Confesso: metto qui questa intervista per ritrovare una 'normalità' in queste settimane di Matera e della Lucania. Stacco per un giorno l'attenzione dai riti arborei e dalla frenesia dei preparativi della Festa della Bruna. Mi reimpossesso di un mestiere ibrido e confuso. Lo faccio in maniera facile. Con un vecchio lavoro.
La prossima settimana la commissione presieduta da Enrico Giovannini, presidente dell'Istat, l'Istituto di Statistica, presenterà il suo rapporto sugli indicatori benessere. E' stato un lavoro lungo e, per le coincidenze della storia, vede la luce nei mesi in cui si parla solo di Pil e di crescita. Sono i totem del mondo contemporaneo. Un rapporto fuori tempo, dunque? Una ricerca e uno studio già invecchiato ai tempi della Grande Crisi? Oppure il tentativo 'ufficiale' di dire che ci sono altre possibilità....
Le parole di Giovannini sono interessanti perchè offrono altri 'punti di vista'. Mesi fa, per il libro 'Politiche per uno sviluppo umano sostenibile', curato da Enrica Chiappero-Martinetti, ho intervistateo il presidente dell'Istat attorno ai problemi del Prodotto Interno Lordo. Qui sotto quando mi disse allora.
L’incontro con Enrico Giovannini, 54 anni, presidente
dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica, avrebbe dovuto essere ‘misurato’:
la sua segreteria aveva messo un preciso limite di tempo. Ma Giovannini, uomo
dei numeri e delle statistiche (per otto anni è stato chief director degli uffici statistici dell’Ocse e ha fatto parte
della commissione Stiglitz, voluta dal governo francese e incaricata di aprire
la strada a nuovi indicatori socio-economici), non si accontenta di tabelle e
istogrammi: sa far parlare quelle cifre; anzi, quasi se ne dimentica, e le sue
parole sembrano cambiare rotta e dirigersi verso la sociologia, la filosofia.
Vorrei dire (ma non lo dico): verso la politica. E allora una conversazione con
lui non riesce a essere ingabbiata nella mezz’ora pattuita. Si allunga e
potrebbe durare ore e ore. Giovannini è un uomo appassionato e il tema degli indicatori di benessere è appassionante.
Lo è da quando, negli Stati Uniti, ottanta anni fa, Simon Kuznets, economista e
matematico, figlio di immigrati ebrei ucraini, costruì, algoritmo dopo
algoritmo, un termometro economico capace di indicare la ricchezza di un paese,
un indicatore in grado di preannunciare terremoti come quelli che avevano
stordito il mondo nel 1929. Fu abile, Kuznets (si prese un meritato Nobel): si racconta
che furono i suoi calcoli a convincere i governanti di Washington che gli Stati
Uniti avrebbero potuto combattere e
vincere la seconda guerra mondiale. Al contrario: in assenza di una contabilità
nazionale, la Germania di Hitler aveva sopravvalutato le sue reali capacità
produttive.
Con il tempo, la creatura di Kuznets si è trasformata: era
un talismano, è diventata un feticcio. Un totem. Ha preso le redini
dell’economia mondiale, guidato strategie e programmazioni economiche, imposto
la sua dittatura. Troppo potere per un semplice numero. Alla fine, contro la
tirannia del Pil si è scatenata una sacrosanta una ribellione.
Oggi, la battaglia contro il Pil è strana e incerta: questo
indicatore è isolato, accerchiato, sembra sconfitto. Eppure non è così: è un Alien che risorge continuamente e
continua a comandare a bacchetta politiche economiche e sociali. Da decenni si
cercano e si costruiscono indicatori alternativi (Isu. Isut, Quars, Isew, Gpi, Gis, Pqi, Nef, Impronta
ecologica, Living Planet Index, Gnh…..) e nessuno sembra avere la forza
per scalzare il primato del Pil.
Enrico Giovannini è stato ed è uno dei protagonisti del
dibattito mondiale attorno agli indicatori di benessere. Un testimone di una
discussione infinita. Il presidente dell’Istat siede al lungo tavolo delle
riunioni nella sua grande stanza. Le sue prime parole sembrano incoraggiare le
truppe dei ribelli anti-Pil: ‘Proveremo a dargli una spallata. Vediamo se questa
volta ci riesce….’.
Ne è sicuro? E’ vero,
non trovo nessun che mi parli bene del Pil, eppure, questo indicatore così poco
amato, appare imbattibile e immortale.
“Attenzione, il Pil non è necessariamente sbagliato. E’
abbastanza preciso quando misura i beni e i servizi che passano per il mercato
aumentati di quelli forniti dalle amministrazioni pubbliche. E’, certamente, il
miglior indicatore per misurare la produttività di un paese. Ci aiuta a
comprendere i fenomeni economici, ma sicuramente non riesce a dirci lo stato di
salute economica delle famiglie. E’ altrettanto vero che nei sistemi di
contabilità nazionale ci sono altre variabili che, a partire dal Pil, sarebbero
capaci di darci un mano: il cosiddetto reddito
disponibile delle famiglie, ad esempio, aggiustato con il calcolo dei
servizi che queste stesse famiglie ricevono, potrebbe esserci molto utile per
capire il loro benessere economico. Negli Stati Uniti le tasse sono inferiori
rispetto all’Italia, ma si paga di tasca propria l’assistenza sanitaria. Da noi
è l’inverso. Alla fine il risultato non cambia. Questo per dire che prendere in
considerazione solo il reddito disponibile, non è sufficiente: è un dato che va
integrato con i servizi forniti grazie alla tassazione. Insomma, nei conti di
un paese ci sono molti indicatori che potrebbero essere utilizzati se vogliamo
parlare dello stato di salute delle famiglie e non solo delle imprese.
Al Pil non possiamo chiedere quanto non può darci: fu
costruito per misurare la produzione, per valutare la salute di un sistema, non
di chi sta dentro questo sistema. In Italia, le faccio un altro esempio, il
reddito disponibile, negli ultimi dieci anni, è cresciuto meno del Pil. Dove è
andata la differenza? All’estero. Sotto forma di profitti di società
multinazionali o di rimesse degli immigrati. Ancora: sono cresciuti i guadagni
delle società finanziare e diminuiti quelli delle imprese di medie e grandi
dimensioni. Sono tutte fotografie che non riusciremmo a vedere se guardiamo
solo al Pil”.
E allora?
“Nessuno, mi creda, vuole uccidere il Pil. Va integrato con
altre misure e, anche nello stesso campo puramente economico vanno considerate
altre misure della contabilità nazionale più precise nel misurare il reale
stato di salute di un paese”.
Da sempre lei
sostiene che sono necessari più indicatori. Più dimensioni. Un solo numero non
può raccontare un paese. Crede che si sia raggiunto un accordo nella la
comunità economica internazionale.
“Sì, oramai vi è un’intesa generale. In questi anni, l’Ocse
ha fatto un gran lavoro. Il rapporto finale della commissione Stiglitz, voluta
dal presidente francese Sarkozy, ha indicato otto dimensioni che incidono sul
benessere di un paese. Bisogna tener conto della salute, del lavoro,
dell’ambiente, dell’insicurezza, delle relazioni interpersonali. Alla fine potremmo
avere otto indicatori, ma non è così semplice. Anche questo Pil allargato non riesce a tener conto del
lavoro domestico, di quello delle donne o delle esternalità negative
dell’ambiente. Ci sono davvero cose che non hanno un prezzo e una metrica
monetaria non riesce a portarci da nessuna parte”.
Mi fa qualche
esempio?
“Pensi solo alle relazioni interpersonali. Sono così
importanti, ma come si fa quantificarle? Ci prova l’economia comportamentale
con i prezzi ombra. Ma possiamo davvero
chiederci a quanto rinunceremmo del nostro reddito pur di avere un altro amico?
E’ un calcolo troppo incerto e impreciso. Una delle ragioni del successo del
Pil è la sua solidità. E’ vero anche che ci sono indicatori sintetici alternativi
come l’Indice di Sviluppo Umano. Le sue classifiche ci dicono che l’Italia è al
48esimo posto nel mondo. E io mi chiedo: e allora? Che cosa vuol dire? Questa
classifica non mi spiega certo dove sono migliore o peggiore. Non mi dice dove sono debole e dove invece sono
forte. Una batteria di indicatori, invece, è capace di darci una fotografia
attendibile della realtà di un paese”.
Più indicatori,
dunque. I lavori della commissione Stiglitz hanno raccomandato otto dimensioni
da misurare. Ogni paese, Italia compresa, ha formato altre commissioni per
lavorare sul tema degli indicatori. Lei si occupa di questa materia da anni e
anni. Ma non si è già detto tutto? Non si corre il rischio che ogni paese, alla
fine, avrà i suoi indicatori?
“Sì, ma non è un rischio. E’ un bene. In realtà ciò che
conta per l’umanità è molto simile da un continente all’altro. In ogni paese sono
importanti la speranza di vita, gli anni di scolarizzazione, la qualità dell’istruzione.
Quello che è certo è che una statistica armonizzata a livello internazionale
non può essere un solo numero. Ed è altrettanto vero che non si può affermare
l’importanza di un parametro rispetto a un altro. E’ necessario che vi sia un
sentire comune in un paese. Gli indicatori devono avere una loro legittimità
democratica. Uno stesso numero, visto da destra e visto da sinistra, può avere
due significati diversi. L’aumento dei divorzi può essere considerato
positivamente: è la libertà di sciogliere un vincolo matrimoniale e di evitare
inferni domestici. Oppure, lo stesso numero può essere interpretato come
l’indicatore della disgregazione della famiglia. Cosa abbiamo risolto mettendo
un segno positivo o negativo accanto al numero dei divorzi?
Il lavoro delle commissioni nazionali, come quello svolto
all’Ocse, non ha mai cercato di reinventare la ruota, ma tenta di capire quali
dimensioni esprimono una nazione. Nei paesi scandinavi, a esempio, l’aumento
della disuguaglianza è considerato un fatto fortemente negativo. All’opposto, in
Gran Bretagna, è irrilevante, anzi è visto come uno stimolo alla crescita. Vi è bisogno, perciò, di un accordo politico e
non semplicemente statistico. Se rimaniamo ossessionati dal confronto con altri
paesi, non riusciremo mai a trovare un’intesa sui dieci o venti indicatori che
esprimono lo stato di un paese. Pensi, in Italia non abbiamo ancora deciso se
siamo in declino o se siamo in paradiso. Come facciamo a risolvere problemi se
ignoriamo di averlo? No, non credo che sia utile sapere in che posto di una
classifica mondiale ci troviamo in base a parametri decisi a New York. Molto
più utile confrontare, nel tempo, la situazione di un paese secondo indicatori
condivisi”.
Non vi è il pericolo
che il governo di un paese scelga l’indicatore che più gli conviene?
“Le ripeto: alla fine, dopo centinaia e centinaia di
conferenze, iniziative, studi, commissioni, abbiamo scoperto che la nostra
natura umana ci fa essere più simili di quello che pensiamo. Io non vedo grandi
differenze fra la lista di indicatori che, nonostante specificità diverse, si
sta approntando in Bhutan rispetto a quando stiamo affinando in Occidente”.
Non credo che mi
parli di Bhutan per caso. Questo piccolo regno himalayano è uno dei miti per
chi si occupa di indicatori di benessere. Nel 1972, quaranta anni fa, il re Jigme Singye Wangchuck decise di
sostituire il Pil con un indicatore di felicità…
“Sì, ma solo ora stanno cercando di realizzarlo. Il Bhutan è
davvero un mito. Come il Pil. Adesso, come ovunque, stanno lavorando su una
batteria di indicatori e di dimensioni che non sono poi così diversi da quelli
che stiamo pensando in Europa. Le ripeto: ci sono specificità più che vere
differenze. In Bhutan vogliono misurare il sorriso. Sono convinti che il
sorriso sia espressione dell’anima. Ma non è la stessa cosa che fa la nostra economia
comportamentale? Usiamo tecniche neurologiche per capire come realmente stiamo
al di là di quanto noi stessi pensiamo. Negli Stati Uniti e in Francia hanno
dato a un campione di uomini e donne una macchinetta che suona casualmente
durante il giorno e, all’istante, bisogna dire cosa si sta facendo e come ci si
sente. Certo, poi negli Stati Uniti si è scoperto che a un maggior tempo
libero, corrisponde solo più ore passate davanti alla televisione. Mentre in
Francia, si esce a camminare o si va al bar”.
Presidente Giovanni,
ho la sensazione che stiamo facendo una conversazione di sociologia e non di
statistica
“Statistica sta a significare ‘scienza dello stato’. E già
nel 1839, l’economista Melchiorre Gioia sosteneva che era necessario misurare
la felicità”.
Ma lei non è
d’accordo ed esclude che la felicità si possa misurare.
“E’ vero. Non credo che si possa misurare la felicità.
Preferisco parlare di lyfe satisfaction
e non di happiness. Abbiamo imparato
molto dalla discussione infinita sulle differenze fra benessere e felicità. Fra
statistici ci siamo accapigliati per anni prima di capire che stavamo parlando
di due cose diverse. Io credo che sostituire un indicatore composito con
l’unica domanda: Sei felice? sia
sbagliato. Se io adesso glielo chiedessi, lei mi risponderebbe di istinto in
base a quanto sta vivendo in questo momento. Se le è piaciuto il caffé che le
abbiamo offerto, probabilmente mi direbbe che è felice. Ma se io le chiedessi: E’ soddisfatto? Ecco che lei penserebbe
a quanto si aspettava dalla sua vita, a quanto ha realizzato, a quanto pensa di
fare ancora. Sono due processi mentali radicalmente diversi. La felicità è un
istante, mi fa capire come sta lei ora e come sta reagendo a qualcosa che le
sta accadendo. La soddisfazione, sempre su un piano soggettivo, è qualcosa che
mi dice di più. Mi racconta del passato e del futuro. Se lei ha appena vinto
alla lotteria o sta per partire per un’isola del Pacifico, mi risponderà che è
felice, ma fra una settimana la sua felicità potrebbe essere distrutta. Allora
la domanda più corretta è sulla sostenibilità della sua felicità. Per questo io
credo che sia necessario parlare di ‘benessere
equo e sostenibile’. Io voglio sapere delle disuguaglianze fra ricchi e
poveri e delle disuguaglianze fra generazioni. Voglio, cioè, sapere se questa
mia generazione sta mangiandosi o meno il futuro dei suoi figli. Per questo ho
bisogno di avere più indicatori che mi facciano conoscere una molteplicità di
aspetti. Ho bisogno di intuire anche il futuro. Il benessere equo e sostenibile
tiene conto di dati oggettivi e soggettivi e rappresenta davvero lo stato di un
paese. Non illudiamoci che un unico indice sia capace di darci questa
fotografia”.
Domanda inopportuna a
uno statistico: è davvero così necessario misurare? Siamo condannati allo
stress di una misurazione continua della nostra vita?
“Ha ragione. Rischiamo uno stress da prestazioni. E’ come se
mi tenessi continuamente un dito sulle vene del polso: non vivrei bene con
l’ansia della pressione. E’ vero che il potere politico ha interesse a volere
risultati in tempi brevissimi. Sgombriamo il campo da equivoci: in Grecia, la
statistica si è piegata alla politica e ha ingannato. Credo che tutti si siano
resi conto dei danni che questo ha provocato. Ma io sto parlando di altro: un
sindaco di Vienna, nel 1700, decise una tassazione straordinaria dei cittadini
per alzare gli argini del Danubio. Venne criticato e fu ricordato come uno dei
peggiori sindaci della città. Fino a quando non arrivò un’alluvione dalla quale
Vienna si salvò grazie a quelle difese. Solo allora si riconobbe la
lungimiranza di quel sindaco. Ecco, io vorrei una visione politica di lungo
periodo capace di far sognare, capace di investire oggi per un risultato che vi
sarà solo fra dieci anni e che non può essere misurato ogni trimestre o ogni
anno. Noi abbiamo bisogno di indicatori di outcome,
capaci, cioè, di misurare benefici durevoli. Mi dice poco sapere il numero di
studenti per professore. E’ importante, invece, conoscere quello che realmente sa
uno studente a quindici anni. Mi sta bene sapere che la speranza di vita è
aumentata, ma se poi scopro che si passano anni a letto e in condizioni
malandate, non è un gran progresso. Voglio capire se questi anni in più di vita
sono anche in buona salute. Un indicatore del genere impedirebbe a un governo
di rivendicare a sé il merito di un risultato così complesso e di lungo termine”.
Una batteria di
indicatori può essere utilizzata anche a livello locale?
“Sì. Assolutamente sì. Anzi: soprattutto a livello locale.
Tutto questo gran lavorio di iniziative internazionali è rivolto a dimensioni
locali. A Bogotà, i candidati a sindaco devono sottoscrivere un patto
inderogabile: dovranno rendere noti, durante il loro mandato, indicatori che raccontino
lo stato di salute della città. Se non lo fanno, rischiano una procedura di impeachment. E questo modello sta
replicandosi in buona parte America Latina. E’ una nuova contabilità: la gente
vuole capire dove sta andando il luogo dove abita. A livello locale è davvero possibile
un controllo efficace. Keynes non aveva il Pil, ma teneva in considerazione
l’occupazione: per lui, l’economia era una scienza morale e il lavoro era
importante. Non solo per il reddito, ma anche per il riconoscimento sociale che
comportava”.
Eppure qualunque
ricercatore che lavori sul livello locale le potrebbe dirle come è stressato
dai sindaci ansiosi di conoscere il Pil del proprio comune.
“Un sindaco che domanda una cosa del genere conosce poco
della statistica. Se io fossi un sindaco vorrei sapere il livello e la qualità
dell’occupazione del mio territorio. Il Pil non sa dirmi niente, anzi può
ingannarmi. La Liguria è la regione più vecchia d’Italia, ma ha, proprio per
questo, una grande ricchezza accumulata. Il governatore di questa regione dovrebbe
preoccuparsi per il futuro dei figli. Può accadere che il Pil sia soddisfacente
se chi ha un lavoro ha anche una certa età e quindi, probabilmente, guadagni
elevati. Ma se io guardo anche al tasso di disoccupazione giovanile, scopro che
il futuro è un’incognita. In questo caso il Pil non dà solo una fotografia
parziale, ma sbagliata. I parametri di un benessere equo e sostenibile, al
contrario, mi aiuterebbero capire cosa sta accadendo e a decidere politiche più
adeguate”.
Comunicare più
indicatori non è certo facile. Il Pil è rozzo, ma semplice ed efficace. In
Canada si sta lavorando, a differenza degli altri paesi, al tentativo di un
indice alternativo unico e composito. Come risolvere il problema di comunicare
batterie di indicatori?
“Vi è un paradosso. Se vengono messe assieme le diverse
dimensioni a cui i diversi indicatori si riferiscono, si scopre che vi sono molte
correlazioni negative. All’isola di Pasqua sono state fatte scellerate
politiche di agricoltura intensiva. E oggi non è più possibile coltivare niente
perché i terreni si sono inariditi. Accade lo stesso con bacini marini quando
la pesca è stata eccessiva e gli ecosistemi sono stati disintegrati. Ancora:
quaranta anni fa in Italia vi erano dieci milioni di automobili, oggi sono 34 milioni.
Il Pil è felicissimo di questa crescita, ma il tempo che noi passiamo nel
traffico congestionato è aumentato sensibilmente. L’agricoltura all’isola di
Pasqua, la pesca intensiva, il traffico caotico sono tutti esempi di
correlazione negativa fra indicatori diversi.
E’ vero che in Canada si cerca di arrivare a un indicatore
sintetico. Con un rischio: che queste correlazioni negative producano un indice
completamente piatto. E’ il paradosso di Easterling: oltre un certo livello, a
una maggior crescita non corrisponde una maggior felicità. Anzi, vi sono
diseconomie. In più: lei, come giornalista, avrebbe molte difficoltà a
comunicare un indicatore piatto. Abbiamo suggerito ai canadesi di scegliere
ogni mese un indicatore diverso, come la salute, l’educazione o l’ambiente, e
concentrare la comunicazione su una singola dimensione. Altrimenti davvero non
c’è modo di sconfiggere il Pil: noi pubblichiamo i calcoli sul Pil almeno due
volte a trimestre. Sul piano della comunicazione, il Pil è imbattibile, ma la
divulgazione non può fare premio sui contenuti”.
Ho sempre il sospetto che con più indicatori, ognuno sceglierà di puntare su quello che più gli conviene.
“Dobbiamo trovare un punto di equilibrio. In Italia, dovremo
trovare consenso fra Confindustria, sindacati, ambientalisti, associazione di
volontariato. Dobbiamo costruire una Costituzione Statistica su cui vi sia
accordo e condivisione. La Costituzione è un punto di riferimento. Generico
quanto si vuole, ma capace di rappresentare tutti. Deve accadere lo stesso in
statistica: venti indicatori, o quanti saranno, per raccontare l’Italia non
sono una parola finale, ma una rappresentazione, un po’ impressionista se
vogliamo, di come sta il nostro paese e di dove sta andando”
Sa cosa penso? Che
questa ossessione per gli indicatori sia una necessità tutto occidentale. Che
questo sia un dibattito nostro e che non valga per i paese asiatici,
latinoamericani e, soprattutto, africani.
“No, non è così. Misurare rimane importante per tutti.
L’Asia, forse, è più avanti di noi. In Cina si parla di società armoniosa. E’
un dibattito ben presente in Corea e in Giappone. Direi che il problema degli
indicatori è più avvertito in Oriente che in Occidente. Anche il Sudamerica sta
muovendosi. Diversa, è vero, la situazione africana. Ho la sensazione che
l’Africa soffra drammaticamente del nostro colonialismo statistico. Banca
Mondiale, Fondo Monetario, Nazioni Unite, le grandi organizzazioni che danno
soldi, chiedono ai paesi africani di fare censimenti attendibili, di fornirci
dati sul commercio estero, di rivelarci i conti dell’amministrazione pubblica e
di conoscere il tasso di disoccupazione e l’inflazione. E così via.
All’Ocse, cominciammo molti anni fa a parlare di capitale umano, sociale, naturale. Ci venne risposto, dai grandi organismi, che prima si doveva avere un quadro completo delle statistiche tradizionali. La Banca Mondiale vuole conoscere il Pil e il debito del paese prima di dare soldi. Non è interessata al capitale sociale. E se invece, considerando proprio il capitale sociale, potessimo avere una sorpresa? Potremmo anche scoprire che l’Africa è ben più ricca di noi e che quanto le stiamo suggerendo di fare, in realtà, distrugge questa sua ricchezza. Questa contabilità ignorata non potrebbe farci cambiare le nostre idee su questo continente? Noi abbiamo in gran parte distrutto il nostro capitale sociale, perché l’Africa deve fare altrettanto? Forse hanno una ricchezza insospettata. Noi consideriamo il capitale sociale, quello umano e quello naturale come dei lussi. Potrebbe non essere così.
Un funzionario della Banca Mondiale, una volta, mi raccontò
di una sua visita in uno slum di una grande città africana. Un posto terribile.
Lui chiese di cosa avessero bisogno i suoi abitanti: gli parlarono di strade e di
acqua. Solo alla fine, quando stava per andarsene, venne avvicinato da una
donna. Che, quasi timidamente, domandò
se era possibile fare qualcosa di molto semplice: girare un potente lampione
che illuminava solo un cavalcavia. Questa illuminazione, rivolta verso le
strade del suo quartiere, avrebbe permesso alla donna di poter uscire la sera
con maggior sicurezza. Il funzionario rimase perplesso e la donna gli spiegò
che durante l’incontro pubblico gli erano state richieste cose che loro
sapevano avrebbero trovato facile presa in un bianco. Ma il problema della
sicurezza, affrontato con una maggior illuminazione notturna, era allo stesso
tempo così semplice e così importante che la donna era intimorita a sollevarlo.
Ecco, la discussione più elementare su fattori di benessere reale può davvero
aiutare il mondo a stare meglio. Soprattutto quando il confronto è fatto a
livello di villaggio, di paese, di città”.
Il luogo
dell’intervista
Palazzo dell’Istat. A pochi passi dalla stazione Termini.
Labirinto di corridoi, legni, scale, marmi, dedalo di stanze. Ricercatori che
entrano ed escono. Guardie giurate lo sorvegliano. Tornelli all’ingresso. Passi
da esibire sulla giacchetta. Secondo piano. Grande stanza d’angolo del
presidente. Sediamo lontano dalla scrivania. Caffé, acqua minerale. Palazzo di
altri tempi. Altre architetture. La modernità della statistica contemporanea si
muove nei grandi spazi fisici di un razionalismo quasi barocco. Dietro le porte
chiuse, gli uomini e le donne dei numeri, di fronte ai monitor dei computer,
cercano di darci un’idea dell’Italia
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