I blog autorizzano qualsiasi violazione di regole. Ora sono a Torino. Ho il Po vicino a casa. Ma pochi giorni fa ero dall'altra parte del Nord Italia. A Trieste. E ho un debito verso quella città. Ho voglia di ricordarla. E non trovo di meglio che andare in cerca di un vecchio articolo scritto qualche anno fa per TuttoTurismo. Le riviste sono state l'alibi per conoscere luoghi sempre sognati. Quindi, scusatemi, questo non è un post. E' un lungo articolo. E io difendo la 'lunghezza' degli articoli.
Ho un altro debito ben più importante. Una persona che mi aiutò a capire l'anima di Trieste fu Virgilio Zecchini, un panettiere-alpinista-marinaio. Fu Paolo Rumiz a suggerirmi di incontrarlo. Virgilio non mi concesse un'intervista: mi portò a camminare in Carso. E fu un grande regalo.
Pochi mesi, mentre camminava lungo i suoi sentieri, Virgilio se ne è andato. E' la persona che più ricordo dei miei giorni di Trieste.
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Il molo Audace |
Il cielo è smagliante. Azzurro elettrico. Azzurro perfetto, come
laccato dalla bora chiara. Dovrei essere in mezzo al mare per capire Trieste.
Per ritrovare un orientamento possibile. Con ruvidezza gentile,
Paolo Rumiz,
giornalista e scrittore, mi aveva spiegato: ‘Trieste è l’unico posto d’Italia
dove puoi vedere le Alpi oltremare. Dove le Dolomiti innevate sono lo sfondo
della partenza dei traghetti per la Turchia e la Grecia. Qui mare e montagne si
toccano come le quinte di un teatro’.
Giovanni Montenero, fotografo che
smarrisce le foto, ne ha recuperata una per me: le vele (mille e 840 lo scorso
anno) della Barcolana, la più frastornante fra le regate italiane, sono
allineate nelle acque di Barcola e aspettano, in un fulgore di vento e colori,
il segnale della partenza. Giovanni ha scattato quella foto dalle banchine di
Pirano, terra di Slovenia, quasi venti miglia lontano da Barcola: le barche
sembrano salpare direttamente dalle rocce del Carso, le pietre di questo
altopiano duro e sassoso, disseminato di doline e caverne, sono il molo di
partenza di una regata folle e festosa.
A Trieste i venti del mare e quelli della montagna si confondono.
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Trieste e il mare |
‘Trieste è
una città mediterranea’, mi sorprende
Marko Kravos, 64 anni, poeta
italiano di lingua slovena (ha un biglietto da visita con su scritto
poet).
Mai lo avrei pensato, ma ha ragione: questa città di mare è la frontiera fra la
Mittleuropa e il Mediterraneo. ‘E’ il profondo Nord che si protende verso il
mare’, mi dice
Fulvio Molinari, velista e scrittore (sì, scrivono tutti
a Trieste). ‘E’ la città più meridionale dell’Europa del Nord’, avverte
Mauro
Covacich (ha 43 anni e anche lui fa lo scrittore. Ed è bravo). E Duino,
ultimo comune della sua minuscola provincia, la più piccola d’Italia, è il
punto più a Nord del Mediterraneo. In questo disorientante andirivieni
geografico (cambiano i punti di vista se guardi questa città dal cemento brusco
del molo Audace o se ti affacci dai balconi carsici di Opicina e della
passeggiata napoleonica) c’è una stupefacente certezza: Trieste ha un languore tutto
suo. Perditempo e bellissimo. Degno di quello di Napoli. ‘Trieste è una Napoli
del Nord’, conferma Covacich (anzi lui osa di più e parla di atmosfere carioche
e, allo stesso tempo, californiane). E la ragione è semplice e, a suo modo,
sorprendente: in questa città, racchiusa, ad occhi stranieri, solo nello
stereotipo (altrettanto vero. O, forse, no) della sua anima asburgica, il mare
c’è per davvero.
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Il mare entra in Trieste |
Nei miei viaggi per le città del Mediterraneo ho scoperto
che il mare è lontano da Marsiglia o da Genova, da Haifa o da Palermo. Le sue onde
sono negate ai cittadini dalle banchine dei grandi porti. I triestini, gente
del Nord (o del Sud?), invece, non possono vivere senza mare. Appena spunta un
raggio di sole se ne vanno a distendersi sul pavè della passeggiata fra Barcola
e il bianco castello di Miramare. Una siepe di oleandri separa questo
lungomare, tre chilometri di camminata, largo mai più di dieci metri, dalla trafficata
strada costiera, eppure, eccoli lì, i triestini: stanno in mutande e non
vogliono perdersi né sole, né mare perfino nell’intervallo per il pranzo. Ci
vanno anche in inverno, ‘con la sciarpa tirata su fino agli occhi’, quando il
cielo promette tempeste e il Mediterraneo è annerito di malumori o bianco dei ventagli
di bora. E se poi non si spingono fino a Miramare, i triestini camminano lungo
le rive, sorpassano la darsena di Sacchetta, raggiungono il molo dei Fratelli
Bandiera, costeggiano un muro di calce bianca e si sistemano nel rifugio dei
bagni Lanterna (i più popolani) ed Ausonia (i più snob). Il bagno Lanterna,
conosciuto dai triestini come
el Pedocin (qui venivano a
spidocchiarsi i soldati imperiali), fu inaugurato nel 1890 e, ancor oggi, è
diviso da un muro che cerca di tener separata, almeno per una ventina di metri,
perfino la risacca del mare: le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Alle
sette del mattino, in estate, le
babe triestine (le vecchie signore
chiacchierone della città) si spintonano come teen-agers a un concerto rock pur
di conquistare una sedia di plastica bianca (sono solo duecento a disposizione
dei bagnanti) e i posti migliori sul ghiaino del
Pedocin. Il custode del
bagno, aperto anche in un giorno di inverno, mi confessa: ‘Questa estate
abbiamo venduto biglietti per 155mila euro’. A 80 centesimi a biglietto. Non
faccio i conti e nemmeno verifico la mia fonte innocente, mi immagino solo la splendida
ressa.
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I bagni dentro la città, in inverno |
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El pedocin |
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Le navi a Trieste |
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Le grandi navi a Trieste |
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Città di matti |
Sono pieno di prove su Trieste come città mediterranea. Qui,
ai primi dell’800, Josef Ressel inventò l’elica. Qui lavorava Carlo Sciarrelli,
leggendario progettista di sensuali barche a vela: un ex-ferroviere autodidatta
che è stato capace di costruire (quasi) ‘la barca perfetta’. Fulvio Molinari è
certo: ‘Cinquantamila triestini sanno andare in barca a vela’. Come dire: un
quarto della città. Nelle sue darsene, sono ormeggiate almeno seimila barche. E
ci sono quattordici società veliche. E ancora: l’altezzosa Piazza Unità, la
piazza del potere e dello struscio domenicale della buona borghesia triestina,
si apre, unica in Italia, sul mare. Il suo lato occidentale è una ‘riva’, una banchina, un abbraccio splendido
fra città e Mediterraneo. ‘L’Adriatico è solo un corridoio per andare oltre
l’orizzonte’, mi dice ancora il poeta Kravos. D’altra parte il primo piroscafo
(e si chiamava proprio
Primo) che attraversò il canale di Suez era stato
varato a Trieste. E triestino (vi arrivò
da Venezia, all’età di due anni) era il finanziere Pasquale Revoltella così
cosmopolita e preveggente da diventare vicepresidente della Compagnia
Universale impegnata a progettare quel canale egiziano che aprì le porte del
Mediterraneo.
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Il maiale di Pepi S'avo |
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Il mercato |
Ci voleva
Virgilio Zecchini, ex-panettiere, 70 anni
portati con meraviglia, faccia rugosa, scaltra e rassicurante come solo un
alpinista riesce ad avere, per portarmi via dal mare (lui, che è anche un gran
velista). Volevo fare una chiacchierata con lui e, come tutta risposta, mi ha
fissato un appuntamento alle nove di un luminoso mattino di fine autunno in
cima al Carso e per quattro ore mi ha fatto scarpinare per la val Rosandra. Valle
alpina a due passi dal centro di Trieste. E’ stata una bella intervista
silenziosa e tonica: bastavano i sentieri di questa valle, un grandioso crepaccio
calcareo scolpito, nei millenni, dall’unico torrente a cielo aperto del Carso
italiano, a spiegarmi ciò che Virginio voleva farmi capire. Le pareti della val
Rosandra sono una falesia compatta con più di ottanta vie di arrampicata dai
nomi diventati piccola leggenda. In fondo alla valle c’è la sperduta trattoria
di Botazzo (vi si arriva solo a piedi: è un villaggio di tre case, un luogo da
clandestini o da vecchi contrabbandieri, sta a dieci metri dalla vecchia sbarra
di un confine che non c’è più): sedetevi ai suoi tavoli (è aperta nei
finesettimana) e sentirete gli alpinisti parlare delle mille avventure vissute
appesi alle corde delle le scalate ai sassi della Dama Bianca, del Pipistrello,
dei Falchi, della Vergine… A Trieste si diventa
sestogradisti a cinque
minuti dal Mediterraneo. Lo stile degli arrampicatori triestini, mi spiegano, è
inconfondibile: gli esperti sanno riconoscerli dal modo con il quale si tirano
su. Sono agili ed eleganti. Qui è ancora viva la memoria grandiosa di
Emilio
Comici, straordinario alpinista triestino che scalava le montagne seguendo
‘la linea della goccia che cade’. ‘Al mattino guardo il cielo – dice Virginio
Zecchini – Se c’è borino, vado in barca. Se è bonaccia vengo in montagna’. E la
lunga passeggiata con Virginio non poteva che finire al rifugio Premuda,
costruito là dove la val Rosandra finisce. E’ il rifugio del Cai più basso di
tutte le Alpi, credo il più basso del mondo: sta a settanta metri (o forse 82,
a seconda delle guide) sul livello del mare. E’ la locanda perfetta. Qui i
marinai triestini si tolgono la cerata da bora e calzano le pedule da
arrampicata.
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La piazza |
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La piazza rovesciata |
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I dettagli di Trieste |
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Le architetture |
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I momenti di Trieste |
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La piazza |
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La piazza |
Ecco, Trieste mi ha distratto e ingannato. Più di metà
dell’articolo se ne è andato nel raccontare la meraviglia della sua scenografia
così visibile e così ignorata dal resto d’Italia. E ora? Ho promesso, quasi per
scommessa, che non sarei andato a farmi spiegare Trieste da Claudio Magris (è
vero: ha un tavolo riservato per sempre al caffé san Marco, il più asburgico e
affascinante della città. Lì riceve perfino la posta), né dalla astronoma
fiorentina Margherita Hack. E’ così che mi sono imbattuto in Jan Morris,
scrittrice gallese, che, in duecento bellissima pagine, ci ha spiegato che ‘Trieste
è un nessun luogo’. Ma, poi, per caso, ho ritrovato la stessa definizione in un
articolo di oltre vent’anni fa di Magris. Trieste è un
hiraeth, scrive
ancora la Morris. Una nostalgia. Magris (alla fine è come se lo avessi
intervistato) aggiungerebbe che qui è come se ‘tutto debba ancora incominciare,
che la vita debba ancora venire’. Trieste è il luogo in cui si sono mischiati
latini e slavi, mittleuropei e gente del Sud, ebrei e greci. Ora che il
confine, l’ex-cortina di ferro (a ricordo, una lapida all’altezza di Miramare
rammenta ancora che Berlino è lontana 1080 chilometri), è scomparsa, possiamo
dirlo con felicità. Qui hanno trovato rifugio ‘artisti, emarginati, rinnegati,
esuli, redditieri’. Oggi bisogna aggiungere anche gli scienziati, gli studenti
cosmopoliti e i ‘matti’. In una città priva di territorio, le religioni hanno
eretto chiese immense (santo Spiridione dei serbo-ortodossi sul Canal Grande,
sant’Antonio Taumaturgo dei cattolici a dominare lo stesso Canal Grande, san
Nicolò dei greco-ortodossi sulle rive) e la sinagoga più grande d’Europa. Non
c’è un filo conduttore a Trieste. Pensate: tutti, o quasi, in città piangono decadenza e
memorie dello splendore dei tempi dell’impero austro-ungarico (Trieste, porto
franco dal 1719 per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, è stato, per quasi
due secoli, fra gli scali più importanti del mondo) proprio mentre la rivista
Fortune, nel compilare l’elenco delle città più ‘potenti’ del mondo, mette in
classifica, per l’Italia, Milano, Roma, Torino. E Trieste. Qui, in una nuvola
di riservatezza assoluta, ha sede le Generali (fondata nel 1831 da finanzieri
ebrei), centro di un potere economico assoluto. Il caffè Illy, in pochi anni, è
diventato celebre in ogni angolo della terra (sei milioni di tazzine vendute
ogni giorno). E ancora: fra la sfolgorante bellezza marina di Miramare e le
asprezze carsiche di Basovizza, ci sono 84 laboratori di ricerca scientifica,
c’è la macchina di luce Elettra (il celebre sincrotrone di Rubbia), ci sono i
ricercatori delle biotecnologie e i migliori cervelli della fisica teorica. C’è
la Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, una sorta di Università
Normale scientifica. Ci sono matematici e genetisti, astronomi ed oceanografi. Arrivano
qui da ogni parte del mondo. Il pakistano Abdul Salam dirigeva il centro
internazionale di fisica teorica a Miramare quando ebbe il Nobel. A Trieste ci
sono 37 ricercatori ogni mille abitanti. Più che nella Silicon Valley,
immagino.
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Il parco |
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James Joyce |
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Umberto Saba |
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Il palazzo della Borsa |
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Italo Svevo |
Non è certo finita: qui c’è anche la più alta concentrazione
di scrittori d’Italia (e di lingua slovena. A Trieste sono due gli aspiranti
Nobel: oltre a Magris, c’è
Boris Pahor, vivacissimo e irrefrenabile con
i suoi 93 anni, quasi sconosciuto in Italia, scrittore di culto in Francia). E’ come se la statue di Joyce (sul ponte sopra
il Canal Grande intento a raggiungere la sua scuola Berlitz), di Umberto Saba
(che sta camminando verso la sua libreria in via san Nicolò) o di Italo Svevo
(in piazza Hortis, a un passo dalla Biblioteca Civica) vegliassero su legioni
di romanzieri. O aspiranti tali. Andate al caffé san Marco (Magris a parte) e
al caffé Tommaseo e vedrete frotte di scrivitori che stanno meditando (penna o
computer alla mano) sui loro romanzi con i piedi poggiati sulle zampe di ghisa
dei tavolini di marmo. Le pagine dei lettori, ‘Segnalazioni’, del Piccolo,
quotidiano della città, sono sempre intasate (e le più lette) di scritti dei
triestini.
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Il parco e la statua |
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La donna e i gabbiani |
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Inverno |
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Il sole d'inverno |
Non ho più spazio. Avrei bisogno di un libro per Trieste. E’
una città eccessiva per un articolo di rivista. Alla fine mi nascondo in un
posto irrituale. All’ex-manicomio di san Giovanni. Al ristorante del Posto
delle Fragole, gestito, in gran parte, da chi ha avuto guai con la sua testa.
Guardo la gente e i matti. E non so più distinguerli. Sono certo che la bora, i
conflitti di identità (agli sloveni il fascismo cambiò persino i cognomi), la
vicinanza claustrofobica del confine afferravano i pensieri della gente e li
facevano turbinare. Ma qui, trenta e più anni fa, per la prima volta, si
aprirono le porte dei manicomi italiani.
Franco Basaglia e la sua gente
vinsero una grande e difficile battaglia di civiltà.
Orietta Polizzi, 45
anni, torinese, venne a Trieste per sfuggire a un destino di disagio: oggi è la
presidente della cooperativa che gestisce ‘Il posto delle fragole’: ‘Dopo tanti
anni possiamo dirlo: i matti hanno vinto la loro sfida. Sono tornati in mezzo
alla gente e con un lavoro a diretto contatto con il pubblico’. Il
bar-ristorante di san Giovanni è un buon posto. Sta a mezza costa. Fra mare e
Carso. Il parco dell’ex-maniconomio è bellissimo, aperto alla gente,
attraversato da un autobus. A una fermata, trasformata in un cubo di poesie, lo
prendo per ridiscendere in città. Di fronte alla stazione, la principessa
Sissi, come sempre un po’ ribelle, se ne sta seduta su una panchina. Ho la
conferma che lo scrittore Covacich ha davvero ragione: Trieste assomiglia a
Sissi (la principessa si regalava lunghe passeggiate a Miramare), ma oggi più
che asburgica e pretenziosa appare come una giovane Sissi contemporanea. Una donna
bella e vivace, morbida e sensuale. Un po’ altera a prima vista, ma allegra e
sorridente appena ne prendi confidenza. Ha il ‘piercing, i capelli blu cobalto
e una salamandra tatuata sul collo’. A metà mattina si regala, con un piacere
sottile, un calice di bianco e una polpetta in osteria. Si vive bene a Trieste.
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Via della Bora |
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