sabato 23 giugno 2012

Enrico Giovannini/La trincea del Pil



Confesso: metto qui questa intervista per ritrovare una 'normalità' in queste settimane di Matera e della Lucania. Stacco per un giorno l'attenzione dai riti arborei e dalla frenesia dei preparativi della Festa della Bruna. Mi reimpossesso di un mestiere ibrido e confuso. Lo faccio in maniera facile. Con un vecchio lavoro.

La prossima settimana la commissione presieduta da Enrico Giovannini, presidente dell'Istat, l'Istituto di Statistica, presenterà il suo rapporto sugli indicatori benessere. E' stato un lavoro lungo e, per le coincidenze della storia, vede la luce nei mesi in cui si parla solo di Pil e di crescita. Sono i totem del mondo contemporaneo. Un rapporto fuori tempo, dunque? Una ricerca e uno studio già invecchiato ai tempi della Grande Crisi? Oppure il tentativo 'ufficiale' di dire che ci sono altre possibilità....

Le parole di Giovannini sono interessanti perchè offrono altri 'punti di vista'. Mesi fa, per il libro 'Politiche per uno sviluppo umano sostenibile', curato da Enrica Chiappero-Martinetti, ho intervistateo il presidente dell'Istat attorno ai problemi del Prodotto Interno Lordo. Qui sotto quando mi disse allora.




L’incontro con Enrico Giovannini, 54 anni, presidente dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica, avrebbe dovuto essere ‘misurato’: la sua segreteria aveva messo un preciso limite di tempo. Ma Giovannini, uomo dei numeri e delle statistiche (per otto anni è stato chief director degli uffici statistici dell’Ocse e ha fatto parte della commissione Stiglitz, voluta dal governo francese e incaricata di aprire la strada a nuovi indicatori socio-economici), non si accontenta di tabelle e istogrammi: sa far parlare quelle cifre; anzi, quasi se ne dimentica, e le sue parole sembrano cambiare rotta e dirigersi verso la sociologia, la filosofia. Vorrei dire (ma non lo dico): verso la politica. E allora una conversazione con lui non riesce a essere ingabbiata nella mezz’ora pattuita. Si allunga e potrebbe durare ore e ore. Giovannini è un uomo appassionato e il tema degli indicatori di benessere è appassionante. Lo è da quando, negli Stati Uniti, ottanta anni fa, Simon Kuznets, economista e matematico, figlio di immigrati ebrei ucraini, costruì, algoritmo dopo algoritmo, un termometro economico capace di indicare la ricchezza di un paese, un indicatore in grado di preannunciare terremoti come quelli che avevano stordito il mondo nel 1929. Fu abile, Kuznets (si prese un meritato Nobel): si racconta che furono i suoi calcoli a convincere i governanti di Washington che gli Stati Uniti avrebbero potuto combattere  e vincere la seconda guerra mondiale. Al contrario: in assenza di una contabilità nazionale, la Germania di Hitler aveva sopravvalutato le sue reali capacità produttive.


Con il tempo, la creatura di Kuznets si è trasformata: era un talismano, è diventata un feticcio. Un totem. Ha preso le redini dell’economia mondiale, guidato strategie e programmazioni economiche, imposto la sua dittatura. Troppo potere per un semplice numero. Alla fine, contro la tirannia del Pil si è scatenata una sacrosanta una ribellione.
Oggi, la battaglia contro il Pil è strana e incerta: questo indicatore è isolato, accerchiato, sembra sconfitto. Eppure non è così: è un Alien che risorge continuamente e continua a comandare a bacchetta politiche economiche e sociali. Da decenni si cercano e si costruiscono indicatori alternativi (Isu. Isut, Quars, Isew, Gpi, Gis, Pqi, Nef, Impronta ecologica, Living Planet Index, Gnh…..) e nessuno sembra avere la forza per scalzare il primato del Pil.
Enrico Giovannini è stato ed è uno dei protagonisti del dibattito mondiale attorno agli indicatori di benessere. Un testimone di una discussione infinita. Il presidente dell’Istat siede al lungo tavolo delle riunioni nella sua grande stanza. Le sue prime parole sembrano incoraggiare le truppe dei ribelli anti-Pil: ‘Proveremo a dargli una spallata. Vediamo se questa volta ci riesce….’.

Ne è sicuro? E’ vero, non trovo nessun che mi parli bene del Pil, eppure, questo indicatore così poco amato, appare imbattibile e immortale.

“Attenzione, il Pil non è necessariamente sbagliato. E’ abbastanza preciso quando misura i beni e i servizi che passano per il mercato aumentati di quelli forniti dalle amministrazioni pubbliche. E’, certamente, il miglior indicatore per misurare la produttività di un paese. Ci aiuta a comprendere i fenomeni economici, ma sicuramente non riesce a dirci lo stato di salute economica delle famiglie. E’ altrettanto vero che nei sistemi di contabilità nazionale ci sono altre variabili che, a partire dal Pil, sarebbero capaci di darci un mano: il cosiddetto reddito disponibile delle famiglie, ad esempio, aggiustato con il calcolo dei servizi che queste stesse famiglie ricevono, potrebbe esserci molto utile per capire il loro benessere economico. Negli Stati Uniti le tasse sono inferiori rispetto all’Italia, ma si paga di tasca propria l’assistenza sanitaria. Da noi è l’inverso. Alla fine il risultato non cambia. Questo per dire che prendere in considerazione solo il reddito disponibile, non è sufficiente: è un dato che va integrato con i servizi forniti grazie alla tassazione. Insomma, nei conti di un paese ci sono molti indicatori che potrebbero essere utilizzati se vogliamo parlare dello stato di salute delle famiglie e non solo delle imprese. 
Al Pil non possiamo chiedere quanto non può darci: fu costruito per misurare la produzione, per valutare la salute di un sistema, non di chi sta dentro questo sistema. In Italia, le faccio un altro esempio, il reddito disponibile, negli ultimi dieci anni, è cresciuto meno del Pil. Dove è andata la differenza? All’estero. Sotto forma di profitti di società multinazionali o di rimesse degli immigrati. Ancora: sono cresciuti i guadagni delle società finanziare e diminuiti quelli delle imprese di medie e grandi dimensioni. Sono tutte fotografie che non riusciremmo a vedere se guardiamo solo al Pil”.

E allora?
“Nessuno, mi creda, vuole uccidere il Pil. Va integrato con altre misure e, anche nello stesso campo puramente economico vanno considerate altre misure della contabilità nazionale più precise nel misurare il reale stato di salute di un paese”.



Da sempre lei sostiene che sono necessari più indicatori. Più dimensioni. Un solo numero non può raccontare un paese. Crede che si sia raggiunto un accordo nella la comunità economica internazionale.
“Sì, oramai vi è un’intesa generale. In questi anni, l’Ocse ha fatto un gran lavoro. Il rapporto finale della commissione Stiglitz, voluta dal presidente francese Sarkozy, ha indicato otto dimensioni che incidono sul benessere di un paese. Bisogna tener conto della salute, del lavoro, dell’ambiente, dell’insicurezza, delle relazioni interpersonali. Alla fine potremmo avere otto indicatori, ma non è così semplice. Anche questo Pil allargato non riesce a tener conto del lavoro domestico, di quello delle donne o delle esternalità negative dell’ambiente. Ci sono davvero cose che non hanno un prezzo e una metrica monetaria non riesce a portarci da nessuna parte”.

Mi fa qualche esempio?
“Pensi solo alle relazioni interpersonali. Sono così importanti, ma come si fa quantificarle? Ci prova l’economia comportamentale con i prezzi ombra. Ma possiamo davvero chiederci a quanto rinunceremmo del nostro reddito pur di avere un altro amico? E’ un calcolo troppo incerto e impreciso. Una delle ragioni del successo del Pil è la sua solidità. E’ vero anche che ci sono indicatori sintetici alternativi come l’Indice di Sviluppo Umano. Le sue classifiche ci dicono che l’Italia è al 48esimo posto nel mondo. E io mi chiedo: e allora? Che cosa vuol dire? Questa classifica non mi spiega certo dove sono migliore o peggiore. Non  mi dice dove sono debole e dove invece sono forte. Una batteria di indicatori, invece, è capace di darci una fotografia attendibile della realtà di un paese”.



Più indicatori, dunque. I lavori della commissione Stiglitz hanno raccomandato otto dimensioni da misurare. Ogni paese, Italia compresa, ha formato altre commissioni per lavorare sul tema degli indicatori. Lei si occupa di questa materia da anni e anni. Ma non si è già detto tutto? Non si corre il rischio che ogni paese, alla fine, avrà i suoi indicatori?
“Sì, ma non è un rischio. E’ un bene. In realtà ciò che conta per l’umanità è molto simile da un continente all’altro. In ogni paese sono importanti la speranza di vita, gli anni di scolarizzazione, la qualità dell’istruzione. Quello che è certo è che una statistica armonizzata a livello internazionale non può essere un solo numero. Ed è altrettanto vero che non si può affermare l’importanza di un parametro rispetto a un altro. E’ necessario che vi sia un sentire comune in un paese. Gli indicatori devono avere una loro legittimità democratica. Uno stesso numero, visto da destra e visto da sinistra, può avere due significati diversi. L’aumento dei divorzi può essere considerato positivamente: è la libertà di sciogliere un vincolo matrimoniale e di evitare inferni domestici. Oppure, lo stesso numero può essere interpretato come l’indicatore della disgregazione della famiglia. Cosa abbiamo risolto mettendo un segno positivo o negativo accanto al numero dei divorzi?
Il lavoro delle commissioni nazionali, come quello svolto all’Ocse, non ha mai cercato di reinventare la ruota, ma tenta di capire quali dimensioni esprimono una nazione. Nei paesi scandinavi, a esempio, l’aumento della disuguaglianza è considerato un fatto fortemente negativo. All’opposto, in Gran Bretagna, è irrilevante, anzi è visto come uno stimolo alla crescita.  Vi è bisogno, perciò, di un accordo politico e non semplicemente statistico. Se rimaniamo ossessionati dal confronto con altri paesi, non riusciremo mai a trovare un’intesa sui dieci o venti indicatori che esprimono lo stato di un paese. Pensi, in Italia non abbiamo ancora deciso se siamo in declino o se siamo in paradiso. Come facciamo a risolvere problemi se ignoriamo di averlo? No, non credo che sia utile sapere in che posto di una classifica mondiale ci troviamo in base a parametri decisi a New York. Molto più utile confrontare, nel tempo, la situazione di un paese secondo indicatori condivisi”. 



Non vi è il pericolo che il governo di un paese scelga l’indicatore che più gli conviene?
“Le ripeto: alla fine, dopo centinaia e centinaia di conferenze, iniziative, studi, commissioni, abbiamo scoperto che la nostra natura umana ci fa essere più simili di quello che pensiamo. Io non vedo grandi differenze fra la lista di indicatori che, nonostante specificità diverse, si sta approntando in Bhutan rispetto a quando stiamo affinando in Occidente”.

Non credo che mi parli di Bhutan per caso. Questo piccolo regno himalayano è uno dei miti per chi si occupa di indicatori di benessere. Nel 1972, quaranta anni fa, il  re Jigme Singye Wangchuck decise di sostituire il Pil con un indicatore di felicità…
“Sì, ma solo ora stanno cercando di realizzarlo. Il Bhutan è davvero un mito. Come il Pil. Adesso, come ovunque, stanno lavorando su una batteria di indicatori e di dimensioni che non sono poi così diversi da quelli che stiamo pensando in Europa. Le ripeto: ci sono specificità più che vere differenze. In Bhutan vogliono misurare il sorriso. Sono convinti che il sorriso sia espressione dell’anima. Ma non è la stessa cosa che fa la nostra economia comportamentale? Usiamo tecniche neurologiche per capire come realmente stiamo al di là di quanto noi stessi pensiamo. Negli Stati Uniti e in Francia hanno dato a un campione di uomini e donne una macchinetta che suona casualmente durante il giorno e, all’istante, bisogna dire cosa si sta facendo e come ci si sente. Certo, poi negli Stati Uniti si è scoperto che a un maggior tempo libero, corrisponde solo più ore passate davanti alla televisione. Mentre in Francia, si esce a camminare o si va al bar”.



Presidente Giovanni, ho la sensazione che stiamo facendo una conversazione di sociologia e non di statistica
“Statistica sta a significare ‘scienza dello stato’. E già nel 1839, l’economista Melchiorre Gioia sosteneva che era necessario misurare la felicità”.

Ma lei non è d’accordo ed esclude che la felicità si possa misurare.
“E’ vero. Non credo che si possa misurare la felicità. Preferisco parlare di lyfe satisfaction e non di happiness. Abbiamo imparato molto dalla discussione infinita sulle differenze fra benessere e felicità. Fra statistici ci siamo accapigliati per anni prima di capire che stavamo parlando di due cose diverse. Io credo che sostituire un indicatore composito con l’unica domanda: Sei felice? sia sbagliato. Se io adesso glielo chiedessi, lei mi risponderebbe di istinto in base a quanto sta vivendo in questo momento. Se le è piaciuto il caffé che le abbiamo offerto, probabilmente mi direbbe che è felice. Ma se io le chiedessi: E’ soddisfatto? Ecco che lei penserebbe a quanto si aspettava dalla sua vita, a quanto ha realizzato, a quanto pensa di fare ancora. Sono due processi mentali radicalmente diversi. La felicità è un istante, mi fa capire come sta lei ora e come sta reagendo a qualcosa che le sta accadendo. La soddisfazione, sempre su un piano soggettivo, è qualcosa che mi dice di più. Mi racconta del passato e del futuro. Se lei ha appena vinto alla lotteria o sta per partire per un’isola del Pacifico, mi risponderà che è felice, ma fra una settimana la sua felicità potrebbe essere distrutta. Allora la domanda più corretta è sulla sostenibilità della sua felicità. Per questo io credo che sia necessario parlare di ‘benessere equo e sostenibile’. Io voglio sapere delle disuguaglianze fra ricchi e poveri e delle disuguaglianze fra generazioni. Voglio, cioè, sapere se questa mia generazione sta mangiandosi o meno il futuro dei suoi figli. Per questo ho bisogno di avere più indicatori che mi facciano conoscere una molteplicità di aspetti. Ho bisogno di intuire anche il futuro. Il benessere equo e sostenibile tiene conto di dati oggettivi e soggettivi e rappresenta davvero lo stato di un paese. Non illudiamoci che un unico indice sia capace di darci questa fotografia”.


Domanda inopportuna a uno statistico: è davvero così necessario misurare? Siamo condannati allo stress di una misurazione continua della nostra vita?
“Ha ragione. Rischiamo uno stress da prestazioni. E’ come se mi tenessi continuamente un dito sulle vene del polso: non vivrei bene con l’ansia della pressione. E’ vero che il potere politico ha interesse a volere risultati in tempi brevissimi. Sgombriamo il campo da equivoci: in Grecia, la statistica si è piegata alla politica e ha ingannato. Credo che tutti si siano resi conto dei danni che questo ha provocato. Ma io sto parlando di altro: un sindaco di Vienna, nel 1700, decise una tassazione straordinaria dei cittadini per alzare gli argini del Danubio. Venne criticato e fu ricordato come uno dei peggiori sindaci della città. Fino a quando non arrivò un’alluvione dalla quale Vienna si salvò grazie a quelle difese. Solo allora si riconobbe la lungimiranza di quel sindaco. Ecco, io vorrei una visione politica di lungo periodo capace di far sognare, capace di investire oggi per un risultato che vi sarà solo fra dieci anni e che non può essere misurato ogni trimestre o ogni anno. Noi abbiamo bisogno di indicatori di outcome, capaci, cioè, di misurare benefici durevoli. Mi dice poco sapere il numero di studenti per professore. E’ importante, invece, conoscere quello che realmente sa uno studente a quindici anni. Mi sta bene sapere che la speranza di vita è aumentata, ma se poi scopro che si passano anni a letto e in condizioni malandate, non è un gran progresso. Voglio capire se questi anni in più di vita sono anche in buona salute. Un indicatore del genere impedirebbe a un governo di rivendicare a sé il merito di un risultato così complesso e di lungo termine”.

Una batteria di indicatori può essere utilizzata anche a livello locale?
“Sì. Assolutamente sì. Anzi: soprattutto a livello locale. Tutto questo gran lavorio di iniziative internazionali è rivolto a dimensioni locali. A Bogotà, i candidati a sindaco devono sottoscrivere un patto inderogabile: dovranno rendere noti, durante il loro mandato, indicatori che raccontino lo stato di salute della città. Se non lo fanno, rischiano una procedura di impeachment. E questo modello sta replicandosi in buona parte America Latina. E’ una nuova contabilità: la gente vuole capire dove sta andando il luogo dove abita. A livello locale è davvero possibile un controllo efficace. Keynes non aveva il Pil, ma teneva in considerazione l’occupazione: per lui, l’economia era una scienza morale e il lavoro era importante. Non solo per il reddito, ma anche per il riconoscimento sociale che comportava”.





Eppure qualunque ricercatore che lavori sul livello locale le potrebbe dirle come è stressato dai sindaci ansiosi di conoscere il Pil del proprio comune.
“Un sindaco che domanda una cosa del genere conosce poco della statistica. Se io fossi un sindaco vorrei sapere il livello e la qualità dell’occupazione del mio territorio. Il Pil non sa dirmi niente, anzi può ingannarmi. La Liguria è la regione più vecchia d’Italia, ma ha, proprio per questo, una grande ricchezza accumulata. Il governatore di questa regione dovrebbe preoccuparsi per il futuro dei figli. Può accadere che il Pil sia soddisfacente se chi ha un lavoro ha anche una certa età e quindi, probabilmente, guadagni elevati. Ma se io guardo anche al tasso di disoccupazione giovanile, scopro che il futuro è un’incognita. In questo caso il Pil non dà solo una fotografia parziale, ma sbagliata. I parametri di un benessere equo e sostenibile, al contrario, mi aiuterebbero capire cosa sta accadendo e a decidere politiche più adeguate”.  

Comunicare più indicatori non è certo facile. Il Pil è rozzo, ma semplice ed efficace. In Canada si sta lavorando, a differenza degli altri paesi, al tentativo di un indice alternativo unico e composito. Come risolvere il problema di comunicare batterie di indicatori?
“Vi è un paradosso. Se vengono messe assieme le diverse dimensioni a cui i diversi indicatori si riferiscono, si scopre che vi sono molte correlazioni negative. All’isola di Pasqua sono state fatte scellerate politiche di agricoltura intensiva. E oggi non è più possibile coltivare niente perché i terreni si sono inariditi. Accade lo stesso con bacini marini quando la pesca è stata eccessiva e gli ecosistemi sono stati disintegrati. Ancora: quaranta anni fa in Italia vi erano dieci milioni di automobili, oggi sono 34 milioni. Il Pil è felicissimo di questa crescita, ma il tempo che noi passiamo nel traffico congestionato è aumentato sensibilmente. L’agricoltura all’isola di Pasqua, la pesca intensiva, il traffico caotico sono tutti esempi di correlazione negativa fra indicatori diversi.  
E’ vero che in Canada si cerca di arrivare a un indicatore sintetico. Con un rischio: che queste correlazioni negative producano un indice completamente piatto. E’ il paradosso di Easterling: oltre un certo livello, a una maggior crescita non corrisponde una maggior felicità. Anzi, vi sono diseconomie. In più: lei, come giornalista, avrebbe molte difficoltà a comunicare un indicatore piatto. Abbiamo suggerito ai canadesi di scegliere ogni mese un indicatore diverso, come la salute, l’educazione o l’ambiente, e concentrare la comunicazione su una singola dimensione. Altrimenti davvero non c’è modo di sconfiggere il Pil: noi pubblichiamo i calcoli sul Pil almeno due volte a trimestre. Sul piano della comunicazione, il Pil è imbattibile, ma la divulgazione non può fare premio sui contenuti”.








Ho sempre il sospetto che con più indicatori, ognuno sceglierà di puntare su quello che più gli conviene.
“Dobbiamo trovare un punto di equilibrio. In Italia, dovremo trovare consenso fra Confindustria, sindacati, ambientalisti, associazione di volontariato. Dobbiamo costruire una Costituzione Statistica su cui vi sia accordo e condivisione. La Costituzione è un punto di riferimento. Generico quanto si vuole, ma capace di rappresentare tutti. Deve accadere lo stesso in statistica: venti indicatori, o quanti saranno, per raccontare l’Italia non sono una parola finale, ma una rappresentazione, un po’ impressionista se vogliamo, di come sta il nostro paese e di dove sta andando”

Sa cosa penso? Che questa ossessione per gli indicatori sia una necessità tutto occidentale. Che questo sia un dibattito nostro e che non valga per i paese asiatici, latinoamericani e, soprattutto, africani.
“No, non è così. Misurare rimane importante per tutti. L’Asia, forse, è più avanti di noi. In Cina si parla di società armoniosa. E’ un dibattito ben presente in Corea e in Giappone. Direi che il problema degli indicatori è più avvertito in Oriente che in Occidente. Anche il Sudamerica sta muovendosi. Diversa, è vero, la situazione africana. Ho la sensazione che l’Africa soffra drammaticamente del nostro colonialismo statistico. Banca Mondiale, Fondo Monetario, Nazioni Unite, le grandi organizzazioni che danno soldi, chiedono ai paesi africani di fare censimenti attendibili, di fornirci dati sul commercio estero, di rivelarci i conti dell’amministrazione pubblica e di conoscere il tasso di disoccupazione e l’inflazione. E così via.





All’Ocse, cominciammo molti anni fa  a parlare di capitale umano, sociale, naturale. Ci venne risposto, dai grandi organismi, che prima si doveva avere un quadro completo delle statistiche tradizionali. La Banca Mondiale vuole conoscere il Pil e il debito del paese prima di dare soldi. Non è interessata al capitale sociale. E se invece, considerando proprio il capitale sociale, potessimo avere una sorpresa? Potremmo anche scoprire che l’Africa è ben più ricca di noi e che quanto le stiamo suggerendo di fare, in realtà, distrugge questa sua ricchezza. Questa contabilità ignorata non potrebbe farci cambiare le nostre idee su questo continente? Noi abbiamo in gran parte distrutto il nostro capitale sociale, perché l’Africa deve fare altrettanto? Forse hanno una ricchezza insospettata. Noi consideriamo il capitale sociale, quello umano e quello naturale come dei lussi. Potrebbe non essere così.
Un funzionario della Banca Mondiale, una volta, mi raccontò di una sua visita in uno slum di una grande città africana. Un posto terribile. Lui chiese di cosa avessero bisogno i suoi abitanti: gli parlarono di strade e di acqua. Solo alla fine, quando stava per andarsene, venne avvicinato da una donna. Che, quasi  timidamente, domandò se era possibile fare qualcosa di molto semplice: girare un potente lampione che illuminava solo un cavalcavia. Questa illuminazione, rivolta verso le strade del suo quartiere, avrebbe permesso alla donna di poter uscire la sera con maggior sicurezza. Il funzionario rimase perplesso e la donna gli spiegò che durante l’incontro pubblico gli erano state richieste cose che loro sapevano avrebbero trovato facile presa in un bianco. Ma il problema della sicurezza, affrontato con una maggior illuminazione notturna, era allo stesso tempo così semplice e così importante che la donna era intimorita a sollevarlo. Ecco, la discussione più elementare su fattori di benessere reale può davvero aiutare il mondo a stare meglio. Soprattutto quando il confronto è fatto a livello di villaggio, di paese, di città”.  

Il luogo dell’intervista
Palazzo dell’Istat. A pochi passi dalla stazione Termini. Labirinto di corridoi, legni, scale, marmi, dedalo di stanze. Ricercatori che entrano ed escono. Guardie giurate lo sorvegliano. Tornelli all’ingresso. Passi da esibire sulla giacchetta. Secondo piano. Grande stanza d’angolo del presidente. Sediamo lontano dalla scrivania. Caffé, acqua minerale. Palazzo di altri tempi. Altre architetture. La modernità della statistica contemporanea si muove nei grandi spazi fisici di un razionalismo quasi barocco. Dietro le porte chiuse, gli uomini e le donne dei numeri, di fronte ai monitor dei computer, cercano di darci un’idea dell’Italia




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