meditando (penna o computer alla mano) sui loro romanzi con i piedi poggiati sulle zampe di ghisa dei tavolini di marmo. Le pagine dei lettori, ‘Segnalazioni’, del Piccolo, quotidiano della città, sono sempre intasate (e le più lette) di scritti dei triestini.

Il parco e la statua

La donna e i gabbiani

Inverno

Il sole d'inverno


Non ho più spazio. Avrei bisogno di un libro per Trieste. E’ una città eccessiva per un articolo di rivista. Alla fine mi nascondo in un posto irrituale. All’ex-manicomio di san Giovanni. Al ristorante del Posto delle Fragole, gestito, in gran parte, da chi ha avuto guai con la sua testa. Guardo la gente e i matti. E non so più distinguerli. Sono certo che la bora, i conflitti di identità (agli sloveni il fascismo cambiò persino i cognomi), la vicinanza claustrofobica del confine afferravano i pensieri della gente e li facevano turbinare. Ma qui, trenta e più anni fa, per la prima volta, si aprirono le porte dei manicomi italiani. Franco Basaglia e la sua gente vinsero una grande e difficile battaglia di civiltà. Orietta Polizzi, 45 anni, torinese, venne a Trieste per sfuggire a un destino di disagio: oggi è la presidente della cooperativa che gestisce ‘Il posto delle fragole’: ‘Dopo tanti anni possiamo dirlo: i matti hanno vinto la loro sfida. Sono tornati in mezzo alla gente e con un lavoro a diretto contatto con il pubblico’. Il bar-ristorante di san Giovanni è un buon posto. Sta a mezza costa. Fra mare e Carso. Il parco dell’ex-maniconomio è bellissimo, aperto alla gente, attraversato da un autobus. A una fermata, trasformata in un cubo di poesie, lo prendo per ridiscendere in città. Di fronte alla stazione, la principessa Sissi, come sempre un po’ ribelle, se ne sta seduta su una panchina. Ho la conferma che lo scrittore Covacich ha davvero ragione: Trieste assomiglia a Sissi (la principessa si regalava lunghe passeggiate a Miramare), ma oggi più che asburgica e pretenziosa appare come una giovane Sissi contemporanea. Una donna bella e vivace, morbida e sensuale. Un po’ altera a prima vista, ma allegra e sorridente appena ne prendi confidenza. Ha il ‘piercing, i capelli blu cobalto e una salamandra tatuata sul collo’. A metà mattina si regala, con un piacere sottile, un calice di bianco e una polpetta in osteria. Si vive bene a Trieste.  

Via della Bora




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