domenica 15 gennaio 2012

Accettura, la perfezione del Maggio


Questo non è un post. E' un articolo. Un vecchio articolo. Difficile da leggere sullo schermo di un computer. Ma ho voglia di metterlo qui. Per ricordare Angelo Labbate. Angelo, giornalista e antropologo, mi fece conoscere il Maggio di Accettura e il ricordo di quei giorni di Pentecoste è ancor oggi un'emozione.
Scusatemi, è troppo lungo per stare in un blog. Ma va bene così.



I buoi trascinano il Maggio, un grande cerro


Sono sopravvissuto al Maggio di Accettura. Felicemente sopravvissuto. Sono stati quattro giorni di gioia assoluta, baccanale euforico, sorpresa totale. Giorni eccitati, sopra le righe. Rileggo, con stupore, quanto dissi a un giornale lucano: ‘Nei miei viaggi non mi è mai successo di vivere una storia così emozionante e irraccontabile come il Maggio del vostro paese’. Sarò stato intontito dal vino e dalle zeppole, le frittelle offerte a interi cesti dalle donne, ma credo di aver detto la verità. Ricordo benissimo quando parlai con Angelo Labbate, giornalista e antropologo accetturese: era la notte dell’ultimo giorno, la festa non voleva finire, eravamo stremati e sopra di noi, ben piantato nella buca scavata nella piazza-anfiteatro di san Vito, svettava solitario quell’albero altissimo, quaranta metri da vertigini, un cerro e un agrifoglio sposati assieme, matrimonio entusiasmante di un rito arboreo. L’albero nudo, con una cima irraggiungibile di fronde, superava in altezza il campanile della chiesa. E, illuminato dalle luci colorate delle bancarelle, sembrava godersi ancora la festa, la sagra, la musica, le danze, il cibo, il vino. La bassa musica, tamburelli, trombe, fisarmoniche e zampogne, suonava ancora, sommessamente, per corteggiare la notte: era come una ninna dolcissima per gli spiriti della Natura delle foreste di Gallipoli-Cognato e delle cerrete di Montepiano. Si stavano finalmente addormentando dopo i giorni senza fine della Cuccagna.

Il cerro in marcia verso il paese


Scusate, il Maggio di Accettura accende dentro di me fotogrammi di felicità perfetta. La primavera lucana è una resurrezione. Gli inverni, qui, sono duri e lunghi. Accettura è a ottocento metri di altitudine, paese-sparviero (questo, forse, vuol dire il suo nome in un dimenticato latino), paese di montagna ai confini delle Dolomiti lucane. Poco più di duemila abitanti. E altrettanti emigrati nel dopoguerra: soprattutto a Nottingham, in Inghilterra, dove vivono almeno mille accetturesi. Quasi tutti tornano per la Pentecoste, giorni della festa del Maggio. Fine dei mesi del freddo, evento propiziatorio di fertilità e fecondità, ritualità cristiana e pagana allo stesso tempo. Grandi fotografi, documentaristi (Dondero, Koudelka, Quilici), antropologi (De Martino, Bronzini, Annabella Rossi) sono rimasti a bocca aperta di fronte al Maggio di Accettura. L’Unesco ha inserito questo rito fra le più belle feste del Mediterraneo. 


I vecchi allevatori

La gente di questa Lucania profonda ha sempre amato (e temuto) i boschi e le foreste. Per secoli, le ribellioni popolari contro i poteri feudali e nobiliari sono cominciate con l’occupazione dei boschi dei signori. Il bosco era lavoro, sopravvivenza, nascondiglio. La primavera cancella ogni paura, invita a tornare fra gli alberi. In questa terra, i riti arborei, forse eredi di culti longobardi, sono l’evento più importante dell’anno. Con complesse cerimonie e grande fatica, bisogna far sposare gli alberi. Un agrifoglio e un cerro ad Accettura (festa dedicata al patrono san Giuliano), faggi a Rotonda, tronchi d’abete a Viggianello. A Oliveto Lucano, meno di venti chilometri da Accettura, hanno il loro Maggio (dedicato a san Cipriano) e i boscaioli dei due paesi sorvegliano gli agrifogli prescelti per il matrimonio per evitare sgarbi e furti. A Castelsaraceno il rito dello sposalizio (in onore di sant’Antonio) è infinito e, fra taglio dei due alberi, trasporto e innalzamento, si va avanti per ben tre domeniche di giugno. A Terranova di Pollino l’albero-sposa è adornato con nastri colorati. A Castelmezzano si aspetta settembre per unire cerro e agrifoglio. A Pietrapertosa l’albero innalzato rivaleggia con le cime aguzze delle Dolomiti Lucane. Insomma, fra queste montagne e il selvatico massiccio del Pollino, ogni anno, fra la primavera e la fine dell’estate, si celebrano almeno otto matrimoni arborei. E, poco oltre il confine regionale, versante calabrese del Pollino, anche gli uomini di Alessandria del Carretto trasportano a spalla cima e tronco di un abete colossale per ricongiungerli nella piazza del paese. Si può così passare i mesi delle belle stagioni in Lucania e godersi una festa nuziale infinita. Nemmeno le nozze di William e Kate sono state così grandiose e così perenni.

I giovani alla ricerca dell'agrifoglio


I quattro giorni di Accettura sono indimenticabili. Non si fermano nemmeno davanti alla pioggia. Bisogna essere forti, instancabili e avere il dono dell’ubiquità durante la festa. Bisognerebbe avere anche tempo, è cerimonia lenta il Maggio di questo paese. Dilatata nelle settimane. Otto giorni dopo Pasqua, si scelgono gli sposi. Un agrifoglio della foresta di Gallipoli-Cognato sarà la ‘Cima’. Occhi esperti hanno scelto il più bello e il più frondoso. E per settimane gli uomini dei boschi hanno tenuto segreta la loro scelta. Nessuno dovrebbe sapere dove si trovi l’albero ‘eletto’. Nello stesso giorno, su un’altra montagna, a oriente di Accettura, nella foresta di Montepiano, il giorno dell’Ascensione, altri boscaioli hanno tagliato, con scuri e seghe speciali, un cerro ‘perfetto’. Possente come una colonna greca, dritto come un pilastro, alto quasi trenta metri. E’ lui il Maggio, lo sposo.

L'arrivo in paese dell'agrfoglio


Ecco, arriva la Pentecoste. Cinque settimane dopo Pasqua. Il gran giorno del matrimonio arboreo. L’alba è passata da poco, ma  gli accetturesi più giovani e più spavaldi hanno già raggiunto, con un corteo festoso, il bosco di Gallipoli. Sono stati condotti alla ‘Cima’. I boscaioli si sono contesi l’accetta per tagliare il grande agrifoglio come se fosse un sacrifico rituale. Poi decine e decine di ragazzi, cimaioli eccitati, lo hanno sollevato, se lo sono sistemato sulle spalle e, a passo di carica, hanno ridisceso la montagna. Era come se si muovesse l’intera foresta. Una baraonda: i ragazzi incespicano, scartano di lato, si passano il tronco. Il vino scorre a garganella da botticelle miracolose. Le donne offrono cibo dai loro panieri. I bambini inciampano in ogni sasso. E’ una sorta di presepe tumultuoso. Ma c’è anche la pace di una messa ai lati della strada. C’è il tempo per un immenso pic-nic popolare in un prato: tovaglie sull’erba, salami, formaggi, baccalà, frittate. Urla di giubilo da ogni angolo del bosco. Questa sgangherata processione camminerà per un giorno intero. Scenderà e risalirà il vallone della Salandrella. Arriverà in paese nelle prime ore della notte. E lì la sposa-agrifoglio attenderà il suo promesso.

L'arrivo in paese del cerro


Nelle stesse ore in cui veniva tagliato l’agrifoglio, nella foresta di Montepiano, attorno al grande ‘Maggio’, il cerro abbattuto all’Ascensione, si sono radunati i massari, i contadini più anziani, i boscaioli più esperti e saggi. Sono i maggiaioli. Indossano panciotto e pantaloni di fustagno. Uomini maturi e forti che ora sembrano valutare la fatica che li aspetta. Da ogni radura spuntano fuori coppie di buoi dal manto bianchissimo e dalla mole immensa. Fra le corna hanno ciuffi di ginestra e immagini di san Giuliano. Le urla dei bovari li spingono verso il grande cerro. Che pesa almeno trentacinque quintali. E toccherà a queste pariglie di buoi trascinarlo fino al paese. Gli spiriti della vegetazione, se ci credete, sono nascosti sotto la corteccia dell’albero: sono loro, scrive l’antropologo materano Giovanni Battista Bronzini, a ‘far crescere il grano e moltiplicare il bestiame. Rendono feconde le donne, danno benessere alla comunità’. Sono i protagonisti invisibili della festa del Maggio.

La festa nel bosco


I buoi vengono aggiogati al tronco. Comincia il loro durissimo lavoro. Non vi sono più abituati. Nelle campagne di Accettura vengono allevati solo per questo giorno così speciale. Sbuffano, si impuntano, cedono all’improvviso, tirano con un sforzo immane, gli zoccoli scivolano nel muschio: alla fine il cerro si smuove, raggiunge una mulattiera, poi una strada sterrata. Uomini e ragazzi (anche ragazze. Con gommina nei capelli, scarpe Nike e pantaloni Dolce e Gabbana fasulli), in piedi sui tronchi, guidano la marcia dei buoi come se fossero sopra una biga indomabile. Si rincorrono grida di incitamento. Anche qui: vino a fiumi, musica che rulla per incoraggiare, ebbrezza. Il cammino fra Montepiano e la piazza di Accettura durerà l’intera giornata. Vi sarà il tempo per mangiare pecora e formaggi lungo la strada. I buoi devono tirare il fiato. Solo a sera, ben oltre il tramonto, anche questo corteo arriverà nella piazza del paese. E qui il Maggio conoscerà la Cima. I due alberi si incontrano prima delle nozze. E i ragazzi, i cimaioli ubriachi, abbracciano i vecchi bovari, gli anziani maggiaioli. Musica e danze fino a notte fonda.  

I vecchi musicisti


Al lunedì, giorno dopo la Pentecoste, grandi lavori per il matrimonio. I due alberi dovranno essere uniti e innalzati. Con un gioco di incastri devono essere innestati l’uno con l’altro. Diventeranno un unico, altissimo tronco. Si costruiscono argani e paranchi. Non si possono usare né gru, né trattori per innalzare il Maggio. Si lavora di motosega e cunei di ferro. Il selciato di un angolo della piazza, al centro di una sorta di anfiteatro, viene smantellato. Si scava una grande trincea. Attorno ai manovali si intrecciano processioni: dalle campagne della Valdienna risalgono le immagini dei santi Giovanni e Paolo. Appare persino san Giulianicchio, rappresentazione giocosa del nipote del patrono. Al martedì saranno le donne a percorrere, danzando per devozione, le strade del paese portando sulla testa le cende, pesanti costruzioni di candele, nastri e fiori.

Le ragazze di Accettura
La felicità del Maggio

La processione

Il Maggio

  
Salire sull'albero

Il martedì dopo la Pentecoste è l’atto finale. Tensione nell’aria fin dal mattino. Funi robuste, forza di braccia, sforzo di decine di uomini, argani e paranchi che cigolano. L’albero, i due sposi uniti uno all’altro, viene innalzato. La musica rulla con frenesia. San Giuliano deve dare il suo ‘consenso’ all’ultimo strappo. Un’ultima, frenetica fatica. L’albero ora svetta sopra i tetti delle case. A quaranta metri di altezza, la sua Cima di fronde oscilla leggermente. Silenzio improvviso. Come un tirare il fiato. Ora è il momento dei funamboli, degli acrobati. I giovani più coraggiosi (Antonio, Rocco, Leonardo) si arrampicheranno sull’albero. Senza protezione. Con mani e gambe come uncini, saliranno lungo un legno liscio e verticale. Si spenzoleranno nel vuoto a testa in giù, ruoteranno attorno al tronco. Raggiungeranno la Cima, si godranno la Cuccagna, e da lassù guarderanno la piazza del paese come autentici Re del Maggio. Poi i ragazzi scendono con velocità, tornano a terra, vengono abbracciati. Trionfo intenso e breve. Stanchezza profonda e gioiosa. La gente del paese sciama verso le bancarelle, le giostre dei Luna-Park di campagna, gli slarghi dove si canta e si balla. L’albero, il Maggio, ritrova pace e solitudine. Gli uomini che lo hanno costruito lo guardano un’ultima volta. Vanno a casa. Riappariranno sul corso del paese un’ora più tardi. Per passeggiare orgogliosi. Vestiti a festa.
Scritto un anno fa. Per la rivista del Touring Club Italiano
  


  



sabato 14 gennaio 2012

Angelo, Accettura, il Maggio, i fuochi di San Antonio Abate

Angelo, il giorno del Maggio


Chiama Maria Luisa. Al mattino presto. Da Accettura. Giù, in Lucania. Lascia un messaggio: ‘Devo dirti una cosa’. Penso d’istinto: ‘E’ morto qualcuno’. Penso a lui. A un uomo massiccio, grande e grosso, dalla voce alta. Perché penso a lui? A Sciabolone. Perché ho questo pensiero?

Maria richiama. E’ così. E’ morto Angelo Labbate. Sciabolone. Sciablo.

Avevamo il suo indirizzo in tasca, quando, per la prima vota, qualche anno fa, siamo arrivati ad Accettura. Paese della più straordinaria festa, sacra e pagana, del Sud italiano: il Maggio, il matrimonio degli alberi, San Giuliano, quattro giorni di libertà e follia. Prima di partire, un amico di amici, emigrato a Torino, mi aveva consigliato di cercare Angelo. Antropologo di paese, guida e amico degli antropologi che erano venuti ad Accettura per scoprire i misteri del Maggio. Fu lui a parlarmi di Mario Dondero, il più grande dei fotografi del ‘900: una sua foto del Maggio è in copertina nella sua biografia appena uscita per Bruno Mondadori. Fu lui a tessere il primo legame attraverso il quale conoscemmo Dondero.

Angelo, ci disse l’amico accetturese, migrato al Nord, ci avrebbe raccontato il Maggio.

Lo trovammo intento a giocare a carte. Tavolo all’aperto. Di fianco a un bar. Era sera. Fece un cenno con la testa. E continuò a giocare. Era immenso sulla piccola sedia. Poche mani. Silenziose. Perse la partita, credo. Sbuffò. E, con lentezza, cominciò a soppesarmi. Immagino che pensò: un altro giornalista che arrivava per la festa. Fu una complicità lenta. Alla fine, credo, fu una piccola amicizia. Noi tornavamo ad Accettura. E questo è importante. 
Angelo mi raccontò davvero il Maggio. Mi offrì carne alla griglia davanti a casa sua. In quei giorni i macellai accendono i carboni in strada. Portò i piatti dalla cucina e ci sedemmo su due sedie sconnesse. Facemmo lo stesso in un gelido giorno di gennaio, san Antonio Abate, quando ardono i fuochi nei paesi. Penso: Angelo se ne è andato alla vigilia dei nuovi fuochi. Saranno accesi dopodomani.

Mi donò le pagine dei suoi articoli. Non mi disse niente, mi guardò muovermi nell’andirivieni degli alberi che stavano sposandosi. Spariva e riappariva. Osservava i riti della festa che conosceva in ogni suo movimento. In silenzio. Era un custode, Angelo. Un custode di una storia. Che ci raccontò. Angelo lavorava alla biblioteca del paese.

Alla fine, l’ultimo giorno della festa, Angelo mi sorprese: apparve vestito nella maniera più elegante che potessi immaginare. Abito nero, cappello, golf girocollo bianco, occhiali scuri. Quel pizzo bianco, strano e autorevole. Un capo. Era raggiante. Tutto era andato bene. Mi accompagnò da una sua amica. Una grande senegalese dalle vesti sgargianti che ogni anno veniva ad Accettura per i mercati della festa. Mi chiese di fotografarlo assieme a lei. Erano bellissimi.

Una volta tanto mi sono ricordato di spedirgli quella foto.

Lunedì i fuochi di Accettura saranno per lui. E quest’anno noi torneremo al Maggio. 
Padova, 14 gennaio

venerdì 13 gennaio 2012

La foto di Anna

Anche questa è una vecchia storia. Sono giorni in cui riappaiono storie non-storie.

Questa foto è stata scattata a Matera, all'Osteria Malatesta



Devo trovarla. Non ho alternativa. Ma non so dove sia. Non ricordo nemmeno di averla mai vista. Ma Anna è sicura: ho scattato quella foto, dieci anni fa – era ben più di dieci anni fa – gliel’ho mostrata. Su questo lei non è sicura: non ricorda se era una diapositiva che le ho fatto vedere in controluce o se era una stampa. Io dovrei averle detto: ‘Facciamo uno scambio. Ti regalo questa foto, se tu mi spedisci la mia’. Imbecille. Io, imbecille. Anna mi mandò quella foto, io no, sostiene lei. Dice che era un’immagine che la ritraeva intenta a disegnare su dei fogli in mezzo a degli indigeni in Amazzonia. No, nella mia testa non c’è niente. Ma Anna mi è tornata in mente: un giorno a Rio de Janeiro in un albergo con le tende viola, una notte a Milano, un’altra a Roma. 

Questa foto è stata scattata nella casbah di Algeri


Era strana, Anna. Credo che facesse l’artista. Mi piaceva, ma non c’era modo di sapere niente di lei. Poi è riapparsa dopo dieci anni. No, sono ben più di dieci anni. Non so dove abbia ritrovato il mio numero di telefono. Si vede che in tutti questi anni non è cambiato. Mi ha chiamato per cercare una foto scattata in quella preistoria. Al telefono mi ha detto che ha i capelli bianchi e ha riso. Io dovrei avere due foto: la mia, che lei mi ha mandato, e la sua, che non ricordo e non so dove cercare. Non ho pensieri. Sono solo sorpreso. Questa storia che non è una storia mi piace. O meglio credo che mi piaccia. Vorrei davvero cercare una foto che non troverò. Vi farò sapere come è andata finire. Ho promesso ad Anna che le avrei ritelefonato lunedì prossimo. Anzi: le ho detto che se non mi avesse sentito, poteva richiamarmi. Gentile, cavolo. Ma dove la cerco la foto di Anna? Forse nella cartellina rossa. L’ho aperta e l’ho richiusa. Cerco di immaginarmela con i capelli bianchi. E ricordo i racconti che lei leggeva sui gradini di un capanna-albergo accerchiata dall’umidità. La foto deve essere rimasta laggiù. Qualcuno l’avrà trovata e l’avrà messa nel suo portafoglio. Poi quel portafoglio fu rubato. Il ladro si tenne i soldi, gettò il resto nel fiume. Quache pesce si sarà divorato la foto di Anna. Domani la cerco, lunedì le telefono.

Non ho più sentito Anna da quel tempo.
La storia di questa fotografia è stata dimenticata.


martedì 10 gennaio 2012

Metti, se capiti, non per sbaglio, a Pitti Uomo.


Salone dei Cinquecento



Le grandi foto di Aldo Fallai nella Sale d’Arme di Palazzo Vecchio. Primo atto della nuova edizione di Pitti Uomo. Evento Mondadori. Buffet a finger food nel Salone dei Cinquecento. I milanesi sono all’oscuro delle polemiche che avvolgono la ricerca dell’affresco scomparso di Leonardo da Vinci. Gli uomini-serata proiettano le foto di Aldo sulla parete di fondo del grande salone: strano effetto da Orwell 1984. 
Chi farà il casting delle guardie del corpo? Privi di senso dell’ironia. Quasi tutti a testa calva (muscoli arrotolati sul collo da tori), auricolare bianco nelle orecchie, strizzati in giacche eleganti come una divisa, occhi senza espressione e mani intrecciate all’altezza del ventre. Un uomo, dimesso e nervoso, controlla con qualche apprensione che tutto vada bene: deve essere il responsabile del buffet. I camerieri roteano fra gli invitati (Aldo, fotografa i camerieri, è un ottimo servizio). Nessuno ascolta la povera cantante jazz, fuori posto in un salone disattento. Tutto preso nella propria autorapresentazione.


Le foto di Aldo Fallai


Poca gente passeggia fra le immagini (belle, grande lavoro in post-produzione) di Fallai. C’è anche Cesare Prandelli fra le persone fotografate. Gli invitati preferiscono le delizie del buffet. Passa in fretta un direttore generale della Mondadori, so che trent’anni fa dirigeva Radio Popolare.


Foto ricordo

Chiacchiere fra gli invitati. Si parla, con rabbia contenuta, dei controlli della finanza. Afferro frammenti di conversazione sui laboratori dei cinesi (faccio una scelta selettiva e colma di pregiudizi, lo ammetto). E’ il mondo della moda, questo. Poi ascolto con qualche preoccupato interesse: ‘Ho messo i soldi, una parte dei soldi, in una cassetta di sicurezza. Qui salta tutto. Non ci sono più soldi. La banca non voleva rendermi i miei soldi. Ci sono piani per chiudere le frontiere della Germania quando alcuni paesi torneranno alle loro monete. La Grecia, a giugno, userà le dracme. La piramide finanziaria non riesce più a stare in piedi’. Panico nel mondo della moda?
E questa gente attorno a me, tirata a lucido, che si gode una finzione quasi gaudente e afferra con gesto rapido la fettina di cinta cinese arrotolata su un dattero? ‘In molti qua dentro sanno che non c’è più molto tempo. Vogliono solo durare. Tirare più a lungo possibile. Ogni giorno sono soldi. In tre mesi guadagnano denaro a sufficienza per comprarsi una casa’. Come dire: vogliono arrivare in gran forma al finale. ‘Se hai bene solidi, te la cavi. E loro vogliono cavarsela’.

Vado al buffet a rifornirmi di panini tartufati.

Intervista


Poi, a notte, rileggo le parole che John Berger, grande vecchio della scrittura, consegna, di malavoglia, a un bravo giornalista che lo intervista. La domanda è: ‘Chi sono i nuovi tiranni?’. Risposta: ‘Sono anonimi. Operano attraverso il capitalismo finanziario. I loro occhi esaminano tutto e non  contemplano nulla. Sono incapaci di ascoltare e la fiducia in se stessi è pari alla loro ignoranza. Profittatori. Non sanno niente. Conoscono solo i loro racket. Da qui la paranoia, e, generata da questa, la loro energia ripetitiva. Il loro reiterato articolo di fede è: non c’è alternativa’.

E’ che non mi piace fare il moralista.
Firenze, 10 gennaio

domenica 8 gennaio 2012

Il petrolio della Libia

Stazione Eni per il gas libico


Paolo Scaroni, 65 anni, amministratore delegato dell’Eni (laurea in Bocconi, ex-presidente, fra l’altro, del Vicenza Calcio), ha trascorso i giorni di fine d’anno in Africa.
Quasi un tour de force post-natalizio fra Libia e i paesi dell’Africa australe. Nell’ottobre scorso, nel giorno in cui veniva ucciso Gheddafi, l’Eni annunciava la scoperta di un colossale giacimento di petrolio in Mozambico.
Ma è stata la Libia a dare il ritmo ai giorni di Scaroni e a far tremare i suoi uomini-stampa (ne immagino l’affanno: l’amministratore delegato ha fama di carattere irruente). Ecco quanto è avvenuto se si mettono in fila comunicati e articoli.


Hotel Corinthia a Tripoli
28 dicembre. Incontro (il primo) fra Scaroni e Abdurrahim al-Keeb, ‘provvisorio’ premier libico. Scaroni ne esce soddisfatto. Al punto che, due giorni dopo, in un’intervista al Sole 24 Ore, fa sfoggio di ottimismo: ‘Il viaggio è andato benissimo. Torneremo alla piena capacità produttiva entro giugno’. Ammette, di sfuggita, che ci sono ‘problemi tecnici’. Il giornale non chiede, non approfondisce.   

29 dicembre. Forse a Scaroni viene qualche dubbio quando legge un drastico comunicato di al-Keeb. Il primo ministro libico rivela che Tripoli intende rinegoziare tutti i contratti petroliferi firmati dalle compagnie petrolifere con Gheddafi. E fa capire che saranno privilegiate le società di quei paesi che più si sono impegnati a fianco dei ribelli di Bengasi. Come dire: la Francia viene prima dell’Italia. Il Sole 24 Ore, due giorni dopo, fa capire che ‘i problemi tecnici’ sono soldi. Tripoli pretende più soldi dal suo petrolio.

30 dicembre: retromarcia di Tripoli, i cieli sono ancora confusi in Libia. Nella stessa pagina in cui compare l’intervista a Scaroni, il Sole 24 Ore, sulla base di nuovi comunicati libici e dell’Eni, sostiene che dovranno essere rinegoziati solo i ‘contratti sociali’ firmati dalla compagnia italiana con la Fondazione Ghedaffi (cioè con Saif al-Islam). Gli accordi petroliferi saranno confermati, si affretta a dichiarare l’ufficio di al-Keeb. Il giorno prima aveva fatto scrivere che ‘i contratti saranno rivisti conformemente agli interessi della Libia’.

31 dicembre. Alberto Negri è fra i migliori giornalisti del Sole 24 Ore. Non è un grande esperto di economia, ma il Nordafrica è una sua storia. E scrive che è lo scontro fra i clan a minacciare i contratti petroliferi dell’Eni. E’ lui ad avvertirci che Tripoli pretende più soldi per mantenere all’Eni i suoi privilegi.

Al mercato della Città Vecchia

3 gennaio. Gli uomini dell’Eni devo aver passato una burrascosa fine d’anno. Scaroni deve essersi inviperito. Il Sole 24 Ore continua la sua altalena: adesso al-Keeb deve davvero rassicurare. Il giornale è costretto a smentirsi, il suo giornalista più esperto di Nordafrica si era sbagliato: la Libia non ci pensa nemmeno a chiedere un centesimo in più per gli accordi petroliferi. Al massimo vuole rivedere gli accordi di cooperazione con la compagnia petrolifera (150 milioni di dollari stanziati nel 2006 per sociale e archeologia; promessa, nei mesi della guerra, della costruzione di una nuova città – mille case – nel golfo della Sirte). Come se non fossero soldi italiani, come se non fossero 'contropartita' di intese economiche sul costo del petrolio libici.

Preghiera Sufi a Tripoli


Devi esserci un bel tramestio di spintoni a Tripoli. L’attuale ministro del petrolio libico Ben Yazza era presidente, negli anni ghedaffiani, della joint venture Eni-Libia. Era, insomma, un collaboratore-dipendente di Scaroni e un notabile della dittatura. Con questa nomina, l’Eni era certa di possedere una garanzia per la sua posizione di privilegio a Tripoli. In autunno Scaroni gongolava: ‘Mi sono già visto un sacco di volte con Ben Yazza’.
Ma il Castello Rosso, fortezza della vecchia Piazza Verde (oggi Piazza dei Martiri), ha visto secoli di congiure. Pochi dei suoi occupanti sono morti di vecchiaia. Punture di spillo fra giornali (ognuno ha le sue fonti e i suoi interessi): sono gli americani di Bloomberg, nei primi giorni dell’anno, a inquietare i sogni italiani. Francia e Stati Uniti vogliono scalzare l’Italia dal suo piedistallo libico. Più modestamente, il presidente della Camera di Commercio Italoafricana, Alfredo Cestari, avverte come minaccia l’attivismo dei francesi a Tripoli.

125mila uomini, in Libia, sono ancora in armi. Nessuno restituirà facilmente il suo kalashnikov. Una settantina di milizie si contendono il nuovo potere. I clan si schierano a seconda dei loro interessi: vogliono dividersi la torta dell’immenso business petrolifero. Probabile che i più potenti trattino direttamente con le compagnie petrolifere. Difficile districarsi negli scenari libici. Ma la guerra di Libia non era stata combattuta per i diritti umani?


Eliseo, 2007 (da blogosfere.it)
Eliseo, 2011 (da Allvoices.com)














Sarebbe istruttivo poter osservare il back-stage di quanto sta accadendo dietro il palcoscenico del petrolio libico. Sarebbe interessante assistere agli incontri di velluto e rasoio fra i nuovi ambasciatori francese e italiano a Tripoli (non è certo un caso che si siano già conosciuti pochi anni fa in Qatar).
Il presidente francese accorse a Tripoli, assieme al primo ministro inglese, non appena la città cadde in mano ai ribelli di Bengasi. Il primo ministro Mario Monti arriverà con quattro mesi di ritardo. Prima visita extra-europea del nuovo premier italiano.

Torniamo a Scaroni. Non ha dubbi: ‘Il 2011 è stato un anno straordinario’. Contento lui: è stato un anno con sette mesi di guerra in Libia.
San Casciano in Val di Pesa, 9 gennaio

giovedì 5 gennaio 2012

Alex Zanotelli: 'Abbiamo bisogno di un'utopia globale'

Intervista di un anno fa. Uscita in queste settimane nel libro Politiche per uno sviluppo umano sostenibile, curato da Enrica Chiappero-Martinetti. Intervista ad Alex Zanotelli, missionario al quartiere Sanità di Napoli. E' tempo di metterla su questo blog. Anche perchè c'è una domanda di attualità in questo colloquio:    sulla ricchezza, sul 'valore' e sul 'ruolo' della ricchezza. 

Alex Zanotelli nella sua casa al quartiere Sanità


La mia ultima intervista a padre Alex (qui, a Napoli, è padre Alexe, accento sulla A) era avvenuta nella sua baracca di Korogocho, immenso slum di Nairobi. Dieci anni dopo lo ritrovo in una microcasa verticale al centro del quartiere Sanità a Napoli. In una minuscola casa-campanile.
Alex non può vivere lontano dalle frontiere, da quei margini della società che il mondo contemporaneo vorrebbe invisibili. A Napoli 240mila persone vivono ai limiti della possibile sopravvivenza. I resoconti sociali sono più che allarmanti: due famiglie su dieci faticano a mangiare tre volte alla settimana, dispersione scolastica al 45%, disoccupazione al 40% (ma, qui alla Sanità, tutti sostengono che non vi è alcuna possibilità di trovare un lavoro), un terzo delle famiglie non riesce a pagare l’affitto. Un terzo non paga le bollette di acqua e luce. A Napoli il reddito pro-capite è di 16mila euro all’anno. A Milano è più del doppio. La metà dei napoletani ogni mese si indebita per almeno duecento euro. Alla Sanità, terra di camorra diffusa, cinque chilometri di superficie, vivono 67mila persone. Una densità impressionante.
Ma la Sanità è anche il quartiere dove è nato Totò, adorato in questi vicoli, anche se la sua casa grigia, via santa Maria Saecula, al numero 109, è quasi introvabile e dimenticata (mai nato il museo più volte promesso dal Comune). I vicoli del rione sono di grande bellezza e vitalità formicolante. Qui i giovani della cooperativa La Paranza hanno aperto un bel bed&breakfast e guidano, con bravura, i turisti fra straordinarie meraviglie (grandi palazzi, reticolo di catacombe, chiese bellissime). Alla Sanità, ogni giorno, ci si inventa una vita. Padre Alex, settanta anni passati, energia ben oltre la sua età, al suo ritorno in Italia, non poteva che vivere qua. E ogni angolo della sua stramba casa non può che ricordare l’Africa. Nord e Sud del mondo si incontrano sotto il campanile di santa Maria alla Sanità. Una donna sale la scala a chiocciola della casa di Alex. Ha bisogno di raccontare, oggi la sua fatica è eccessiva e chiede un conforto. Alex trova tempo, ascolta: la donna vive con 450 euro, guadagnati a nero, e ha due figli. Il suo non è un lamento, è un’orazione. Come è possibile vivere in questa Korogocho italiana?

Dodici anni a Korogocho, la ‘Babilonia’ di Nairobi. Quasi dieci al rione Sanità, uno dei tanti ventri di Napoli. Un tempo per definire questi luoghi avresti usato il termine ‘sotterranei della storia’. Oggi non lo fai. Cos’è la povertà in una baraccopoli africana e cos’è in quartiere di frontiera nel Sud dell’Italia? Ha ragione chi sostiene che Napoli è l’Africa d’Europa?

“Il linguaggio deve cambiare. Sono luoghi diversissimi fra loro e anche tu devi cambiare registro. Vi sono differenze immense fra Korogocho e il rione Sanità. Come fra una baraccopoli africana e una favela brasiliana. Penso anch’io che Napoli sia l’Africa dell’Europa. In questa città vi è la più alta concentrazione della povertà del continente. In Africa non hai niente e vivi con niente. La miseria è assoluta. Alla Sanità, invece, non sei miserabile, anche se non sai come pagare l’affitto, la luce o l’acqua. Se abiti a Korogocho vivi sulla tua pelle l’abisso che divide il Sud del mondo dal Nord. Forse, in una baraccopoli africana, c’è più dignità nel vivere la miseria. A Napoli, per retaggi storici, colpa di malgoverni secolari, il degrado morale è un grave problema. Quando scegli di vivere alla Sanità devi saper immergerti nella realtà, devi comprendere la connessione dei grandi problemi, devi infilarti nelle crepe di un mondo per cercare di scardinare ‘o sistema che produce un’ingiustizia planetaria.

Cosa vuol dire?

Vi sono grandi questioni che legano il Nord al Sud del mondo. L’acqua, a esempio. E continuo a sorprendermi come questa emergenza sia sottovalutata. La privatizzazione dell’acqua, accettata dal nostro sistema, produrrà conseguenze inaccettabili nel Sud del mondo. Se i poveri saranno costretti a pagare l’acqua secondo le leggi del mercato, la loro vita sarà devastata. I morti per sete raddoppieranno. L’acqua è una delle crepe in cui dobbiamo incunearci. Dovrebbe essere un impegno urgente del mondo missionario.

Ti senti missionario a Napoli?

Profondamente. Noi missionari, al ritorno dall’Africa, abbiamo grandi responsabilità e spesso le ignoriamo. Viviamo di nostalgia, al massimo facciamo testimonianza di quanto abbiamo vissuto. Non dovrebbe essere così. Abbiamo compiti anche qui. Le comunità cristiane di Korogocho vollero salutarmi la sera precedente alla mia partenza da Nairobi. Lo ricordo perfettamente: era il 17 aprile del 2002 e centinaia di persone vennero a imporre le loro mani sulla mia testa. Fu commovente, ma io, in particolar modo, sono grato a un pastore di una chiesa indipendente che promise di pregare non per me, ma per chiedere allo Spirito Santo di darmi la forza di convertire la mia tribù bianca. Aveva ragione, era un’intuizione formidabile: noi, qui, abbiamo la missione di far comprendere alla nostra tribù, in grande maggioranza gente cristiana, che siamo responsabili degli scempi che stanno distruggendo il mondo. Qui sono le strutture economiche e finanziarie, grandi organizzazioni del peccato, che stanno riducendo in schiavitù gran parte della popolazione di questo pianeta. Se noi non siamo capaci di fermare qui la macchina del sistema, l’Africa non avrà speranze.

Tu sei in prima fila nelle battaglie per l’acqua e per i rifiuti. Perché questi due grandi problemi? L’emergenza di Napoli non è il lavoro? Il tasso di disoccupazione qui è al 40%, i ragazzi sanno che non troveranno mai un lavoro e che non avranno alcuna possibilità di un reddito onesto.

Confesso: non saprei come inserirmi in una battaglia per il lavoro. Ti ripeto invece che sono convinto che acqua e rifiuti siano due fratture fondamentali in questo sistema. Sono due contraddizioni serie nei meccanismi economici e finanziari del nostro mondo. Qui si può cambiare qualcosa. Qui si può vincere e affermare la priorità dei beni comuni sull’egoismo del profitto. L’emergenza rifiuti, anche se prevedibile da tempo, è scoppiata come una bomba. Si sono nascosti i rifiuti da una discarica all’altra, ma niente si è fatto per risolvere il problema. Questa è la punta di un iceberg. Napoli è un paradigma: la nostra società, se non cambia rotta, è destinata a essere sommersa dai rifiuti. Siamo destinati a morire sotto una coltre di spazzatura. Acqua e rifiuti mettono subito in discussione i nostri stili di vita, ci impongono di cambiare il nostro modo di vivere. Le lotte delle comunità di Napoli contro i rifiuti non sono semplici battaglie contro una discarica o l’altra: dicono al mondo che il diritto alla salute, all’aria, all’acqua pulita sono fondamentali per l’uomo. Sono diritti inalienabili che non possono diventare mercato. Aria e acqua non sono beni economici. La gente, quando avverte sulla sua pelle problemi concreti, comprende la necessità di agire, di pretendere un cambiamento. E’ una scelta fra la vita e la morte. Noi dovremmo essere capaci di allargare queste crepe del sistema. Dobbiamo far capire la globalità di temi come l’acqua e i rifiuti e, allo stesso tempo, essere capaci di affrontarli nei luoghi dove viviamo.

A Nairobi c’è un apartheid economica. I ricchi vivono in quartieri militarizzati, la moltitudine dei poveri abita baraccopoli abbandonate a loro stesse. A Napoli sembra diverso: ricchi e poveri, almeno nelle zone centrali, vivono fianco a fianco. I Quartieri Spagnoli sono alle spalle di piazza del Plebiscito e la stessa Sanità, lentamente, sta cambiando.

Attento, non farti ingannare dalle apparenze. Napoli sono due città. Chi vive a Chiaia o a Posillipo, quartieri eleganti, non vuole avere niente a che fare con la gente che abita alla Sanità o a Forcella. Men che meno con chi arriva da Scampia o Secondigliano. E’ vero che si è costretti ad attraversare i Quartieri Spagnoli o Forcella, ma alla Sanità bisogna proprio venire, sono state costruite strade per evitare questo quartiere. Che, nei fatti, è stato ghettizzato. I napoletani non vengono alla Sanità. Ne hanno paura. No, Napoli è una città divisa in due e la separazione è molto netta. E questa è una semplice città, è una delle più grandi megalopoli d’Europa. Quattro milioni e mezzo di abitanti fra Pozzuoli e Sorrento. Ripeto: la più alta concentrazione di povertà del continente. E la Sanità è uno dei luoghi dove evidenti sono le devastazioni del consumismo. La televisione e i peggiori modelli sociali hanno messo radici in una sottocultura napoletana. Una ragazzina della Sanità sogna solo di diventare velina, fai un giro per i vicoli del quartiere e vedrai quanti centri di abbronzatura ci sono. I ragazzi pensano solo al motorino e alla droga. Questo sono i simboli con i quali sta crescendo una generazione di adolescenti.

Fammi capire le conseguenze di quanto mi stai raccontando.

I motorini dei ragazzi sono sempre l’ultimo modello. Costano molto. Entri nelle case più degradate e vedrai cucine ipertecnologiche e su una credenza un televisore ‘o plasmon. Per comprarsi queste cose, in assenza di lavoro, le famiglie si indebitano. Ogni giorno, al mattino, sono in molti a spendere venti euro per il gratta e vinci. Il denaro, i soldi, sono diventati un’ossessione. E allora ci si rivolge agli usurai. Che vivono sul tuo pianerottolo, sono i tuoi vicini di casa. Ci si consegna a loro mani e piedi. Qui tutta l’economia è in nero. Lavorare legalmente oltre che impossibile, non è conveniente. Noi, da mesi, abbiamo offerto possibilità di microcredito, abbiamo fatto buoni accordi con Banca Etica, i tassi sono bassissimi, accessibili a chiunque. Pensavamo che avremmo avuto la fila di gente davanti allo sportello. Ma in un anno, niente è andato a buon fine. Noi chiediamo rispetto della legalità per concedere un prestito e ci viene risposto che è meglio un’attività a nero a un lavoro o a una microimpresa legale. Abbiamo aperto doposcuola perché non ve ne sono nel quartiere. E’ importante che si sia un sostegno alla scuola, perché il disinteresse delle famiglie verso quanto offre l’istruzione è dilagante.

Padre Alex, cosa sogna un ragazzino della Sanità? A cosa aspira? Quali strumenti possiede per una crescita personale? 

Devi solo immaginare che qui uno spacciatore guadagna almeno 700 euro a settimana. Che i ragazzini hanno sotto gli occhi il potere di un piccolo boss di quartiere. Sanno che i bisogni della loro famiglia, persino i loro libri di scuola, sono comprati grazie ai soldi di queste persone. La scuola è un problema. Sono stati fatti tentativi, corsi di specializzazioni in settori in cui si pensava ci fosse la possibilità di trovare lavoro, ma tutto sembra inutile. A Napoli sai che puoi anche conseguire una laurea con il massimo dei voti, ma il lavoro non ci sarà. Un ragazzo della Sanità sa che se vuole una vita normale, può solo andarsene. Migrare. Dalla Campania, lo scorso anno, se ne sono andati in 65mila. Si cercano soluzioni individuali alla crisi di una società. Eppure don Milani ci aveva avvertito già qualche decennio fa: uscire da soli da un problema, è avarizia. Uscirne assieme è politica. A Napoli si è costretti, anche per l’egoismo delle classi dirigenti, a cercare strade personali. Fatte di sotterfugi e furbizie. La società si è atomizzata. Non c’è volontà di mettersi assieme, non c’è volontà di cercare un’uscita collettiva dai problemi. C’è la camorra che ti risolve i guai nei quali ti trovi. A lei ti rivolgi, di lei sei prigioniero.

Tutto così nero?

No, non fraintendermi. Ci sono sussulti di vitalità, segnali di ribellione, tentativi di riprendersi il proprio destino in mano. Sono storie fragili, ma importanti. Il parroco di Santa Maria ha organizzato cooperative di giovani per servizi al turismo. Questo è un quartiere bellissimo. Colmo di arte, di storia. C’è una rete di catacombe sconosciute da visitare: i complessi di san Gaudioso, di san Gennaro, il cimitero delle Fontanelle. Il turismo è una speranza. Ci sono già bed & breakfast. Può funzionare. Anzi, funziona. Alla Sanità vengono gli stranieri. Ben più che i napoletani.

Cosa si pensa delle istituzioni alla Sanità? C’è uno stato, un’amministrazione comunale?

Nella migliore delle ipotesi sono assenti. Nella peggiore sono visti come nemici. Il Comune ha dato il permesso per aprire un supermercato nel quartiere. Ma come si fa? Qui ci sono almeno duecento commercianti che sopravvivono a stento e tu fai aprire un supermercato? Vuoi davvero cancellare un tessuto economico e sociale essenziale. Pensa che eravamo tutti d’accordo. Persino il proprietario del supermercato era disponibile a vendere l’immobile che possedeva. Un assessore si era anche impegnato a far sì che il Comune lo comprasse. Niente da fare. Siamo stati traditi e abbandonati.
E ancora: c’è una grave problema per i senza fissa dimora. Possibile che il Comune non sia capace, o non voglia, trovare una soluzione? Possibile che non ci sia un luogo dove ospitare le centinaia e centinaia di persone che dormono per strada? Ci sono riusciti i Borboni a dare assistenza a chi non ha niente e loro no. Il comportamento delle istituzioni è vergognoso.

Mi stai dicendo che solo la chiesa sta fronteggiando i guai sociali di Napoli?

No, non è così. Le parrocchie rimangono centri religiosi. Solo qualche singolo prete, con buona volontà, affronta seriamente i problemi sociali. La chiesa-istituzione mette avanti la religione: non riesce a legare la fede ai grandi temi della società. Fa carità. Non si impegna nelle battaglie sociali. Non vedo  molte parrocchie attivi sul grande tema dell’acqua o dei rifiuti. L’istituzione chiesa non capisce che queste lotte sono la Buona Novella dei nostro tempi. E bisogna mettere al centro non la religione, ma l’uomo.

Tu hai detto che a Napoli si assiste allo scontro fra italiani poveri contro stranieri poveri. Mi aiuti a capire?

Sta aumentando oltre ogni livello di guardia, un razzismo di stato e un razzismo popolare. I governi utilizzano la povertà per aizzare la gente una contro l’altra. Fomentano un odio etnico. Ti dicono che gli stranieri portano via il lavoro e la casa agli italiani. Non è certamente un fenomeno napoletano, ma mi appare ancor più grave a Napoli dove vi è sempre stata una grande tradizione di accoglienza. Qui alla Sanità, cinque secoli fa, viveva una comunità cinese. Oggi stranieri, migranti, rom sono vissuti come nemici. Come i colpevoli della povertà. E’ davvero un razzismo di stato.

Padre Alex, la povertà nel mondo è diminuita. I risultati ottenuti da cinque paesi (Cina, India, Indonesia, Viet-nam e Brasile) sono impressionanti. Milioni di persone sono uscite dalla povertà. I paesi asiatici hanno puntato tutte le loro carte sulla crescita e hanno avuto ragione. E’ un modello vincente? Nessuna democrazia in politica – non è il caso del Brasile – e assoluto liberismo in economia: dobbiamo seguire questa strada? Dopo i fallimenti delle politiche di sviluppo, l’Africa è ben più che tentata di seguire il modello cinese.

No, dovremmo porci una semplice domanda: quanto può durare questa corsa sfrenata? La Cina e gli altri paesi asiatici stanno bruciando energie smisurate, hanno un continuo bisogno di materie prime. Il loro progresso ha il fiato corto. Ci sarà, entro pochi decenni, una drammatica resa dei conti. Anche Pechino, al vertice di Cancun, ha dovuto ammettere che i cambiamenti climatici sono reali. Se il 20% dell’umanità ha messo in crisi il mondo con uno stile di vita insostenibile, cosa accadrà quando tutti i cinesi vorranno avere lo stesso livello di ricchezza? Non abbiamo più di cinquant’anni per invertire la rotta che ci sta conducendo verso una catastrofe mondiale.
Ma noi dobbiamo stare attenti anche a farci vanto delle democrazie occidentali in contrapposizione alla dittatura cinese. A me sembra che la democrazia sia in crisi in tutto il nostro mondo: oggi la tentazione è quella di ‘un uomo solo al comando’. E non mi riferisco solo all’Italia. I centri di decisione sono sempre più ristretti e la politica è schiava dei potentati economici. Sono pochi uomini, dalla ricchezza immensa, a decidere il destino della Terra. E l’Africa rimane una ferita aperta, non conta niente negli equilibri del potere mondiale. La corsa alle sue materie prime ha scatenato e scatenerà ancora altre guerre, altra disperazione. E’ il continente più fragile del pianeta.   

Te l’ho già chiesto altre volte, padre Alex: la ricchezza è un peccato?

No, non lo è. Dio vuole che si stia tutti bene. Sono splendide le parole della Costituzione statunitense che indica la felicità come un fine collettivo. Ma la ricchezza deve essere distribuita equamente. E’ il suo accumulo che è peccato.

Alex, c’è un luogo dove tutti sono ricchi. Ed è la tua valle. La Val di Non, in Trentino, la terra dove sei nato. In una generazione, la tua, si è passati dalla povertà a un benessere elevatissimo. Ancora una volta: è un modello da seguire?

E ancora una volta, ti dico di no. E’ vero che là tutti sono ricchi, ma non sono certo felici. Negli stessi anni in cui si è costruita la ricchezza di una generazione, si è distrutto una rete spontanea e naturale di amicizie, familiarità, solidarietà, convivenza. Oggi, in Val di Non, si vive rinchiusi nel proprio egoismo. Quando ero bambino, se a una famiglia moriva una mucca (ed era un guaio serio), tutti si davano da fare per comprare un chilo della sua carne per permettere a quella gente di ricomprarsene un’altra. Oggi il denaro ha soffocato l’umanità della valle. Sei infelice perché i soldi sono una ossessione. Enrico Chiavacci, un teologo fiorentino, ha spiegato con semplicità che per rispettare il vangelo è sufficiente osservare due comandamenti: non arricchirti, ma, se per qualsiasi ragione sei o diventi ricco, è bene condividere ciò che possiedi. E’stato Eric Fromm, ebreo e agnostico, a farmi comprendere un insegnamento di Gesù: se tieni la tua vita solo per te, sei fregato, ma se sei capace di giocartela, allora sei una persona viva. La felicità è condivisione, è relazione. La solitudine, l’accumulo di ricchezza solo per sé, uccide la tua anima. In Val di Non si ricchi, ma si sono smarriti i valori più elementari dell’uomo. E l’uomo ha bisogno di valori. Torno sempre all’acqua: accettare che sia una merce è la spia di un mondo che ha smarrito la sua umanità. Trent’anni fa, solo pensare che l’acqua potesse essere una merce era un’eresia. L’ideologia del consumismo ha travolto i nostri cuori e la nostra testa, ci guardiamo di continuo solo il nostro ombelico. Senza alzare gli occhi a incrociare quelli del prossimo.

Devo chiedertelo, padre Alex. Siamo a Napoli e tu sei un prete. In questa società ha grande importanza san Gennaro. Che ruolo gioca la devozione popolare a Napoli?

In questo Napoli è simile all’America Latina. La devozione popolare esprime una religiosità profonda. E va presa seriamente: gli uomini hanno bisogno di darsi spiegazioni, di capire, di avere speranze. L’uomo è un animale politico, economico e religioso. Questa devozione dovrebbe essere canalizzata: potrebbe diventare impegno sociale, forza di cambiamento. Basterebbe ascoltare l’insegnamento biblico: sarebbe un’arma formidabile per aiutarci a liberarci dall’impero del faraone. Oggi abbiamo necessità di un’utopia mondiale: siamo tutti interconnessi e stiamo vivendo anni difficili, ma è proprio nei momenti di crisi che gli uomini e le donne tirano fuori il meglio di loro stessi e trovano risorse insospettabili. Gli anni di Korogocho mi hanno insegnato che la voglia di vivere dei poveri è fortissima, che la vita è sempre più tenace della morte. Io, da credente, so che Dio non ci abbandonerà: non è il Dio dei miracoli, quelli tocca a noi farli, ma è un Padre che camminerà al nostro fianco e ci incoraggerà nella ricerca di nuove strade.

Il luogo dell’intervista
La casa del campanile. Angolo della piazza di santa Maria alla Sanità, piazza del quartiere. Bandiera della pace appesa alla finestra. Karibu, Benvenuti, scritto sulla porta. Non è una vera casa: tre micro-piani, una stretta scala a chiocciola, segni della militanza (cartelli, striscioni, volantini, riviste) al piano terra. Cucinotto (fornello portatile a due fuochi) e tavolo al primo piano. Sopra, non so. Forno a micronde scassato, intrico di fili e prese di corrente. Stufetta elettrica. Intasamento di persone in cucina. Un uomo porta i dolci fatti dalla sorella, un ragazzo vuole parlare, altri giovani, registratore e microfono in mano, aspettano l’ennesima intervista.





mercoledì 4 gennaio 2012

L'uomo che vive

Orizzonti


Lorenzo è saltato giù dalla finestra. Non era poi nemmeno così difficile. Un balzo e via. La giacca a vento bianca per il freddo, le mani in tasca, il capo chino. Poi c’e’ da scavalcare la recinzione, il filo spinato dei campi. Là non ci sono le mucche. Ha paura delle mucche, Lorenzo. E’ ancora ragazzo, undici anni. Ma chi lo tiene? Non certo la madre: lei ha 27 anni e non ha più fiato. Non sa come si fa. Solo il vecchio, l’uomo che muore, potrebbe trattenerlo. Potrebbero giocare ancora agli inganni: lui gioca a fare il bravo e il vecchio lo sa e sta al trucco.
Lorenzo ha spalmato di grasso di gradini della chiesa la notte della festa del santo patrono. Invece di ridere a crepapelle, lo hanno preso a schiaffi. Bisogna stare attenti a Lorenzo: lui ruba. Dalle borse, nelle case, nei bar, alla casa del popolo. Oggi lo hanno sopreso a fumare con una ragazzina. Aveva fatto il verso dell’accendino alla bionda slavata della terza media. Lui sta ancora in prima. A lei, ovviamente, quel delinquente piace. Non sanno fare, la sigaretta di salvia è venuta uno schifo, ma si accendeva e si poteva aspirare fumaccio profumato. Tanto basta per sognare un po’ di non essere obbligati a dar retta a nessuno. 

Orizzonti

La donna aveva sorpreso i ragazzi. Che fai quando hai 50 anni e ti senti presa in giro dai ragazzi?
Niente. Lorenzo lo spedisci in camera, le ragazze le inchiodi davanti alla televisione. Lorenzo non ci sta. La camera è solo al primo piano. Un appiglio e sei a terra. Puoi provare a scappare anche se non hai la più pallida idea di dove andare. A undici anni, non sai del tempo, per fortuna. Né del destino. Intanto vai e quei momenti, confusi fra la rabbia e la libertà, l’emozione e la paura delle mucche, mica te li prende nessuno. Sono tuoi anche se non sai goderteli fino in fondo. Intanto vai. Sei un puntino bianco fra le stoppie dell’autunno, cammini le mani in tasca, il capo chino. La testa ha pensieri che non afferri. La strada doveva essere di là. Magari in paese ci arrivi. Il vecchio ha mosso la tendina della sua finestra. Ha guardato verso il campo delle mucche. Non ha pensieri nemmeno lui. Solo un sorriso, un sorriso spossato. Occhi liquidi, quasi di serenità. Un tocco frettoloso alla porta, una donna che vuole avvertire. Il vecchio torna verso il letto e vede Lorenzo oltre il boschetto delle querci. La donna non ha atteso una risposta. E’ entrata con l’allarme addosso. Il vecchio, l’uomo che muore, non l’ascolta.
Non è vero che questo racconto-non racconto è stato scritto a San Casciano in Val di Pesa. Non oggi.